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Interviews

Toni Servillo, l’attore Maestro

Alla 23a edizione dell’Ischia Film Festival abbiamo intervistato uno dei più carismatici attori italiani

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Toni Servillo

Toni Servillo è uno, nessuno e centomila. Attore di grandissima esperienza teatrale, ha debuttato al cinema con Mario Martone, diventando uno dei più originali e ricercati attori del cinema italiano, collezionando premi in patria e all’estero per le sue indimenticabili interpretazioni da protagonista in film come Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino), La ragazza del lago (Andrea Molaioli), Gomorra (Matteo Garrone), Il divo (P. Sorrentino), La grande bellezza (P. Sorrentino). Nel 2020 il «New York Times» l’ha inserito nella lista dei migliori attori del secolo.

All’Ischia Film Festival abbiamo intervistato Toni Servillo in occasione della presentazione del suo ultimo film, L’abbaglio, di Robertò Andò.

L’abbaglio è il quarto film con Roberto Andò. Come costruite insieme il personaggio?

Io amo lavorare, quando vi è la possibilità, con registi con cui condivido un orizzonte culturale, un profilo umano. Sono stato fortunato, perché questa occasione si è verificata quasi sempre. Roberto Andò è anche un uomo di teatro, come me non ha mai considerato il teatro come un’anticamera per il successo cinematografico. Entrambi alterniamo teatro e cinema con grande passione. Tant’è vero che il precedente film che abbiamo fatto insieme è dedicato a Luigi Pirandello. Quando c’è una proposta da parte di Roberto Andò, per me significa entrare anche un anno e mezzo prima dentro l’elaborazione di un progetto comune, con conversazioni, discussioni, perché poi sul set il tempo a disposizione sembra essere sempre troppo poco. Anche soltanto ieri, durante una delle giornate piacevoli che abbiamo trascorso qui a Ischia, c’è stata l’occasione per puntualizzare degli spunti, lanciarne altri. Roberto Andò mi ha regalato uno dei ruoli che amo di più in assoluto e che considero uno dei film più belli che abbia girato: Viva la libertà. Io chiedo spesso di fare personaggi da commedia, leggeri, ne ho fatti tanti a teatro. Con Roberto Andò c’è, quindi, questo scambio molto forte e, da queste premesse, costruire un personaggio è una conseguenza naturale. Quelle con Roberto Andò, Mario Martone o Paolo Sorrentino, le considero fraternità artistiche, persone con cui si elabora un progetto sin dalle fondamenta.

L’abbaglio

C’è stato un qualche tuo intervento nella sceneggiatura di L’abbaglio?

Io non intervengo mai sulla sceneggiatura. Su richiesta, do un parere, ma non sono di quegli attori che sovrappongono la propria costruzione del personaggio al lavoro di sceneggiatura, non è il mio mestiere.

Che regista è Roberto Andò?

Roberto Andò fa cinema nel senso più nobile da un punto di vista intellettuale. Al suo interno c’è un’appassionata divulgazione culturale, nelle forme e nell’espressione, negli argomenti che sceglie di affrontare. Prendi ad esempio i suoi ultimi due film. In La stranezza, una figura così importante, e anche ingombrante, come Luigi Pirandello, è guardata sotto una luce completamente nuova. In L’abbaglio, invece, si racconta una pagina della nostra storia nazionale non così frequente al cinema. Roberto Andò affronta sempre temi importanti dal punto di vista dei contenuti e questo mi fa amare particolarmente il suo cinema, tanto da mettermi ogni volta con grande piacere a servizio dei suoi film.

Mi piace questo ribadire il valore della cultura. Mi sembra un atto di resistenza in tempi bui, urlati, sguaiati, il contrario del passo pensato di un cinema come quello di Roberto Andò.

Io credo che abbiamo una responsabilità: fare in modo che la cultura sia viva nel dibattito sociale. Noi non possiamo far altro che alimentare questo dibattito con la qualità delle proposte, con la scelta dei temi e del valore che attribuiamo al linguaggio con cui li affrontiamo. Questo è importante, lo è anche rileggere avvenimenti della nostra Storia. C’è bisogno di un atteggiamento di serietà, è questo il modo con cui si difende la cultura. Poi dobbiamo anche distinguere gli artisti da chi amministra la cultura, sono due cose diverse. L’artista deve avere la libertà di poter dare la stura alla sua immaginazione, alla sua fantasia; chi amministra deve saper riconoscere le qualità che ci contraddistinguono, lanciarci di più sul mercato internazionale e favorire, soprattutto, l’emergere dei più giovani. C’è bisogno di una nuova rinascita.

Viva la libertà

 

Non hai mai smesso di recitare a teatro, l’ambiente da cui provieni, da cui tutto è cominciato.

Io non mi sento diviso su due fronti, ma unito da questi due mondi. Li coltivo felicemente entrambi. Nasco come attore di teatro. Ho fatto il mio primo film a quarant’anni, prima non avrei neanche mai immaginato di fare cinema. Nei miei sogni di ragazzo, ero un attore di teatro. Poi è accaduto che, all’interno di Teatri Uniti, con Mario Martone, pensammo, dopo tanto teatro fatto in maniera indipendente, di fare anche un cinema indipendente. Nasce così Morte di un matematico napoletano e da lì tutta una storia si dipana. Il teatro e il cinema sono due linguaggi che si aiutano a vicenda, magari evitano di fossilizzarsi, rischio che c’è sempre. Io ricerco libertà d’espressione, nuove forme interpretative. Credo pure che frequentare questi due ambienti aiuti a capire certe complessità della vita. Per la prossima stagione, comincerò a ottobre e finirò a gennaio una lunga tournée non solo italiana. C’è proprio la felicità di potersi muovere su questi due linguaggi, in cui l’uno nutre l’altro.

Anche al cinema ti è capitato più volte di fare personaggi che venivano direttamente dal teatro.

Di recente, due registi importanti, come Roberto Andò e Mario Martone, mi hanno offerto la possibilità di fare un film dedicato a Eduardo Scarpetta e uno a Luigi Pirandello, girati entrambi nel Teatro Valle, che ci auguriamo presto sia restituito alla sua attività. Un set non a caso per rimarcare la mia passione e dedizione al palcoscenico, elemento centrale delle due opere. Aggiungo che film sul teatro sono sin troppo rari in un Paese come il nostro, che ha una fortissima tradizione di grandi autori.

La stranezza

La stranezza

Hai una percezione del pubblico a cui arriva la tua arte interpretativa?

Il cinema e il teatro, nella loro natura profonda, implicano la presenza del pubblico, senza non esisterebbero. Non parlo solo di presenza, ma anche di interazione, tanto è vero che William Shakespeare, forse inconsapevolmente, ma Luigi Pirandello con grande consapevolezza, ritenevano che il pubblico facesse parte del meccanismo drammaturgico della messinscena. Luigi Pirandello definiva il pubblico con un’espressione molto chiara: diceva che il pubblico è la visione di chi assiste. William Shakespeare riteneva che le reazioni del pubblico, che lui verificava direttamente, fossero un dato drammaturgico, che poi veniva innestato nelle opere successive o in una nuova versione della stessa opera che metteva in scena.

A proposito di teatro e pubblico, sono diventate leggendarie le tue reazioni nei confronti di chi utilizza il cellulare in sala.

È una cosa molto umiliante per chi sta in scena non solo sentire squillare un cellulare, ma addirittura vedere che le persone rispondono o vedono chi è! Essere a teatro (o al cinema) è una delle poche occasioni in cui ci possiamo disconnettere insieme dal mondo.

Che effetto fa essere chiamato Maestro?

Viviamo in un’epoca in cui il valore di tutte le cose è legata a un mercato e si fa mercimonio anche di certe definizioni. Io ricordo che, quando ero ragazzo, questo termine si riservava a pochissime persone scelte, alle quali ci si avvicinava con grande riverenza. Oggi ho l’impressione che Maestro equivalga a quando così ti appella il posteggiatore di turno. Io, poi, da napoletano, lo prendo per quel che può contare, cioè non gli do molta importanza.

Esterno notte

Esterno notte

C’è qualche personaggio che avresti voluto interpretare e che, invece, è andato a qualcun altro?

Devo dire che, da appassionato di musica classica, sono rimasto malissimo quando ho saputo che Paolo Sorrentino stava scrivendo un film su un direttore d’orchestra e non mi chiamava per farlo. Poi, però, l’ha interpretato quel gigante di Michael Caine, quindi mi sono ritirato in buon ordine.

Cosa non ti piace del cinema di oggi?

Quando ho cominciato questo mestiere, immaginavo che non corrispondesse a un’occupazione nel senso economico. Quello che comincio a non sopportare più è questa entrata a gamba tesa del mercato, che ti costringe a stare dentro certi parametri affinché una cosa funzioni. Per me, bisogna avere la libertà di guardare a quello che si fa con il rischio anche di fallire, di sbagliare, altrimenti i territori dell’arte si restringono sempre di più. Dietro questo basta che funzioni ci sono solo delle asfittiche logiche di mercato.

Nei momenti più difficili della tua carriera, a cosa ti sei affidato?

Al valore dell’amicizia, al poter condividere con delle persone a cui vuoi bene uno schiaffo della vita. Il cinema e il teatro sono arti collettive non solo nel senso che hanno bisogno di un pubblico, come si diceva prima, ma perché si fanno insieme. La forza maggiore a cui ho attinto, sin da ragazzo, è stato il gruppo di persone coetanee con cui ho cominciato a fare questo lavoro, misurando le ambizioni dell’uno su quelle dell’altro, le capacità dell’uno e i limiti dell’altro, camminando insieme.

Il divo

Il divo

A parte il caso particolare di Esterno notte di Marco Bellocchio, non hai mai recitato in serie televisive. Mancanza di offerte o di interesse?

Marco Bellocchio è un tale gigante del cinema italiano che Esterno notte mi sembra più un film lungo che una serie televisiva. Serie tv devo dire non me ne hanno offerte. Poi non vorrei sembrare snob, perché ne ho viste alcune anche molto belle, però non sono uno spettatore appassionato di questo genere, perché non mi piace essere intrattenuto infinitamente da una storia. Mi piacciono le cose che hanno un inizio, uno svolgimento e una fine, come a teatro, dove tutto è vivo. Magari nelle serie fai un personaggio che, per ragioni di produzione e sceneggiatura, non sai veramente dove andrà. A un certo punto, per tirare avanti, ci si inventa che ha una colicisti e quindi va in ospedale e lì scopre che il medico che lo deve operare è l’amante di sua moglie e finisce che lo sa prima di finire sotto i ferri ecc. ecc. Certo, se dovesse capitare che mi chiami un maestro come Marco Bellocchio, allora sì, molto volentieri farei anche della fiction televisiva.

È più o meno stimolante interpretare un personaggio storico realmente esistito rispetto a uno che nasce interamente dalla penna di un autore?

Uno degli elementi più affascinanti dell’Abbaglio è questo scontro tra un illuso da una parte, il colonnello Orsini, e due disillusi che sono interpretati come due picari, magnificamente, da Ficarra e Picone. Questo incontro crea un paradosso della Storia perché, in qualche modo, rocambolescamente, contribuiscono a guidare in un certo modo quella Storia stessa. È una cosa che ha affascinato me e ci siamo augurati affascinasse anche il pubblico. Io ho interpretato personaggi realmente esistiti, alcuni addirittura mentre questi erano ancora in vita e sono arrivato alla conclusione che è molto più bello, per un attore, fare un personaggio di fantasia, perché il personaggio reale ti costringe a combattere con l’idea che già se n’è fatta il pubblico. Poi oggi non parliamo più nemmeno dell’idea, ma del profilo che ne raccontano i media, i social, quindi è ancora più complicato. Certo, mi venisse proposto un personaggio del passato che, nella sua vicenda umana, raccontasse una furiosa ricerca di libertà, lo farei volentieri. Il personaggio di Orsini, per esempio, è talmente bello, costruito talmente bene, che sembra un personaggio inventato. Generalmente, però, m’interessano molto poco i biopic, perché temo siano superficiali, noiosi. Preferisco personaggi che sono figli del parto di un autore, che non sono realmente esistiti, ma che, magari, orientano la realtà con la loro forza poetica. Meglio Amleto, quindi, che qualsiasi personaggio della Storia.

Loro

Loro

Tu hai recitato anche un paio di personaggi politici piuttosto controversi degli ultimi anni…

Nel caso dei politici, l’aggressione dei media li conduce fino alla parodia, alla macchietta. Vuoi metterli con un Amleto?… un ruolo che ha in sé uno sforzo originario, un fondamento poetico che lo pone a un’altezza per cui il confronto, anche umano, è sempre estremamente affascinante. Per i personaggi reali, cerco di evitare la dimensione del biografismo, dell’imitazione piatta, mi affido, come nel caso dei due film con Paolo Sorrentino, a una lettura di questi personaggi che possa offrire al pubblico una forte carica simbolica, rappresentando un periodo storico. Se pensi a Il divo e Loro, sono il segno di come la politica sia cambiata completamente nel suo modo di manifestarsi. Nel caso di Giulio Andreotti era misteriosa, segreta, chiusa nei palazzi; con l’arrivo di Silvio Berlusconi, invece, diventa spettacolo e il corpo prende una dimensione fortissima nella comunicazione.

Negli anni sei stato regista di opere teatrali e liriche. Cosa ti trattiene ancora dal debuttare anche come regista cinematografico?

Nel caso del teatro, sono sempre stato attore delle opere che ho diretto, quindi diciamo che sono il regista in campo, un po’ come i numeri dieci delle squadre di calcio di una volta. Io capisco meglio la regia teatrale standoci dentro. La pratica teatrale, per definizione, si manifesta nel momento in cui va in scena. Il cinema ha, invece, una parte molto importante a monte, con la scrittura, si realizza nelle riprese, ma poi si rimette completamente in discussione nel secondo momento di scrittura che è il montaggio. Io sono uno che capisce le cose mentre le fa o ha bisogno di farle per capirle, quindi non sono attratto dalla regia cinematografica, non sento di averne il talento. Poi è talmente bello fare l’attore al cinema perché, rispetto al teatro, sei coccolato dall’inizio alla fine. Il teatro ha una sua enorme fatica, che è anche la sua bellezza. Io sono così contento di illuminare una parte del film, come fa un direttore della fotografia o un grande sceneggiatore, ma alla fine il film è una faccenda dei registi, sostanzialmente. A me piace collaborare alla realizzazione di un film nei limiti di quello che so e posso fare. Invece, a teatro, mi prendo tutta la mia responsabilità, perché il teatro è una faccenda degli attori.

Alla prossima Mostra del Cinema di Venezia sarà presentato La grazia, che hai girato con Paolo Sorrentino. Cosa ci puoi raccontare a riguardo?

Io, da sempre, non parlo mai di un film prima che lo faccia il regista. Non posso dire altro che è il mio settimo film con Paolo Sorrentino e che abbiamo girato in un’atmosfera di entusiasmo, passione, mi è sembrato di tornare al primo film fatto con lui. Quindi sono stato molto felice di quest’altra collaborazione. Fare sette film insieme è una cosa abbastanza singolare, significa che avevamo voglia di autotestimoniarci in una storia che piaceva a entrambi. Sul set si respirava la stessa gioia di L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore. Mi auguro che il film abbia quella stessa fortuna.

Michelangelo Messina (direttore artistico Ischia Film Festival), Gianni Canova, Roberto Andò e Toni Servillo

Michelangelo Messina (direttore artistico Ischia Film Festival), Gianni Canova, Roberto Andò e Toni Servillo