Connect with us

Interviews

Roberto Andò e “L’abbaglio” della Storia

Alla 23a edizione dell’Ischia Film Festival abbiamo intervistato il regista Roberto Andò, che ha presentato il suo ultimo film: "L’abbaglio"

Pubblicato

il

Roberto Andò

Roberto Andò conserva fortemente nel suo cinema la matrice colta della letteratura. Amico del conterraneo Leonardo Sciascia, raffinato regista teatrale, è approdato al cinema di finzione quarantenne con Il manoscritto del Principe, dedicato a un altro scrittore siciliano d’eccezione come Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Da allora ha sempre alternato una ricercata produzione di regie teatrali, liriche, cinematografiche, di romanzi e saggi che lo pongono come uno degli autori più colti della nostra scena artistica.

Che titolo è L’abbaglio?

Si è in qualche modo imposto nel mio immaginario, continuando quella preferenza per titoli tanto brevi quanto evocativi. L’abbaglio consiste nel fatto che, come prima lettura, il protagonista Orsini mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte a questo paradosso della Storia: portare a compimento un’azione eroica che consentirà a Garibaldi di prendere Palermo. E poi ci sono i due personaggi, interpretati da Ficarra e Picone, che si trovano nella tempesta della Storia assolutamente per caso, senza nessuna motivazione ideale: vengono da Genova con i Mille pensando di prendere un passaggio per tornare, dopo molti anni, in Sicilia.

Che rappresentazione della guerra c’è nell’Abbaglio?

Anche la guerra è teatro, una messa in scena. È mettere in giro informazioni che non corrispondono alla verità, fin dai tempi del cavallo di Troia. Noi raccontiamo che Garibaldi inventa una piccola impostura per arrivare a Palermo e l’affida a un personaggio tutto d’un pezzo come il colonnello Orsini, un aristocratico, tra l’altro, che tradisce la sua stessa classe. Siamo nell’anno del Gattopardo, il 1860. È un personaggio ambivalente. Crede in quello per cui combatte, ma, al tempo stesso, dà la sensazione d’essere consapevole dell’insensatezza della guerra. È alimentato dal dubbio sull’efficacia dell’azione, soprattutto perché è conscio, questo è uno degli agganci forti con quello che stiamo vivendo in questi giorni, che chi subisce i danni maggiori sono gli ultimi, coloro che non sanno neanche le ragioni che hanno mosso il conflitto e ne diventano poi il macello, le vittime.

L’abbaglio

L’abbaglio

Come sceglie una storia da raccontare e gli attori che la incarneranno?

Io mi sento chiamato da certi temi, percorsi anche difficili. A un certo punto è come se avvertissi l’esigenza di fare un certo film: ti richiama, in qualche modo, l’aria che respiri. Così è stato per L’abbaglio, così è stato per tutti i film che ho fatto. Riguardo gli attori, devo dire che a me, come regista, piace sapere chi saranno gli attori che interpreteranno almeno i personaggi principali. Non sono uno che scrive la sceneggiatura lasciandosi questa casella vuota. Mi piace vincolarmi fin dall’inizio con l’immaginazione riguardo quest’aspetto. Molto spesso, quando scrivo personaggi maschili, mi viene in mente Toni Servillo. Sarà perché racconto storie che credo congeniali al suo modo d’essere, sarà perché è un grande attore, sarà perché si è creato questo sodalizio anche umano, ma sono tutte le ragioni che me lo fanno scegliere. Da quel momento inizia un dialogo molto fitto con lui. La cosa bella, in questo senso, è che il film comincia molto prima delle riprese, che diventano il modo in cui realizzi tutta una serie di conversazioni, confronti, letture. C’è un lungo lavoro, un percorso, dietro ogni film che facciamo. Anche in questi giorni, all’Ischia Film Festival, avendo avuto un po’ di tempo a disposizione per chiacchierare, abbiamo forse gettato un nuovo seme che chissà cosa diventerà.

Che tipo di rapporto si è creato con Toni Servillo, protagonista di ben quattro suoi film?

Nel caso specifico del colonnello Orsini di L’abbaglio era un personaggio che non poteva che incarnarsi in Toni Servillo, per me. Nello studiarlo, ci siamo contagiati a vicenda con letture che hanno guidato la sceneggiatura, creando una costruzione del personaggio, realmente esistito, ma rielaborato con una certa dose di fantasia. Nel colonnello Orsini abbiamo messo dentro tante cose di quel periodo, tanto da renderlo una figura a cui sono particolarmente affezionato.

Roberto Andò e Toni Servillo

Roberto Andò e Toni Servillo

C’è qualche attore del passato a cui, secondo lei, può assomigliare Toni Servillo?

Io sono stato molto amico di Gian Maria Volontè, perché ho avuto la fortuna di fare con lui, giovanissimo, un film come assistente di Francesco Rosi, Cristo si è fermato a Eboli, di cui lui era protagonista. Una volta mi ha detto una cosa sorprendente. Io pensavo che la qualità più grande di un attore fosse la camaleonticità. Lui, invece, mi ha detto: «No, la virtù dell’attore, come lo faccio io, è la coerenza». Io direi che vale anche per Toni Servillo. La coerenza un regista la può rivendicare perché è artefice di film di un certo tipo. È più difficile per gli attori. Ma, se uno guarda la filmografia di Toni Servillo, è esemplare perché non ha mai fatto film che non voleva, in cui non si individui una certa risonanza che il pubblico gli riconosce. È la cosa che lo accomuna a un attore del passato, anche se sempre presente, come Gian Maria Volontè.

Ci sono personaggi che ha studiato e raccontato che hanno, in qualche modo, cambiato la sua percezione di un determinato momento storico?

Nel caso di Luigi Pirandello è il mistero quello che mi attrae, un’opera enorme, sconfinata, al cui centro c’è proprio questo mistero, la relazione con la creatività che è stata il nucleo del suo interesse, soprattutto in quella svolta straordinaria che l’ha portato a scrivere Sei personaggi in cerca d’autore. È un dialogo che continuerà, che non si può chiudere. Per quanto riguarda la Storia, mi stimola molto indagare la società e la politica. Nel caso dell’Abbaglio, si trattava di riaprire una pagina passata, raccontando un momento straordinario in cui tutto poteva accadere. Il momento in cui era possibile immaginare un’Italia diversa, quella che ha mosso la gente che veniva dal Nord per fare, insieme a Garibaldi, la Spedizione dei Mille, conquistare questa Sicilia così lontana, non solo geograficamente. Una storia importante, ma anche un po’ rimossa. Una pagina fondamentale, il momento in cui si sono costruite le strutture dell’Italia che abitiamo oggi. Credo che andare in profondità su quelle cose sia ancora un problema. Da questo punto di vista, è molto interessante sperimentare la reazione del pubblico, andando in giro, nelle piazze, nelle sale, accompagnando il film. Magari, fra qualche anno, L’abbaglio sarà visto in un modo completamente diverso.

La stranezza

La stranezza

In un’epoca come la nostra di revisionismi storici, oggi come si rilegge un evento così centrale nella storia del nostro Paese come la Spedizione dei Mille?

L’episodio che racconto in L’abbaglio non è molto noto, ma c’è un racconto di Leonardo Sciascia, Il silenzio (1960), che è stato molto importante per lo sviluppo del film. A me sembra, per esempio, che uno degli abbagli di quel momento storico, che ancora oggi scontiamo, sia la questione meridionale, cioè il fatto che le istanze di Garibaldi, secondo me in buonissima fede, in quel momento hanno dovuto fare dei compromessi che hanno tradito la sua passione rivoluzionaria. Compromessi che, in quella fase, sono stati inevitabili, ma pesano ancora oggi sul meridione d’Italia. Per il resto, la Storia viene sempre strumentalizzata. C’è chi tira la coperta da una parte e chi dall’altra. Io sono assolutamente pro Garibaldi, non appoggio i revisionismi che, pure, circolano. Credo nella carica ideale che lo ha guidato, anche se quella rivoluzione è stata imperfetta, non totalmente compiuta.

Nel film c’è anche un curioso episodio quasi boccaccesco, ambientato in un convento di monache.

All’epoca i conventi erano posti importanti. Se tu leggi Giuseppe Cesare Abba, che è stata un’altra fonte fondamentale, uno scrittore che ebbe voglia di fare quella Spedizione e ce l’ha raccontata in maniera mirabile, racconta che spesso questi garibaldini si ricoveravano proprio nei conventi. Luoghi sorprendenti, a volte molto più liberi di come ce li potevamo immaginare.

Come il teatro e il cinema si influenzano l’un l’altro, per lei?

Di recente ho messo in scena Sarabanda di Ingmar Bergman. È stato un modo per mettere insieme due linguaggi, cercare delle modalità che fossero squisitamente teatrali che, però, rinviassero al cinema, proprio come Ingmar Bergman lo ha usato, con quei primi piani per entrare dentro l’anima dei personaggi e dei suoi straordinari attori. Quindi si tratta sempre di un dialogo. Per quanto siano due linguaggi separati, si riesce comunque a nutrire l’uno con l’altro. Chiaramente ognuno ha le sue specificità, ma ci sono occasioni, come queste, in cui puoi farli colloquiare. Del resto, lo stesso Ingmar  Bergman ha firmato più regie per il teatro che per il cinema.

Roberto Andò sul set di L’abbaglio

Roberto Andò sul set di L’abbaglio

In un periodo poco luminoso come questo, cosa può fare la cultura?

Da un punto di vista culturale, tra le parole chiave c’è responsabilità. Come regista, sento il peso e il dovere della responsabilità di riflettere la società.

A quale valore si affida nei momenti più difficili?

C’è uno scrittore che amo moltissimo, Thomas Bernhard, che ha scritto un libro stupendo, Antichi maestri, che racconta l’arte attraverso l’imperfezione. Io credo ci sia questo scrigno che noi apriamo continuamente nei momenti più difficili che è l’arte, perché l’arte è una forma di religione per chi non crede, perché trascende la nostra persona e la nostra quotidianità.

Lei nasce come regista di opere teatrali, anche nel mondo della lirica, quando e perché è nato questo passaggio artistico al cinema?

Il mio esordio è stato in teatro, però io miravo al cinema, che ho amato forsennatamente sin da giovane. L’ho cominciato facendo un apprendistato, che era già fuori moda, come aiuto regista, con Francesco Rosi, Federico Fellini e registi americani come Francis Ford Coppola e Michael Cimino. Sono arrivato tardi a fare il mio primo film, ma il cinema è stata la mia grande passione. Questo strabismo, diciamo, tra teatro e cinema, si è creato naturalmente perché, a un certo punto, mi è venuta voglia di fare teatro in una stagione in cui mi piacevano dei registi che portavano una forte innovazione, come Tadeusz Kantor e Bob Wilson.

Ha citato Francesco Rosi, Federico Fellini e grandi registi americani. Cosa le hanno insegnato sul cinema?

Tutto. Quando avevo 19 anni ho fatto l’aiuto regista di Francesco Rosi per Cristo si è fermato a Eboli: per me è stata l’università, il master, il dottorato, tutto. Sarebbe un film oggi difficile da fare anche per la modalità produttiva importante. Calarsi in un paese come la Lucania di quegli anni, un Sud allora completamente diverso, con un attore come Gian Maria Volontè… È stata una lezione sostanziale, soprattutto di metodo: la sensazione e la capacità che debba esserci sempre una tensione verso la verità davanti alla macchina da presa. Questa direi che è la lezione di Francesco Rosi, anche oggi.

Toni Servillo e Roberto Andò sul set di Viva la libertà

Toni Servillo e Roberto Andò sul set di Viva la libertà

La componente letteraria è molto potente nella sua formazione e nei suoi film. Come si traduce in visione cinematografica?

Io detesto il letterario nel cinema, vi preferisco il romanzesco. Nel senso che trovo che il cinema può esprimere questa diversa opzione, diversa anche dal realismo che è stato così imperante nel cinema italiano, soprattutto nel dopoguerra. Credo interessante avere un altro punto di vista: il possibile. La realtà come possibile. Come in Viva la libertà, in cui il personaggio ha quel doppio lì. È un po’ questa la costante dei film che ho fatto, inserire una dimensione romanzesca, piuttosto che letteraria, anche quando li ho tratti da libri miei, pur se preferisco ispirarmi a romanzi altrui. Mi è capitato di raccontare vite di scrittori, come Giuseppe Tomasi di Lampedusa o Luigi Pirandello, ma sempre per rappresentare questa dimensione della creatività, un intellettuale alle prese con la sua visione della realtà.

La sicilianità di origine è molto presente nelle sue opere. Al di là delle storie e dell’ambientazione, crede che ci sia una specificità di sguardo che viene da lì?

Non direi, anche se si diceva fosse la corda pazza di cui parlava Luigi Pirandello, cioè il fatto che il realismo bisogna sempre creparlo con una dimensione che, in qualche modo, lo rompe, che è la follia, nel suo caso. Questa può essere una tradizione interessante da estrarre, sia dalla letteratura che dal cinema siciliano.

Un altro dei suoi più importanti punti di riferimento è il grande drammaturgo Harold Pinter. Qual è, in particolare, la sua lezione?

Il non detto. A me, come siciliano, è un aspetto che ha sempre molto interessato. Con Harold Pinter ho stabilito un rapporto di grande amicizia. Quello che mi colpisce della sua opera è la capacità di tradurre i rapporti umani attraverso non quello che si dice, ma quello che non si dice. Il suo sembra un teatro totalmente fuori moda oggi, però, almeno in Italia.

A teatro e al cinema di finzione alterna anche la regia di documentari, la cui sezione dirige al Centro Sperimentale di Cinematografia. Quanto è importante, per lei, quest’altro genere cinematografico?

Il documentario l’ho fatto e, a un certo punto, mi ha molto appassionato anche insegnarlo al Centro Sperimentale, dove ho completamente rifondato il metodo. A me come genere sembra particolarmente interessante perché, per esempio, nel cinema di finzione un regista sa già qual è il finale. Quando comincia a girare sa benissimo dove andrà a parare. Nel documentario no. La cosa bella è questa danza con la realtà, non meno romanzesca del cinema di finzione. Perché i grandi documentari della nostra epoca hanno proprio questa capacità d’intercettare il romanzesco della vita. Penso sempre a un film che è, per me, uno dei capolavori del cinema contemporaneo: Close Up di Abbas Kiarostami. Un film dove il dilemma di cui si parla è proprio questo: il racconto della menzogna come racconto della verità, il desiderio di vite altrui che c’è dentro le persone.

Toni Servillo e Roberto Andò sul set di La stranezza

Toni Servillo e Roberto Andò sul set di La stranezza

Prima abbiamo citato Francesco Rosi e Federico Fellini. Da tanti anni si dice che il cinema italiano sia in crisi. È davvero così?

Non credo proprio. Il cinema è una macchina complicata perché è un’industria, quindi ha tante variabili da cui dipende. Il cinema d’autore è un cinema che va finanziato, perché non riesce a mantenersi da solo, si è un po’ inceppato questo meccanismo. Un meccanismo che lo ha sorretto nella sua grande stagione, ma non si è mai fermata la creatività.

A teatro alterna testi classici e autori contemporanei. In un’epoca come la nostra, dominata dall’immagine visiva sugli schermi, il teatro può ancora dialogare con le generazioni più giovani?

Moltissimo. Tanti giovani vanno ancora a teatro e ne sono appassionati. Ovviamente cercano dei linguaggi nuovi, una nuova drammaturgia, però sono fiducioso sul futuro del teatro, più che su quello del cinema.

Roberto Andò

Roberto Andò