Nell’era d’oro del cinema di Hong Kong, si sfornavano ben 300 film all’anno. I volti di Bruce Lee e Jackie Chan, Michelle Yeoh e Donnie Yen si trasformavano in miti universalmente riconosciuti.
Registi come Wong Kar-Wai e Ang Lee hanno tratto vantaggio dal respiro internazionale della ex-colonia britannica e dalle politiche di sostegno del cinema all’avanguardia.
Oggi, con i recenti sviluppi politici che sta affrontando Hong Kong, che ne è di quel paradiso del cinema?
La scacco quasi matto che la Cina ha inflitto ad Hong Kong, in un percorso incrementale iniziato in precedenza, è senza dubbio la National Security Law approvata il 30 giugno 2020. La legge condanna tutto ciò che viene identificato come dannoso della sicurezza nazionale, creando in questo modo un sistema di controllo della libera espressione, che avrà effetti secondari anche sul cinema in quanto media.
Per lungo tempo, la posizione strategica (geografica e politica) di Hong Kong è stata l’anello di congiunzione tra la Cina e il resto del mondo. Accordi produttivi e distributivi con Hong Kong erano quasi imprescindibili, se il mercato d’interesse era quello asiatico.
Ma in questi anni, in cui il cuore pulsante si è spostato nella Cina continentale, Hong Kong non rappresenta più la chiave di volta. Anzi, si trova ad essere all’inseguimento di quel mercato vergognosamente ricco, sebbene la sua produzione originaria non sarebbe mai in grado di reggere il confronto con il temutissimo sistema censorio cinese.
Ciò che rimane del cinema indipendente
Esiste ancora una certa autonomia: in altre parole, è ancora viva la produzione indipendente, verrebbe quasi da dire, ad Hong Kong ben più che in Cina. Ma questi registi esordienti difficilmente posso puntare a fare il grande salto se non pensano di adattarsi alle richieste della Cina.
Mentre si racconta del documentario Do not split di Anders Hammer, candidato agli Oscar 2021, si dimentica che ci sono altre produzioni, locali, che hanno raccontato lo stesso tema: le scottanti proteste del biennio 2019-20. Uno tra questi, Inside the Red Brick Wall, un reportage dei 13 giorni di assedio del Politecnico, è stato ritirato dai cinema locali. Stessa sorte è toccata a Where the wind blows, che ha perso la sua posizione di film d’apertura al Hong Kong International Film Festival per “ragioni tecniche”. Abusatissima motivazione che nasconde verità molto meno tecniche.
Questa realtà, attuale e concreta, richiama alla mente la produzione distopica che sollevò gli animi qualche anno fa: si chiamava Ten Years, diretta da cinque registi che immaginavano la Hong Kong del 2025 sotto il controllo egemone della Cina.
Alcuni di loro hanno già realmente lasciato il Paese. Per chi è rimasto, mai come adesso è il momento di difendere la creatività e l’originalità della propria cinematografia.
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