Due giovani registi, Adrien Pinon e Thomas Lafarge, 52 soli minuti, una chiarezza rara persino per il cinema: The world according to Amazon è un inequivocabile segnale, inquietante e complesso, la cui serrata linearità non lascia spazio ad alibi. In Concorso nella sezione Internazionale Documentari al RIFF, l’opera franco-canadese affronta la realtà dell’impero di Jeff Bezos da più punti di vista, che servono a mostrare i lati del mondo che Amazon sta letteralmente mangiando.
Come sottolineato nella presentazione, curata da Sergio Sozzo al Nuovo Cinema Aquila, c’è un simbolo che sintetizza il senso – il significato che più annichilisce – del documentario. E’ un adesivo su un palo a Seattle, Bezos che mostra la testa mozzata di Kurt Cobain. Un’immagine che chiude The world according to Amazon, aperto meno di un’ora prima con panorami e colonna sonora che sembrano usciti dall’incipit di un film horror statunitense.
“Non esiste fisicamente, cresce silenziosamente” e distrugge più lavoro di quanto ne crei: il lato economico-finanziario di Amazon viene tracciato da ricercatori e analisti che parlano di monopolio, inteso come capacità di controllare l’accesso (l’unico potere, l’unica merce, avrebbe detto Jeremy Rifkin) dei concorrenti al mercato. Amazon può operare in perdita grazie al sostegno dei mercati finanziari, condizione preclusa ai concorrenti destinati a essere fagocitati, mentre il suo “valore” e le sue spese di lobby continuano a crescere. La ferrovia è una felice metafora del ruolo di intermediario globale di Amazon, della sua marcia verso la totale sovrapposizione con l’infrastruttura nascosta dell’economia mondiale.
“Lavori come un robot, e sei controllato da un robot”: con le testimonianze di alcuni ex lavoratori The world according to Amazon da spazio al lato, anch’esso noto, dell’alienazione contemporanea. Non siamo affatto distanti dalla catena di montaggio e il “bore-out”, lo sconforto intellettuale di un’operazione ripetuta 500 volte al giorno, si accompagna alla prostrazione di relazioni del tutto automatizzate.
“Chi decide il futuro?” Lasceremmo che le politiche che ci riguardano come cittadini, che hanno un impatto concreto sulla nostra vita quotidiana, fossero decise da un’impresa privata che opera in tutti i continenti? E’ quello che già avviene, ad esempio, a Seattle, dove il 30% dei senzatetto ha in realtà un lavoro. Che però non basta più per garantirsi un alloggio, perché l’Amazon city che occupa la città con grattacieli, residenze di lusso e servizi esclusivi ha fatto levitare i prezzi delle case, spingendo sulla strada, nelle tende, ai margini e fuori le persone che non ne fanno parte. Quando una parte della politica locale ha scelto di intervenire, cercando di tassare la compagnia e di reinvestire in edilizia sociale, ha perso. L’opinione pubblica e la maggioranza dei decision maker si è schierata con Bezos.
Economia e finanza, politica, infine cultura. La fagocitazione che più di tutte destabilizza la coscienza, il lato del mondo che ci illudiamo ci faccia da baluardo. Il documentario di Adrien Pinon e Thomas Lafarge cita il “Whole Earth Catalog”, che negli anni Settanta aveva rappresentato l’idea di cambiare il mondo attraverso il consumo. Era uno strumento pensato per ricreare la realtà attraverso la conoscenza diffusa, per rifondarla con un’idea diversa di vita, condivisione e convivenza: così fu interpretato e usato dalle persone che svilupparono comuni hippie.
E’ a questo punto che, senza malinconia, torna in mente l’operazione di Tarantino con C’era una volta a Hollywood: una fiaba il cui finale sembra voler rimettere a posto i corresponsabili della morte della controcultura. La famiglia Manson e Sharon Tate, Jeff Bezos e Kurt Cobain. Amazon come catalogo del mondo, che ha però annientato ogni visione civica: Bezos ha cominciato in un garage negli anni Novanta, così come Jobs ha citato il “Catalog” nel discorso contenente il famoso mantra su fame e follia.
Ma le dichiarazioni di Bezos sui salari e le condizioni di lavoro, rilasciate a media compiacenti e privi di funzione critica, non sono la realtà delle migliaia di lavoratori partiti da ogni città d’Europa per contestarlo. La libertà di comprare e possedere tutto, subito, ovunque non è libertà. L’appropriazione dell’immagine della controcultura – gli “hippie di merda” come li apostrofa Di Caprio – non è la controcultura.