La retrospettiva “Wild Roses” da qualche anno accompagna il Trieste Film Festival, affastellando gemme il cui denominatore comune è piuttosto evidente: una presenza femminile, dietro la macchina da presa. E di validissime, ottime cineaste i paesi dell’Europa Orientale hanno dimostrato di essere pieni, specie negli ultimi anni. Non fa certo eccezione l’Ucraina che è stata oggetto quest’anno di tale focus. E alla bravura delle loro autrici, emersa in svariate forme, fa da contrappunto anche il coraggio, considerando i così tragici frangenti attuali. Con scenari di guerra a portare devastazione nel paese da circa un anno. Sebbene, a dirla tutta, tensioni politiche ed eventi di natura bellica fossero presenti da molto prima…
Proprio di questo ci parla Klondike, uno dei lungometraggi ucraini più acclamati degli ultimi tempi, che per un po’ è stato anche sul punto di entrare in nomination per l’Oscar al Miglior Film Straniero. Senza contare gli importanti riconoscimenti come il premio raccolto al Sundance. Del resto Maryna Er Gorbach, cineasta ucraina che ha già beneficiato su Taxi Drivers di un’intervista, nell’affrescare vicende di qualche anno fa ma sinistramente attuali è riuscita ad andare oltre al dato cronachistico, assicurando un tratto esemplare, paradigmatico, alla narrazione e alla messa in scena.
L’ispirazione diretta
L’ispirazione diretta di Klondike viene da un noto (e dibattuto) fatto di cronaca, l’abbattimento accidentale del volo civile MH17 sui cieli sopra la martoriata regione contesa da Ucraina e separatisti russi. Scambi di accuse tra le due fazioni, controverse perizie effettuate sui resti dell’aereo, tensioni diplomatiche, ma di base resta l’assurda tragedia che aveva portato alla morte di decine di passeggeri.
Tutto ciò, giova ricordarlo alla luce dello scenario odierno, in un paese che aveva conosciuto già allora la furia dei combattimenti e le prime divisioni al suo interno. Ecco, Maryna Er Gorbach ha deciso di fotografare quel momento mettendo in scena il dramma di una famiglia ritrovatasi nelle vicinanze di quel nuovo confine, con il costante pericolo di veder cannoneggiata la propria casa da una delle due fazioni, più il mistero di quell’aereo esploso in volo a pochi km da loro. Irka, che aspetta un bambino, si ritrova così a dover fronteggiare una tragedia collettiva e al contempo le lacerazioni sorte anche all’interno della propria famiglia, con suo fratello e il marito Tolik disposti persino a regolare violentemente i conti tra loro, per le divergenti idee sul futuro dell’Ucraina e del Donbass. Fino a un epilogo struggente tanto sul piano umano che a livello metaforico.
Una forma studiata
Il primo merito di Klondike è quindi a livello di sceneggiatura, avendo buon gioco la regista nel rifuggire da possibili semplificazioni, da tirate propagandistiche, allorché è invece il senso della divisione interna – con le sue tragicissime conseguenze – ad uscir fuori prepotentemente, nel dialogo sempre più difficile tra i protagonisti. Ad apparire parimenti molto curata è la forma, per quanto troppo insistiti possano apparire a tratti certi piani sequenza, certe carrellate su quello spazio conteso e attraversato da figure ugualmente minate dall’incertezza, spaesate, scosse.
Visto poi che il paesaggio di fronte a loro assume strada facendo i connotati della “frontiera”, quasi inevitabile che il linguaggio filmico si avvicini anch’esso al western, in certi momenti, per esempio quando le inquadrature da dentro la casa bombardata si aprono sull’esterno, sul cielo e sui terreni di fronte, acquisendo un retrogusto quasi “fordiano”.