Rita è lo spaccato della consapevolezza infantile sulla violenza domestica di cui è vittima la propria madre.
Estate 1984, Siviglia. Rita (Sofía Allepuz) e Lolo (Alejandro Escamilla), fratello e sorella di 7 e 5 anni, vivono il periodo di vacanza scolastica a casa, insieme alla mamma. Rita vorrebbe tanto andare al mare, ma bisogna sempre attendere l’approvazione del padre. Un padre (Roberto Alamo) quasi assente: un tassista che ama bere, vedere il calcio, irascibile nel carattere, abituato a trattare sua moglie Maria (Paz Vega) senza il minimo rispetto. La piccola Rita lo osserva con consapevolezza crescente: sua madre, lei e il fratellino lo subiscono come una presenza sempre più sgradita e sempre meno sicura.
Una regia sensibile e vera
Rita crea empatia visiva e narrativa al primo sguardo. La fotografia ci sintonizza immediatamente negli anni ’80: tanto vivida quanto opaca, è una finestra su un tempo che fu, ma cristallizzato in una riproduzione simbiotica: dall’abbigliamento, all’arredamento, alle auto, ai negozi, al cibo… Entriamo proprio in quel presente. La piccola e modesta casa che abita la famiglia di Rita sprigiona l’odore di quegli anni, l’odore dell’infanzia, la sua spensieratezza.
La macchina da presa ci ‘impone’ subito la prospettiva da cui osserveremo la storia: la prospettiva di due bambini. Lo sguardo di Rita (l’incredibile spontaneità di Sofía Allepuz non la si scorderà facilmente) ci guida nella scoperta di una dimensione familiare nella quale la luce che la madre riflette su di loro viene offuscata sistematicamente dalla cupezza e brutalità del loro padre.
I riflessi nella dimensione infantile sono pesanti. Rita è più forte, cerca di proteggere Lollo, più fragile e atterrito dalle grida che arrivano dalla loro camera in cui si rifugiano quando capiscono che le cose si mettono male. La violenza che mai vediamo, la percepiamo fortissima, emotivamente, nelle reazioni dei piccoli. Uno sguardo perso, impaurito, il tremolio di Lollo, lo stringersi dei due fratellini per farsi forza e proteggersi.
L’occhio della piccola protagonista è indirizzato alla sua luce, una mamma che vuole cambiare la propria vita e quella dei propri figli: in Spagna il divorzio si era da poco affacciato in società, contrapponendosi alle forti resistenze di una cultura popolare nella quale il matrimonio era ancora considerato un macigno morale. Ci si sposa per sempre. Le donne che decidono di rompere quel tabù vengono ghettizzate, isolate insieme ai figli. Non è facile prendere una decisione del genere.
Tutto si amplifica in immedesimazione
Questo universo viene egregiamente raccontato da una pellicola mai eccessiva, eppure pungente quanto alle piccole verità che riesce a toccare. Le verità di vite vissute, concretamente rappresentate nei riti quotidiani di una madre con i suoi piccoli, di giochi dove ci si divertiva e si immaginava con poco: una scatolina dei segreti, matite colorate, corda per saltare, un pallone… Di paure a cui ancora non si riesce a dare un nome. Una musica presente solo se indispensabile, le inquadrature che circoscrivono l’attenzione o si concentrano nel dettaglio, nel segno di una sensibilità visiva notevole.
L’attrice e modella, icona spagnola e hollywoodiana del cinema, lei stessa nel ruolo di Maria perché dentro una tematica che aveva bisogno di affrontare, oltre al Premio per la Migliore Opera Prima, è stata insignita da Alice nella Città anche del Womenlands Excellence Award, dedicato alle eccellenze femminili nazionali ed internazionali, finalizzato a valorizzare il ruolo della donna nella società contemporanea.