Una voce osserva la pioggia scivolare sul vetro. Oltre la finestra, il monte QAF emerge come un fantasma. È un’immagine sospesa, intrisa di blu, che diventa subito stato d’animo: malinconia, distanza, memoria. Past Future Continuous – Gli uccelli del monte QAF, presentato alla Giornata degli Autori di Venezia, si apre con questa atmosfera e da lì non ne esce più. È un film che vive in bilico tra l’intimità di un diario e la potenza visiva di un saggio cinematografico, capace di trasformare la nostalgia in linguaggio.
Nel 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, Maryam, appena ventenne, fugge dall’Iran per salvarsi. Attraversa le montagne che separano il Paese dalla Turchia, nascosta sotto una pelle di pecora, confondendosi tra un gregge. Da lì raggiunge l’America. Ma la distanza geografica non cancella i legami emotivi: Maryam resta ancorata alla casa dei genitori, che osserva da lontano grazie ad una rete di telecamere di sorveglianza installate negli ultimi anni.
L’intero film si costruisce su questa tensione: vicinanza e lontananza, presenza e assenza, memoria e tecnologia. Lo spettatore guarda attraverso gli stessi occhi di Maryam, condivide immagini distorte dai grandangoli, spazi schiacciati e stanze immobili. Ma ogni volta che la connessione cade, il contatto si interrompe e Maryam si ritrova nuovamente altrove, senza accesso alle sue origini. È una vicinanza illusoria che rende la distanza ancora più insopportabile.
“La casa in Iran si è avvicinata sempre di più… Il mio corpo era qui. Ma stavo vivendo nella casa in Iran.”
Tra telecamere e archivi: il doppio linguaggio della memoria
Uno degli elementi più potenti del film è il suo doppio registro visivo. Da un lato, ci sono le immagini fredde e impersonali delle telecamere, che sorvegliano ogni stanza e persino il vicolo esterno. Dall’altro, affiorano frammenti d’archivio e ricordi che riportano lo spettatore anche negli anni Ottanta, quando la guerra tra Iran e Iraq sconvolgeva il Paese e le notizie arrivavano, sempre troppo tardi.
“Restavo in linea per ore finché finalmente sentivo le loro voci.”
Questo alternarsi tra presente e passato diventa un flusso continuo, quasi onirico, in cui la memoria rompe la rigidità delle telecamere, ma non restituisce mai un vero ritorno. Maryam guarda il passato come se fosse dietro un vetro, e il presente dei genitori come se fosse fuori portata, a dodici ore di fuso orario di distanza.
Qui il parallelismo con Vortex di Gaspar Noé diventa evidente: come nel film francese, anche qui la regia frammenta lo spazio, sovrapponendo due fotogrammi per mostrare vite che scorrono parallelamente. Ma mentre Noé esplora la dissoluzione della coppia e della memoria, Ahmadvand e Khosrovani usano questa tecnica per tenere unita, almeno nel ricordo, una famiglia che la geografia ha separato. Entrambi utilizzano la frammentazione visiva per rappresentare vite separate. Non è un confronto freddo, ma un tentativo disperato di ricomporre un’unità immaginaria. Come ad esempio quando i due fotogrammi dei genitori, che dormono in letti separati finalmente si incontrano grazie al testo filmico.
Gli uccelli, il pappagallo e il peso dell’assenza in Gli uccelli del monte QAF
Il titolo del film lega il monte QAF, simbolo di un’origine mitica e irraggiungibile, agli uccelli che imparano a parlare prima di volare via. È la metafora dell’emigrazione: crescere, apprendere, partire, ma continuare a guardare indietro. Gli uccelli bianchi che attraversano lo schermo in alcune sequenze evocano la leggerezza del movimento e insieme la perdita che esso comporta.
“La migrazione è una collezione di verbi”
La voce di Maryam ci accompagna dentro la solitudine dei genitori rimasti in Iran. Prima delle telecamere, le chiamate erano rare, settimanali, brevi. Ora, grazie alle immagini, la distanza sembra colmarsi, ma questa nuova vicinanza amplifica una realtà dolorosa: i genitori invecchiano, vivono separati, si addormentano in stanze diverse. Maryam spera che non sia colpa delle telecamere e che il loro sguardo elettronico non abbia spezzato qualcosa che prima resisteva.
Per riempire il vuoto, i genitori adottano un pappagallo e lo chiamano Myriam. Un nome che diventa memoria, sostituto imperfetto della figlia assente. Il pappagallo impara a parlare, ma le parole che ripete non colmano l’assenza: la amplificano. È un gesto tenero e crudele allo stesso tempo, simbolo di un legame che non si spezza ma che non trova più una forma viva.
Un’opera sospesa tra videoarte e saggio cinematografico
Gli uccelli del monte QAF è un film profondamente personale. Morteza Ahmadvand, artista multimediale nato a Khorramabad, ha un percorso che attraversa pittura, scultura e video-arte. Le sue installazioni come Flight, che fanno parte della collezione permanente del Pompidou, e Becoming, presentata alla Biennale di Venezia 2019, hanno sempre indagato identità, memoria e coesistenza culturale. Qui, l’uso delle telecamere come dispositivo narrativo riprende la stessa logica: lo sguardo esterno diventa linguaggio concettuale, quasi una videoinstallazione trasformata in opera filmica.
Firouzeh Khosrovani, documentarista premiata a livello internazionale, porta invece la sua sensibilità autobiografica, già evidente in Radiograph of a Family (2020), vincitore di due premi all’IDFA, e nei suoi lavori precedenti che esplorano il rapporto tra identità personale e collettiva. Insieme ad Ahmadvand, costruiscono un’opera ibrida che sfugge alle definizioni: è documentario, ma anche saggio visivo; diario personale e riflessione politica.
“Past Future Continuous si ispira alle esperienze personali di amici e famigliari che hanno lasciato l’Iran alla ricerca di una nuova vita… Il film riflette sulla silenziosa perdita di legami, sul calore sbiadito di questi spazi e sull’amore duraturo che sopravvive nonostante la distanza.”
Alla fine, Gli uccelli del monte QAF non racconta la partenza come Inside Amir di Amir Aziz, bensì ciò che rimane: le stanze vuote, le strade che si svuotano, gli spazi che smettono di appartenere a qualcuno. Lo fa con un linguaggio visivo che intreccia immagini di sorveglianza, frammenti d’archivio e soggettive intime, restituendo allo spettatore un senso di sospensione costante tra ciò che è stato e ciò che non potrà più essere.
“I miei amici americani non capivano. Come puoi avere paura di tornare a casa tua?”
Past Future Continuous – Gli uccelli del monte QAF