Luca Zingaretti ha presentato all’Ischia Film Festival la sua prima regia cinematografica, La casa degli sguardi (2024), parlando del suo desiderio di passare dietro la macchina da presa dopo una lunga carriera di attore tra teatro, cinema e televisione, raccontandoci il suo rapporto con Andrea Camilleri e il personaggio che lo ha reso più celebre: il commissario Montalbano.
Perché hai sentito il bisogno di passare dietro la macchina da presa?
Da una decina d’anni avevo questo desiderio, negli anni è diventata un’urgenza. Stavo lavorando a un mio soggetto originale, quando mi è capitato di leggere un romanzo di Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, da cui poi è stata tratta una famosa e fortunata serie Netflix, anche se, quando l’ho letto, non se ne parlava ancora. Non da aspirante regista, ma da lettore, ho avuto il desiderio di saperne di più su quest’autore. In libreria trovai La casa degli sguardi, che mi fulminò.
Cosa ti ha affascinato di più della storia raccontata nel romanzo di Daniele Mencarelli?
Al di là della storia in sé, di questo ragazzo estremamente sensibile, che ha un male di vivere profondo, quello che più mi ha parlato, e su cui si concentra il film, è la straordinaria capacità che abbiamo noi esseri umani di saperci rialzare quando la vita ci ha fatto uno sgambetto o ci ha dato una sonora bastonata. A un certo punto, nel buio, vediamo una luce e capiamo che è l’uscita dal tunnel, raccogliamo tutte le forze rimaste e ci rimettiamo in piedi, intraprendendo quel cammino che ci riporterà, come diceva qualcuno, a riveder le stelle. A me queste storie hanno sempre toccato intimamente. Noi siamo una società che ha demonizzato il dolore. Dobbiamo essere sempre performanti. A lungo andare, questo crea tanta infelicità, non è a misura d’uomo. Il dolore è qualcosa che fa parte della vita.

La casa degli sguardi
Una lettura tutta interiore, quindi, del romanzo?
No, all’interno c’è un altro tema per me importante, quello del lavoro, che non è solo qualcosa che ci dà di che campare, ma che radica l’essere umano, lo identifica. Ecco perché è importante avere un lavoro ed è drammatico perderlo o non trovarlo, perché è come se si perdesse il ruolo nella società. Ma nel romanzo si parla anche dell’importanza dell’amicizia e della genitorialità. Tutta una serie di argomenti che sono stati portanti per me come artista in questi ultimi anni.
Ora che il dado della regia è tratto, c’è qualche personaggio che ti piacerebbe particolarmente raccontare?
Mi piacerebbe sia interpretare che dirigere una storia su Garibaldi. Anche se non mi pare sia il momento giusto, perché per film ad alto budget non è un periodo propizio. Se ci pensi, la sua è una storia pazzesca. Noi italiani non ne conosciamo nemmeno un 10%, soprattutto se ci fermiamo all’infarinatura scolastica. Io la trovo una figura meravigliosa, pop e alta. Era un pazzo scatenato, ovunque è andato ha combattuto e creato casini, meraviglioso.
Al di là del sogno Garibaldi, questa della regia è una strada che senti di voler di nuovo percorrere a breve?
Per La casa degli sguardi ho impiegato tanti anni perché si trattava di rompere un diaframma. Passare dietro la macchina da presa, per una persona scrupolosa come me, era un grosso passo, perché ho un grande rispetto verso i lavori e le competenze altrui. È un ruolo veramente difficile e impegnativo, se lo vuoi fare bene, ma se lo vuoi fare male è il mestiere più semplice del mondo perché, a differenza di altri lavori, hai una serie di figure professionali che potrebbero fare quasi tutto al posto tuo. Ci ho messo tanto a decidermi, adesso non vedo l’ora di ricominciare. Il fatto è che sono ancora molto dentro questo film, che ho amato tantissimo. Dopo due anni e mezzo che uno lavora a un progetto, che se lo scrive, lo produce, lo dirige, lo monta, lo presenta, hai un amore infinito per quello che hai fatto. Adesso vorrei immediatamente cominciare a scrivere il secondo film, però. Ho tre idee, non ho ancora capito qual è quella giusta, ma sono sicuro che, tra queste tre, c’è.

In La casa degli sguardi sei anche interprete oltre che regista. Pensi di mantenere questo doppio ruolo nei tuoi prossimi film?
Io non ci pensavo proprio a recitare in La casa degli sguardi. Dopo averlo scritto insieme a due sceneggiatori bravissimi, Gloria Malatesta e Stefano Rulli, quando siamo arrivati al momento di trovare gli attori, io ho fatto una lista in cui c’era anche il ruolo del padre. Loro mi chiesero perché cercassi un attore per quel ruolo, sostenendo che avevano sempre pensato a me scrivendolo. Sembravano tutti d’accordo, anche i produttori. Io non me la sentivo, perché mi volevo concentrare sulla regia. Era la mia prima volta, non volevo avere distrazioni. Tutti, però, un giorno dopo l’altro, hanno insistito: come lo faresti tu non lo farebbe nessuno ecc. ecc. Sai qual è il problema? che noi attori siamo dei narcisisti e, alla fine, mi sono convinto. Penso anche di averlo interpretato nel migliore dei modi. È un uomo semplice, che ha deciso d’insegnare la vita ai propri figli testimoniandola con la sua propria esistenza. È uno che per il figlio c’è sempre, si prende cura di lui in ogni circostanza. Ci siamo anche inventati che facesse come mestiere quello del tranviere, subliminalmente significa: se hai bisogno di me, sai dove trovarmi, basta che ti metti sul tracciato e io, prima o poi, passo e ti raccolgo, che è esattamente quello che accade.
Se c’è, in effetti, una classe sociale un po’ sparita dai radar del cinema italiano è proprio quella dei lavoratori, molto rappresentata nel cinema del dopoguerra.
È vero, tutto il Neorealismo raccontava di gente che provava a rimettersi in piedi, che cercava un lavoro. Poi è stata un po’ dimenticata a favore del dramma borghese o del sottoproletariato o della malavita. Invece è una classe fatta di persone che ha conservato un senso etico potentissimo. Gente che fatica ad arrivare alla fine del mese, ma è fiera di arrivarci senza scorciatoie.

La casa degli sguardi
Da attore, che tipo di indicazioni hai dato agli interpreti del film?
Ho avuto la fortuna di trovare subito il ragazzo protagonista, Gianmarco Franchini, praticamente al primo provino del primo giorno di casting, tanto che il produttore Angelo Barbagallo temeva fossi stato troppo precipitoso, per inesperienza, ma ho avuto la bravura di tenere duro e fidarmi del mio istinto di attore. A tutti gli interpreti, ho fatto un discorso all’inizio delle riprese dicendo: ragazzi, io vi voglio dare libertà di fare quello che sentite, ma, prima di dare la questa libertà, ho consegnato loro quello che io chiamo il diagramma del film, scena per scena, come a dire, non ti arrabbiare qua, perché se ti arrabbi qua scarichi già tutta la tensione e cose del genere. A volte recitavo io stesso la scena, aggiungendo: non voglio che tu la faccia come dico io, ma che la rielabori a modo tuo, ma tante volte un esempio è più forte di mille parole, quindi la facevo pure vedere. Alla fine, La casa degli sguardi mi ha soddisfatto tanto sia come attore che come regista. Ho imparato moltissimo da questa esperienza, da un punto di vista umano e cinematografico. Ho capito che bisogna far sentire tutti importanti, perché tutti quelli che stanno sul set sono fondamentali per questo mestiere: ognuno ti porta un pezzettino del film. Da attore ero cieco su certi settori della macchina cinema.
Fondamentale mi è sembrato anche il rapporto con un direttore della fotografia di grande esperienza e qualità come Maurizio Calvesi.
Io ho lavorato con Maurizio Calvesi vent’anni fa per I giorni dell’abbandono, di Roberto Faenza. Fu un’esperienza straordinaria. Allora gli dissi: Maurizio, se un giorno farò un film, me lo fai il direttore della fotografia? Vent’anni dopo: toc toc, ho bussato alla sua porta e, per mia fortuna, ha detto sì. Maurizio Calvesi è veramente un grande nel suo mestiere, uno a cui potevo chiedere consiglio su ogni dubbio. È stata una formidabile collaborazione. È fondamentale avere le spalle coperte da quel punto di vista. Stilisticamente siamo ormai abituati a una macchina da presa che rimbalza da tutte le parti, mentre invece è un vanto, per me, essere riuscito, insieme a lui, a fare in modo che la macchina da presa non si senta, perché devi stare sui personaggi, sulla vicenda, non devi per forza far vedere che sai fare la regia sovrapponendola a quello che racconti. La casa degli sguardi è stato un viaggio meraviglioso.

Luca Zingaretti sul set
Dal tuo entusiasmo, sembra che il ruolo di regista ti appaghi persino più di quello di attore.
Stiamo parlando di cinema o televisione, perché a teatro è tutto un altro pianeta. Al cinema devi essere molto amato dal tuo regista, per provare un senso di vera soddisfazione, cosa già rara. Poi c’è un altro problema: i tempi, perché il nostro cinema combatte sempre con dei budget troppo bassi che riducono ogni volta i giorni di riprese. Aggiungici certa faciloneria da parte di alcuni registi e si può concludere che è difficile ricevere dal mestiere di attore la stessa sensazione di pienezza che ho provato da regista. Ho passato un anno e mezzo di felicità con La casa degli sguardi. Sembravo un deficiente, stavo sempre col sorriso stampato sul volto. I miei collaboratori mi strappavano la macchina da presa perché andavo avanti a oltranza senza rendermi conto dell’orario. Temo che qualcuno abbia pure sospettato che facessi uso di sostanze stupefacenti tanto ero instancabile. Una felicità da ragazzino innamorato.
La casa degli sguardi è il tuo primo lungometraggio, ma non la tua prima regia.
Sì, avevo già diretto due documentari, tre degli ultimi episodi di Il commissario Montalbano e poi tante regie teatrali. Oltre a questa veste di regista, mi sono anche provato, insieme a Luisa Ranieri, nel ruolo di produttore. Progetti che sono andati molto bene. Questo ha creato una reazione virtuosa, per cui stiamo lavorando a nuove cose.

Luca Zingaretti e Luisa Ranieri
A proposito della tua attività di produttore, dopo Le indagini di Lolita Lobosco, con Luisa Ranieri il prossimo progetto è la serie La preside. Ce ne parli un po’?
Sarà una serie Rai. È una storia che abbiamo scoperto quasi per caso, vedendo un bellissimo documentario di Domenico Iannacone. Luisa Ranieri me ne aveva parlato, me lo sono visto e il giorno dopo ho chiamato la vera preside protagonista della storia. Raggiunta da una mia telefonata, le ho detto: «Buongiorno preside, sono Luca Zingaretti, vorrei parlare con lei». Lei mi ha detto: «Sì, io sono Napoleone» e mi ha chiuso il telefono in faccia. Questo è stato il nostro primo approccio. Poi, invece, ci siamo visti e ci è piaciuta la sua storia, perché parla di scuola, istituzione che, in questo Paese, è stata sempre un po’ messa ai margini. Invece è proprio la scuola quella che forma la nostra gioventù e il nostro futuro. Chi ci lavora è gente che si spende sul campo, che guadagna molto poco e che ha a che fare con tutta una lunga serie di problemi. La nostra è la storia di una donna che s’impegna tantissimo, anche rinunciando al suo privato. Il tutto per la ferma volontà di credere che ragazzi ai margini abbiano il diritto di essere considerati cittadini tanto quanto gli altri. Ha fatto una specie di miracolo, per cui adesso il suo istituto è una sorta di collegio svizzero e questo l’ha fatto andando a rompere le scatole a tutti, tenendo la barra dritta, perseguendo quello che era il suo obiettivo. Penso che una storia del genere meritasse di essere raccontata.
Torniamo un po’ alle origini di tutto. Quest’anno cade il centenario della nascita di Andrea Camilleri, un autore che hai più volte incrociato nella tua vita artistica. Che ricordo hai delle sue lezioni all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica?
Andrea Camilleri era una persona molto particolare. Lui insegnava regia televisiva, solo che, in quel periodo, l’Accademia era molto povera, non aveva una sede, solo un teatrino, per il resto eravamo ospiti di una scuola elementare che ci dava delle aule. Non c’erano neanche i soldi per affittare le telecamere: senza telecamere come fai a insegnare regia e recitazione televisiva? Allora lui c’intratteneva con la sua proverbiale affabulazione. Quello che ci affascinava è che riusciva sempre a trovare lo straordinario nell’ordinario, raccontando quello che nessuno avrebbe nemmeno notato. Sembra una sciocchezza, ma non lo è. Per chi ha in mente di fare un mestiere artistico, è proprio lo sguardo sulle cose, quello che riesce a vedere là dove gli altri vedono semplicemente quello che c’è, a fare di un artista un grande. Tanti anni dopo, rincontrando l’Andrea Camilleri celebrato in tutto il mondo, quello che mi colpì è che fosse la stessa identica persona che avevo conosciuto in classe. Il successo non lo aveva cambiato. Il mio prossimo impegno sarà proprio una lettura di Autodifesa di Caino di Andrea Camilleri, un testo teatrale che aveva scritto dopo Conversazione su Tiresia, spettacolo che aveva fatto nel 2018 al Teatro Greco di Siracusa, riempiendolo fino all’inverosimile e parliamo di un teatro all’aperto da 4.500 posti. Fu qualcosa di meraviglioso, una serata davvero emozionante, in cui si capiva che stava in qualche modo cercando di congedarsi dal suo pubblico. Autodifesa di Caino, purtroppo, non riuscì a interpretarlo, perché morì poco dopo averlo ultimato.

Luca Zingaretti e Andrea Camilleri
Abbiamo parlato prima del romanzo di Daniele Mencarelli e ora di Andrea Camilleri. Tu sei un lettore forte?
Io appartengo a una generazione per la quale il libro era la fonte d’apprendimento primario, in più sono uno a cui piace proprio leggere. Leggo molta narrativa, ma anche tanta saggistica. Da attore, penso che tutto nasca dalla scrittura. Non c’è spettacolo teatrale che possa vedere la luce senza che qualcuno l’abbia scritto, stessa cosa per il cinema. La scrittura, la sceneggiatura, è il momento creativo che determina la qualità di un prodotto, insieme ad altri fattori, come per esempio il montaggio, che è una seconda riscrittura, ma tutto parte dalla parola. Al di là degli aspetti professionali, penso che leggere sia un nutrimento per l’anima.
Il pubblico può sperare di rivederti in futuro nei panni del Commissario Montalbano?
Io spero di tornare in Rai come attore perché ci sono affezionato. Negli ultimi anni mi è capitato sempre di lavorare per piattaforme private. Su questa storia di Montalbano, ho detto da tempo che per me è un discorso chiuso, per tanti motivi: perché molti miei complici in questa meravigliosa avventura, durata vent’anni, non ci sono più e a me farebbe troppa tristezza tornarci senza di loro. Poi, però, voglio anche dire che nessuno mi ha chiesto concretamente di tornare a vestire i panni di Montalbano: né la Rai né il produttore. Motivo per cui sembrerebbe un discorso chiuso, anche perché sto lavorando su altre cose. Questo non significa che, per me, non sia il ricordo di un periodo bellissimo.

Il commissario Montalbano