Marcia Gay Harden ha attraversato da protagonista gli ultimi quarant’anni del cinema americano, lavorando, tra gli altri, con i fratelli Coen (Crocevia della morte), Clint Eastwood (Space Cowboys, Mystic River), Sean Penn (Into the Wild), fino ai tre episodi di 50 sfumature, passando per pellicole molto amate come Il club delle prime mogli, Mona Lisa Smile, Vi presento Joe Black. All’Ischia Film Festival ha incantato tutti con la sua presenza magnetica, la profondità degli interventi, l’innata simpatia così lontana dai cliché delle star hollywoodiane.
Premiatissima attrice anche di teatro e serie televisive, Marcia Gay Harden ci ha raccontato i momenti più importanti della sua lunga carriera.
Il film presentato all’Ischia Film Festival è Crocevia della morte (1990). Cosa ti ha colpito di più del modo di girare e scrivere dei fratelli Coen?
Crocevia della morte è stato il mio primo film. Sono passata in quel momento dalla scuola di recitazione, dalla speranza di essere un’attrice, a diventare un’attrice vera e propria. Per me è stata un’opportunità monumentale. I fratelli Coen mi hanno dato questa incredibile possibilità, a me che ero un’esordiente, anche perché c’erano nomi importanti in lizza per lo stesso ruolo. Ho interpretato un personaggio particolarmente forte e intenso, una femme fatale che non seguiva le regole dell’epoca (il film è ambientato all’inizio degli anni ’30). Faceva sesso fuori dal matrimonio, non era sposata, frequentava due uomini diversi allo stesso tempo. Era molto più moderna delle altre donne. Conosceva i suoi desideri e i suoi obiettivi. Per il resto, i fratelli Coen sono molto precisi e, essendo il mio primo film, non mi sentivo di portare avanti anche certe idee che avevo sul personaggio. L’ho accettato tutto, al 100%, così com’era, anche perché la scrittura era eccellente. La cosa divertente dei due fratelli è che, magari, uno cominciava una frase e l’altro la finiva. Sembravano vivere in simbiosi.

Crocevia della morte
Come ti sei preparata per calarti in quel ruolo?
Oggi, normalmente, si riceve la sceneggiatura e poco dopo si deve andare sul set. Invece i Coen mi hanno dato ben tre settimane per prepararmi. Ho avuto il tempo di leggere libri noir, guardare vecchi film come Nemico pubblico o quelli con Jean Harlow, a cui mi sono anche ispirata, il tutto per immedesimarmi nel personaggio. Verna Bernbaum era una persona seduttiva, manipolativa, per potersi difendere in un mondo molto maschile e violento, in un’epoca in cui le opportunità per le donne erano davvero poche. Ha dovuto trovare il suo modo di affrontare le cose, in un ambiente d’illegalità dove c’erano in gioco tanti soldi. Si doveva comportare un po’ come un serpente. Una cosa che amo dei personaggi che interpreto è capire come si muovono, come si siedono, come “suonano”. Ho lavorato molto anche sulla voce, il linguaggio del corpo, per riuscire a costruire questo personaggio. Era come una giocatrice di poker, così mi sono comportata. Ho cercato di portare al massimo l’imitazione fisica, adattandomi ai vestiti del tempo, ai corsetti, ai capelli corti. Detto questo, non ti nascondo una certa insicurezza in quella mia prima prova. Ero molto nervosa, volevo fare un ottimo lavoro, volevo che tutti mi apprezzassero, che mi dicessero sei stata bravissima a ogni ciak. A scuola di recitazione ti riempivano di complimenti per cose minime, lì sul set, magari, davi il meglio di te e ti dicevano: «Ok, bene, andiamo avanti». Questa è stata una delle cose più difficili che ho dovuto affrontare, cercavo costantemente di ricevere approvazione.
Quando hai assecondato la tua vocazione di attrice che cosa ti piaceva di più di questo mestiere e quali erano i tuoi modelli e miti attoriali?
Io ho sempre molto amato il cinema degli anni ’40. Quel tipo di personaggio che, per esempio, faceva Barbara Stanwyck, quel tipo di donne che ti fa percepire che stavano cambiando le cose: donne seduttive, forti, indipendenti. Come Katherine Hepburn, che portava i pantaloni nei film. Adoro quel periodo della storia del cinema. Il colpo di fulmine che mi ha fatto innamorare di questo mestiere, però, è stata la visione di Tutti insieme appassionatamente di Robert Wise.
I tuoi sono personaggi femminili molto forti. Credi sia un caso che tu abbia attirato quasi sempre ruoli del genere?
Ho interpretato ruoli e donne molto diverse tra loro. Per prima cosa, penso che ogni donna sia un essere totalmente individuale, non esiste un unico modo di esserlo. Trovo, per esempio, sorprendente che persino negli Stati Uniti ci siano movimenti che chiedono alle donne di restare a casa, non andare in scuola, essere buone cristiane in questo modo. Mi piacerebbe parlare delle nostre continue conquiste, ma, anche nei Paesi più culturalmente avanzati, c’è bisogno di un’assoluta vigilanza per assicurarci il diritto di fare qualsiasi cosa vogliamo essere: madre, omosessuale, trans, single. È importante non interrompere mai questo cammino. Detto questo, se allargo lo sguardo al mondo, se penso alla situazione in Iran dove, da un giorno all’altro, le donne non sono più potute andare all’università, trovo difficile poter dire che le cose sono cambiate. Io cerco di impegnarmi in prima persona per quanto posso, sempre. In tutto il mondo vediamo donne perdere i loro diritti, agli uomini questa cosa non succede quasi mai, il loro mondo è molto più stabile rispetto al nostro.
Crocevia della morte
Tu hai lavorato con i più grandi attori del cinema hollywoodiano. C’è qualcuno che ti ha impressionata particolarmente per il suo metodo attoriale?
Voglio citare invece un attore italiano: Marcello Mastroianni. Abbiamo lavorato insieme in La vedova americana (1992) di Beeban Kidron. Era meraviglioso come lui metteva il cuore in tutte le cose, come fosse sempre rilassato, mi ha insegnato molto, compreso ad amare l’Italia attraverso i suoi racconti.
Che cosa ti ha affascinato di più della vita della pittrice Lee Krasner, ruolo per il quale hai vinto un Oscar nel 2001?
Era una donna che salvava un uomo e il suo talento, si sacrificava per lui, ne sopportava il carattere, la malattia, i disturbi. Contemporaneamente era un’artista, una donna forte, indipendente. Lee Krasner era davvero interessante. Inizialmente non aveva molta considerazione di sé come pittrice. Si è messa da parte per supportare Jackson Pollock. Ha avuto bisogno che lui non ci fosse più, che fosse fuori dal suo sguardo, per amare e apprezzare il suo lavoro. Ha avuto bisogno di tempo per capire realmente quanto valesse, per credere nella potenza e nella bellezza della sua arte.
Hai fatto due film importanti con Clint Eastwood, Space Cowboys (2000) e Mystic River (2003). C’è una specificità nella sua direzione degli attori e nella sua visione del cinema?
Ho amato particolarmente il mio ruolo in Mystic River. È un personaggio al cuore del film, per il quale ho anche combattuto. Mi ero letta il romanzo da cui il film era tratto, La morte non dimentica, di Dennis Lehane, per prepararmi al personaggio. Ricordo che, mentre lo stavamo girando, Clint Eastwood l’aveva escluso da tutta una serie di scene in cui lei era presente nel libro. Io ogni volta glielo facevo presente per avere più spazio e lui: «Ok, mettiamola», una, due, tre, non so quante volte ha finito per dirmi di sì, senza scomporsi mai, com’è il suo stile. Nel film è rimasto praticamente tutto. Anche il montatore Joel Cox si era convinto che questi miei momenti nella storia fossero importanti. Il mio personaggio è una donna che pensa di fare la cosa giusta, confidandosi con la persona sbagliata, accumulando una tragedia con un’altra.

Marcia Gay Harden
Un altro dei tuoi film cult è Into the Wild (2007), diretto da un altro regista/attore, come Sean Penn, dalla personalità molto forte. Che aria si percepiva sul set? Si intuiva la grandezza di quel film?
Il libro di Jon Krakauer, da cui il film era tratto, era così bello che era difficile non immaginare sarebbe stato un grande film. Era una storia meravigliosa, molto forte, toccante, sull’esistenza. Quello che non sapevo è che Sean Penn si sarebbe rivelato un autore così straordinario nel raccontarla. Ho subito percepito l’importanza che avrebbe avuto questo film quando ho ascoltato le musiche per il film di Eddie Vedder. Le sue sonorità e la visione di Sean Penn si sono messe insieme creando qualcosa in più rispetto a quello che mi aspettavo.
Tu hai avuto una lunghissima carriera come attrice in serie televisive dalla fine degli anni ‘80 a oggi. Com’è cambiato, se è cambiato, il mondo della serialità televisiva?
Non cambia il mestiere dell’attore, ma credo che il sempre crescente peso delle serie televisive cambi il tipo di produzioni che si scelgono di fare e, soprattutto, l’esperienza che lo spettatore fa dei film, che diventa sempre più solitaria. Prima era un’esperienza di comunità, non è più così per le persone. Ora se lo guardano ovunque, anche sul loro telefono. Penso questo influenzi i film che si fanno. Noi, come attori, continuiamo a fare la stessa cosa: recitare e cercare in questo la verità. Quindi mi importa relativamente come le persone guardano il film che faccio. Io cerco sempre di essere vera, di rimanere fedele a me stessa. Per lo sviluppo del personaggio, invece, preferisco il cinema, perché conosci già il tuo arco narrativo. Sai cosa succede dall’inizio alla fine, quindi puoi calibrarlo meglio. Nelle serie, non lo sai. Puoi iniziare come un ruolo minore e finire per diventare più importante oppure all’inizio sei una persona innocente e diventare un’omicida di massa. Non lo sai. Pensi d’interpretare un personaggio fatto in un determinato modo e poi, a un certo punto, durante la serie, ti chiedono di stravolgerlo completamente, diventando magari più cattiva o più sexy, quindi non sei realmente tu a gestire il tuo ruolo. Questa cosa non mi piace molto. La televisione si adatta di più ai bisogni del pubblico. Detto questo, ci sono anche delle serie davvero fantastiche, come Game of Thrones.

Che Todd ci aiuti – Serie tv
A teatro hai recitato grandi classici, come Čechov e Tennessee Williams, e in alcune delle più importanti, originali opere degli ultimi anni, come Angels in America di Tony Kushner e Le Dieu du Carnage di Yasmina Reza, per le quali sei stata anche premiata e che testimoniano la totale completezza del tuo bagaglio di attrice. Quali sono i ricordi più forti di queste esperienze?
Angels in America è stata una grandissima esperienza. Non ha cambiato il mondo, ma sicuramente la vita di molte persone e questo mi rende molto orgogliosa. Quando ho vissuto nel West Village, a New York, c’erano molti gay e i ragazzi mi fermavano per strada chiedendomi se fossi la Marcia Gay Harden di Angels in America. Mi dicevano che molti di loro avevano portato i genitori a vedere l’opera per dire loro che stavano morendo di aids o per rivelare che erano gay. Per me Tony Kushner è uno dei più grandi scrittori al mondo. Molte famiglie hanno vissuto un cambiamento dopo questo spettacolo. Ad esempio, c’è una scena in cui sul palco dei personaggi hanno un rapporto sessuale non protetto e ogni sera puntualmente qualcuno nel pubblico mormorava perché magari aveva vissuto quell’esperienza sulla propria pelle.
C’è un grande regista con cui ti piacerebbe, in particolare, lavorare tra quelli con cui non hai ancora recitato?
Il primo nome che mi viene in mente è Jane Campion, mi piace la maniera in cui dirige, è meravigliosa. Poi mi piacerebbe molto lavorare con Wes Anderson, ho adorato i suoi primi film. E Pedro Almodovar, ah, il suo sguardo sulle donne… Un film che ho amato particolarmente negli ultimi anni è stato Roma, di Alfonso Cuarón, un altro autore con cui mi piacerebbe tanto lavorare, per la maniera in cui vede il mondo e il dolore dell’essere umano. In realtà credo mi piacerebbe recitare per tantissimi altri registi. Non vorrei mai smettere di fare questo mestiere, lo amo visceralmente.

Marcia Gay Harden con il direttore dell’Ischia Film Festival, Michelangelo Messina