Lei mi parla ancora di Pupi Avati è un film sulla rimembranza dell’amore ma anche la summa poetica di un autore eternamente giovane. Dopo il passaggio su Sky, Lei mi parla ancora è in visione nelle sale italiane. Alla vigilia dell’inizio delle riprese del lungometraggio su Dante Alighieri, abbiamo intervistato il regista bolognese.
Inizierei dalla prima sequenza che io ho trovato magica. C’è di mezzo una suggestione, un giradischi d’epoca, una canzone, una persona che si rivolge alla macchina da presa e a un pubblico ideale: si sfonda la terza parete e la narrazione da lì in poi diventa proustiana, bergmaniana, anche nella messa in scena.
Grazie. Questo tipo di sfrontatezza la debbo innanzitutto alla mia età, alla conoscenza della vita, non so se traspare, ma penso di sì. Il fatto di avere letto del tutto casualmente il libro scritto dal padre di Elisabetta Sgarbi e di avervi riconosciuto gran parte di quella che è la mia concezione, non solo della vita ma anche delle unioni affettive, mi ha dato il coraggio di proporre un film – come dice lei – così anacronistico e lontano dal presente. Ovvero la storia di un matrimonio lungo sessantacinque anni, con un protagonista che sta tra gli ottanta e i novant’anni: tra l’altro interpretato da un attore, Renato Pozzetto, che viene da un mondo diverso da quello della storia, avendo alle spalle una filmografia di commedie comiche degli anni settanta e ottanta, e che in più non lavorava da un po’ di anni.
Lei mi parla ancora era un film molto complicato non solo da immaginare ma soprattutto da finanziare perché il cinema purtroppo si fa con i soldi. Non è come scrivere una poesia o una canzone, accompagnandosi con la chitarra. E’ necessario trovare una committenza illuminata che accoglie questa proposta e se ne innamora: prima sulla carta e poi dopo aver visto il film.
Capita anche che ci siano degli episodi risarcitori nei riguardi della vita di tutti noi. Ogni persona passa dei periodi molto tristi, bui e complessi, poi improvvisamente succede che, insistendo, attendendosi qualche cosa, il risarcimento in qualche modo arriva. Ecco, Lei mi parla ancora è un film che ha una valenza risarcitoria incommensurabile nei riguardi del lavoro mio e di mio fratello, perché apprezzata da ambiti culturalmente, socialmente e anagraficamente molto diversi tra di loro.
Questo fa sì che io veda anche il paese in una maniera diversa, cioè che io consideri questa Italia così bistrattata, così sotto considerata, sottovalutata, forse poco ascoltata, manifestarsi invece sensibile a delle sollecitazioni alte. Perché questo film non si occupa certamente del chiacchiericcio del cortile sotto casa o del dibattito sul PIL, bensì della vita e della morte, delle stagioni della vita, della circolarità del tempo.
Lei ha citato acutamente Bergman: questo è un film che avrei dovuto dedicare a Lui perché con Il posto delle fragole il regista svedese racconta una storia sulla circolarità del tempo e su come alla fine del percorso la nostalgia non è più relativa alla tua giovinezza ma piuttosto della tua infanzia, quella a cui vuoi tornare per essere di nuovo il ragazzino di molti anni fa.

La prima e l’ultima scena sono dominate dalla presenza dell’elemento sonoro. Nel suo cinema la musica ha una funzione fortemente evocativa e anche in Lei mi parla ancora entra nella storia di Caterina e Nino non solo in funzione narrativa ma pure per sottolineare l’armonia esistente nella vita della coppia. Nell’altra sezione del racconto, quella relativa ad Amicangelo, (il ghostwriter interpretato da Fabrizio Gifuni, ndr) il commento musicale è assente, proprio perché l’esistenza del personaggio è priva di armonia, quindi di musica.
Bravo, è vero! mi fa piacere! (ride, ndr). Quando sento qualcuno che vede certe cose che faccio, lei non sa quanto mi senta gratificato perché è la prima persona, e io di testimonianze per questo film ne ho ricevute tantissime, dico, è la prima persona che si è accorta di questo aspetto. Mi rallegro.

Anche in questo film, soprattutto in questo, si parla dell’importanza dei luoghi, un tema che ha sempre avuto asilo nel suo cinema: in questo caso però gli spazi sono impregnati di poesia leopardiana e pascoliana al punto di diventare pura rappresentazione delle loro liriche. Quando Nino – il personaggio interpretato da Pozzetto – osserva il paesaggio naturale attraverso la finestra di casa, il film sembra evocare l’infinito leopardiano.
E’ un tentativo per uscire dal tempo presente, per entrare in quello sospeso. Se lei avesse letto la mia sceneggiatura, accanto alle descrizione delle singole scene avrebbe trovato la scritta indicante la presenza del tempo sospeso. Era un suggerimento di per sé poco indicativo per troupe e tecnici, ma voleva sottolineare il mood presente dentro di me mentre scrivevo il film: lo sentivo come qualche cosa di necessario, senza però sapere come visualizzarlo, come tradurlo, come farlo diventare carne. Debbo dire che la parte dell’Emilia in cui è stato girato ha questa caratteristica: se lei ne percorre un argine, dove si dilatano queste distese d’acqua, può trovare qualche casolare sovrastato da nuvole e sorvolato da aironi che si alzano in volo lontani, e poi null’altro. Lì si ha la sensazione di essere veramente fuori dal tempo. Tanto che se lei provasse a chiedere a un ipotetico compagno di viaggio in che periodo vi trovate, lui si guarderebbe intorno senza sapere cosa rispondere. Quel tempo lì, quel luogo lì, ancora conservano questo tipo di sensazione. Lei mi dice che Nino guarda dalla finestra e vede quel tempo sospeso di cui parlo. Allora io le rispondo che quello è il tempo auspicato, l’infinito da cui si sente protetto e che entra a far parte di tutte le cose. Pensi a quella bellissima definizione di Cesare Pavese sull’immortalità citata verso la fine del film: anche quella frase proviene dalla cultura contadina. Seppur tratta da I dialoghi di Leucò, è in quel tipo di cultura che si sente la necessità di trasmettere la memoria delle persone scomparse. Si tratta di una testimonianza che passa di mano in mano, di generazione in generazione; cosa che adesso non esiste più e di cui nessuno avverte più la mancanza, poiché ci pensano le macchine a ricordare al posto nostro.
A proposito di Leopardi, scrivendo del suo film, ho detto che Lei mi parla ancora è un’opera sulla rimembranza. Più in generale tutto il suo cinema è fondato sulla rimembranza come capacità data alle immagini di rievocare il tempo perduto. Cosa ne pensa di questa definizione?
Non solo la condivido ma l’avverto come un dovere perché al di là di quanti vedranno il film e di quanto di esso rimarrà in loro, il fatto di trattenere le cose equivale ad avere la nostalgia del presente.

A proposito della nostalgia del presente, mi piacerebbe saperne qualcosa di più?
La nostalgia del presente mi fu insegnata da Hermes Pan, il coreografo di Fred Astaire e Ginger Rogers, colui che ha collaborato con l’attore ballerino in ben diciotto film. Nel 1980 venne in Italia per fare le coreografie di un mio film con Mariangela Melato intitolato Aiutami a sognare. L’avevo chiamato soprattutto per farmi raccontare degli anni d’oro del musical americano, almeno per me i più straordinari dello show business americano. Al secondo giorno di riprese gli chiesi – ma com’era quando stavi con George Gershwin, con Busby Berkeley, con Fred Astaire e Ginger Rogers? In che modo creavate spettacoli poi diventati film tra i più amati da intere generazioni? – e lui – vivevamo la nostalgia del presente! -, ove per essa Hermes intendeva la sensazione di vivere un momento eccezionale e irripetibile della loro vita.
Questo stato dell’anima ogni tanto ce l’abbiamo anche noi. A me, per esempio, capita in occasione del compleanno dei miei figli: nel ristorante ci sono la tavola imbandita e attorno a essa figli e nipoti, e poi mio fratello, i volti illuminati dalla luce delle candele poste sul tavolo. Ecco, in quel momento vivo una misteriosa e straordinaria gioia fino a quando il cameriere viene a chiedermi la carta di credito per pagare il conto. Lì si rompe tutto l’incanto però – considerando la nostalgia del presente -, quell’immagine nel frattempo l’ho preservata e l’ho riposta in un luogo speciale – come fece Hermes Pan con George Gershwin e Fred Astaire -, al quale a volte ricorro. In quei momenti so di essere stato felice. E’ questo che voglio dire.
Lei mi parla ancora è anche un film sul senso della vita: Nino ha già compiuto la ricerca che gli ha permesso di trovarlo, Amicangelo invece no. Provenienti da esperienze opposte, alla fine i due si ritrovano in perfetta sintonia, tanto che il personaggio di Gifuni sostituisce quello di Pozzetto come voce narrante, a legittimare una medesima visione dell’esistenza.
C’è un punto, verso il finale, in cui Gifuni racconta di come da anziani si smetta di abbracciarsi. In realtà si tratta di una frase assente nel libro che mi è stata detta da mia moglie, ed è verissima. Da una certa età in avanti l’affetto rimane, anzi, forse aumenta, ma rispetto a tutto quello che ha a che fare con la fisicità insorge una sorta di pudore, si torna a una sorta di distanza. Nel film è Gifuni a dirlo, leggendo nel computer un passaggio del libro e Pozzetto obietta – ma io questa cosa non l’ho mica detta – e lui – la togliamo? – e Pozzetto – no, lasciala -. Con quella scena intendevo sottolineare come Amicangelo sia stato completamente, non dico plagiato ma conquistato dalla visione esistenziale di Nino. Tanto è vero che poi tornerà a Roma e andrà a prendere la figlia per portarla a scuola. Amicangelo in qualche modo compie una riflessione sulla sua vicenda umana: è costretto a farla dopo averla continuamente rimandata.
Diventa quello che non era prima, e per esempio uno scrittore nel vero senso della parola, perché finalmente ha qualcosa di suo da comunicare.
Bravo, bene, è così.

Lei per me è stato ed è tuttora uno dei pochi registi che ha raccontato meglio di altri due aspetti dell’esistenza umana: il romanticismo dell’innamoramento e la tenerezza che ne deriva.
È nella mia natura, mi è stata tramandata dal mondo da cui provengo. Ho avuto dei genitori che si sono molto amati. Mio padre se ne è andato a quarantuno anni e mia madre una volta perso il marito è rimasta perennemente legata all’idea di quel ragazzo a cui aveva dedicato tutta se stessa. Quell’idea ci è stata trasmessa con il latte, con il cibo che ci veniva dato. È stato il tipo di educazione dalla quale molti miei coetanei hanno preso le distanze; perché soprattutto a metà degli anni sessanta c’è stato il rifiuto completo di tutto quello che c’era prima. Io non ho partecipato a quel tipo di condivisione, essendo da sempre convinto di dovere un’enorme riconoscenza a chi mi aveva educato all’insegna del buon senso. Ancora oggi, a ottantadue anni, certe volte quando prendo una decisione penso a cosa avrebbe fatto mio padre ed è sempre la cosa giusta perché attiene al buon senso, senza pretendere di essere altro. Anche Pozzetto nel film altro non fa che affidarsi ad esso: non ha verità segrete da nascondere ma si rimette al buon senso. Lei mi parla ancora poteva rappresentare uno scandalo, una provocazione che alla fine non c’è stata. Sono invece rimasto un po’ deluso dalle reazioni del mondo cattolico. Il film ricandidava nel bene come nel male la centralità del matrimonio. Ciononostante è stato apprezzato in tutti i contesti, compresi quelli più laici e distanti da me. Al contrario, le testate cattoliche non hanno scritto una riga sul film. Non che non ci dorma la notte, però la cosa mi stupisce un po’.
E’ riuscito a darsi una spiegazione?
No, volevo soltanto condividere con lei un po’ di delusione perché penso che se c’è una proposta completamente fuori moda è quella di rimettere al centro dell’esistenza il matrimonio. Pensare che il film è stato così apprezzato anche da persone che hanno avuto problemi con questa istituzione mi ha fatto molto piacere. Ecco, forse il mondo cattolico si è un po’ distratto. Non lo so. Me lo chiedevo e pensavo che lei avesse una risposta…
Nel suo film ho visto in realtà l’incontro di questi due mondi, e in particolare l’accoglienza di quello cattolico nei confronti di coloro che come il personaggio di Gifuni hanno avuto un’esperienza diversa. Quell’accoglienza, quella tenerezza di cui dicevamo. Secondo me ha determinato la risposta favorevole da parte di ambienti non vicini al suo pensiero. E magari potrebbe aver scontentato gli altri.
Tornando alle domande, lei racconta storie in cui ci ricorda da dove veniamo e lo fa sempre dialogando con il nostro presente. Dunque è anche questa una delle funzioni del cinema e cioè quella di farci ragionare sulla nostra storia per cambiarne le cose che non funzionano? Dicendo questo mi riferisco anche al percorso compiuto dal personaggio di Gifuni.
Io credo che un film debba trovare un suo senso e quello di questo film l’ha sintetizzato molto bene lei. È quello, vuole essere quello, pretende di esserlo e forse, senza apparire presuntuoso, riesce nel suo intento.

Le volevo chiedere se il successo di Lei mi parla ancora sia servito a sbloccare l’avvio delle riprese del suo progetto su Dante Alighieri.
È così. Lo ha immediatamente semplificato, ha sciolto quella sorta di pregiudizio che per diciotto anni ho vissuto nei riguardi di quel progetto. Non è che nel frattempo sia stato con le mani in mano, perché ho fatto tantissimi altri film. Tuttavia quello su Dante per diciotto anni ho continuato a proporlo nell’indifferenza, se non nella schizzinosità, degli eventuali committenti. Oggi è evidente che il risultato di questo film mi ha aiutato. Adesso la questione si è del tutto sbloccata.
Una notizia molto bella.
E’ bella non soltanto per me ma anche per i tanti che non sanno chi è Dante Alighieri, Attraverso questo film avranno qualche informazione in più su di lui e sulla vicenda dell’italiano più famoso nel mondo.
Non posso non chiedere come vede in questo momento lo stato del cinema?
Il cinema a livello di fruizione è destinato solo ad aumentare la sua produzione e quindi le persone che fanno questa mia professione, sia nei reparti tecnici che in quelli più creativi, non avranno sicuramente problemi, perché il consumo è aumentato a dismisura, purtroppo non attraverso le sale cinematografiche. Con l’aumento delle piattaforme la richiesta di film è destinata a salire. Chi avrà problemi sarà l’esercizio, cioè la sala cinematografica. Durante la pandemia non ci siamo privati del cinema ma ne abbiamo usufruito sotto altra forma. Penso che il destino della settima arte sia quello di essere fruita attraverso forme diverse. Detto questo, la sacralità della sala cinematografica è insostituibile
C’è un film bello che ha visto ultimamente?
Sì, Favolacce dei fratelli D’Innocenzo.