Dieci anni dopo Una sconfinata giovinezza, giudicata fino al 2010, la più bella storia d’amore raccontata da Pupi Avati, il regista torna a parlarci di due persone, davvero anziane questa volta, con un passato condiviso più lungo che rende il distacco ancora più intollerabile.
Lo fa in Lei mi parla ancora, ora, finalmente in sala, dopo essere stato trasmesso su Sky Cinema Uno. Il film è prodotto da Antonio Avati, Luigi Napoleone, Massimo Di Rocco, e distribuito da Vision Distribution.
Pupi Avati è un narratore sapiente, che sa armonizzare sentimenti ed eventi, e affidarsi ad attori credibili nel loro ruolo. Lei mi parla ancora, come altri suoi film, del resto, aggiunge un tocco poetico che difficilmente si dimentica.
La storia di un amore che dura
Nino (Renato Pozzetto) e Rina (Stefania Sandrelli) sono insieme da sessantacinque anni. Nino e Rina: simmetrici persino nei loro nomi, nel lavoro di farmacisti di tutta la vita, nella passione per le opere d’arte, condivisa anche con i figli. Quando lei muore, lui reagisce prima con la negazione e l’intontimento, poi con un dolore al quale non sa e non può arrendersi.
La figlia Elisabetta (Chiara Caselli) assume un ghost writer, Amicangelo (Fabrizio Gifuni), perché scriva la vita del padre, pensando di farlo uscire dallo stato di autismo nel quale si è confinato. Lo scrittore accetta solo per le insolvenze economiche che lo assillano. E per la speranza che il suo romanzo, rifiutato da tutti, possa essere pubblicato da Elisabetta, che ha un ruolo importante in una casa editrice. Tra Nino e Amicangelo, dopo la diffidenza iniziale, si stabilirà una forte intesa, terapeutica per entrambi.
Le resistenze e l’accettazione
Quando Amicangelo riceve la proposta di andare a Ferrara per registrare i ricordi di Nino e farne un libro, risponde che non si sogna neanche di fare diventare Proust un vecchio che straparla. Nino, da parte sua, lo accoglie in maniera gelida e, se accetta, dice solo che lo fa per compiacere la figlia. Lo sappiamo che diventeranno amici e che è solo questione di tempo. Ma Pupi Avati non dedica tanto del suo film ai dialoghi tra loro e all’anno dei loro incontri, rendendoci complici di un’intesa data per scontata.
Bastano poche scene: la prima, in cui Gifuni presta la sua voce calda e il sorriso, mentre finalmente Nino gli consente di accendere il registratore. Basta poi il rispetto con cui chi ascolta dice a chi parla che se vuole si può cancellare una parola oramai superata e Nino risponde: è bella, però! E l’ultima, quella del saluto, che vede Amicangelo sporgersi dal finestrino mentre l’auto si allontana e Nino rimane sullo sfondo. E ancora, le ultime sue parole prima del congedo: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale, il ricordo che porta, il ricordo che lascia”. È una citazione di Pavese che Amicangelo non riconosce, ma che importa!
Non sa che la citazione continua così: “Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti.”. Le parole sono ridotte a una dichiarazione di amore che ripetendosi, si rinnova, i nomi sono uno solo, Rina, anzi La Rina.
L’elogio dell’amore che dura
La promessa che torna più volte nella coppia è quella dell’immortalità, se si fossero scambiati infinito e reciproco amore. Sempre, in tutte le stagioni. È il testo della lettera che Rina (da giovane: Isabella Ragonese) scrive a Nino (Lino Musella) il giorno del loro matrimonio. Che torna nei ricordi, prima involontari (e non di un Proust che straparla!), poi sempre più consapevoli, a mano a mano che si apprezza l’opportunità del raccontarsi. Nell’impegno mantenuto, c’è tutta la sacralità, il mistero del volersi bene per sempre. Un amore simile coinvolge, noi spettatori e lo scrittore fintamente cinico, che sembrerebbe aver perso se stesso scrivendo di altri e per gli altri.
Ma non è un caso che il suo romanzo, la fatica degli ultimi cinque anni, sia intitolato proprio Di cosa parliamo quando parliamo di Carver, alludendo al testo dello stesso Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. E Pupi Avati ce lo mostra a grandi caratteri, mentre Amicangelo lo guarda compiaciuto sullo schermo del computer.
Una coppia che si basta e la resa intensa di altre coppie
Nei ricordi di Nino non compaiono mai scene familiari. Solo quella con un neonato in braccio e un’altra nella quale lei annuncia la seconda gravidanza. Ora i figli sono diventati genitori del loro genitori, soprattutto Elisabetta che definisce il padre la persona che ama di più al mondo. Ma quando si rievoca il passato, sono assenti.
Nel dialogo iniziale che li vede a letto, quando Rina lo vuole consolare per la sua malattia e gli dice: Per te ci sono i nostri figli, lui risponde: Per me ci sei tu. Un’esclusività che non sappiamo quanto abbia inciso sulla psicologia di Elisabetta e del fratello, ma che rafforza il loro indissolubile legame.
Sono poche anche le scene di gruppo, a parte qualche ballo. Bellissima quella con la canzone Non partir e un cantante che imita Fred Buscaglione.
Frequenti invece quelle di coppia, e non solo tra marito e moglie. Intensi i momenti tra Nino e Bruno (Alessandro Haber), il fratello di Rina, col quale Nino, da giovane, imbastiva gare di poesia e che ora, ormai morto, gli compare per convincerlo a non aver paura, e ad accettare la solitudine. Anche a lui Pupi Avati mette in bocca la stessa citazione di Pavese: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale, il ricordo che porta, il ricordo che lascia”.
Presente e passato, sogno e realtà
Presente e passato, sogno e realtà, memoria che confonde, ma che consola. Il pregio più evidente del film è la fluidità con cui le sequenze si mescolano come nella mente di una persona anziana che ripensa al proprio vissuto. L’unica differenza sono i colori luminosi, e il sorriso radioso di Rina/Isabella, degli esterni, nel delta del fiume, soprattutto. I costumi di Beatrice Giannini e la scenografia di Giuliano Pannuti, insieme alla fotografia di Cesare Bastelli hanno reso poi il presente in interni bui, affollati di tutti quei cimeli che, saranno anche opere d’arte, ma quanto sono ingombranti!
Vien da pensare che l’acquisto e l’accumulo di così tante sculture sia stato, più che una passione condivisa, l’ investimento nevrotico di tutta la famiglia. Elisabetta sembrerebbe non avere figli e se ci sono (forse quelli del fratello) si intravedono appena. Nessuna attenzione viene dedicata alla generazione dopo Nino e Rina. Anche la servitù è lì da tanto tempo, in un incastro affettivo che guarda al passato. Pupi Avati coglie anche questo limite, quando le relazioni di coppia sono o sono state troppo intense. C’è qualche ombra nella meraviglia di una vita passata insieme, qualcosa che non la rende perfetta e quindi ancora più credibile.
Per ora, a dirla con Carver, quello vero: “Lui aveva un sacco di cose da dire, parole di rimpianto, parole di consolazione, cose così”.
E quelle parole smozzicate, lo stupore di Renato Pozzetto (bravissimo!) mentre le pronuncia, insieme alle note di Non partir, ci restano addosso anche giorni dopo aver visto Lei mi parla ancora, film che difficilmente si dimentica.