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TERRA LENTA FILM FESTIVAL

‘Terra Incognita’: la mappa visiva dell’ignoto contemporaneo

Con Terra Incognita, Enrico Masi e Alessandra Lancellotti inaugurano Terra Lenta, il nuovo festival lucano dedicato al cinema documentario ambientale

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Terra Incognita si muove tra due poli opposti: da un lato, il ritorno a un’esistenza essenziale; dall’altro, la spinta verso un futuro iper-tecnologico. In questo spazio di contraddizione e possibilità, il film propone una meditazione visiva e filosofica sul nostro tempo. Si ispira alla figura e al pensiero di Alexander von Humboldt, naturalista, esploratore e geografo del XVIII secolo, pioniere di una visione scientifica profondamente interconnessa della natura, in cui arte, ecologia e sapere convivono in un unico sistema di relazioni. Il titolo stesso richiama la tradizione delle mappe antiche, con i loro spazi “ignoti” e inesplorati, metafora della ricerca continua di senso nei territori e nelle relazioni umane con l’ambiente.

Sulle tracce di questa eredità, Terra Incognita costruisce un autentico “alfabeto visivo”: un linguaggio cinematografico che restituisce la complessità del paesaggio attraverso luce, forma e spazio, recuperandone la dimensione pittorica. L’uso del CinemaScope e la commistione tra supporti digitali e analogici diventano così strumenti per osservare il mondo non come semplice sfondo, ma come organismo vivente e fragile, da leggere e interpretare. Frutto di oltre sette anni di lavorazione tra diversi Paesi europei, l’opera si configura come un progetto artistico e intellettuale che intreccia sperimentazione cinematografica, antropologia e pensiero ecologico, stimolando una visione critica e sensibile dello spettatore.

Abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista Enrico Masi e Alessandra Lancellotti — archivista e regista di documentari, collaboratrice stabile del collettivo Caucaso — per approfondire il senso profondo di questa opera, nata in piena epoca dell’Antropocene come atto di ricerca, interrogazione e ascolto.

La genesi di Terra Incognita

Potete raccontarci l’ispirazione iniziale che ha dato il via all’idea originale di Terra Incognita? Come nasce il progetto del film?

Nel 2018 stavamo concludendo ShelterFarewell to Eden e ci trovavamo in Sardegna. Il set era piuttosto complesso: pioveva, c’era un lungo travelling da gestire, e con noi c’era un toro bianco, che per noi rappresentava Giove, figura mitica. Eravamo una quindicina di persone, immersi in un paesaggio potente e primordiale. Fu lì che ci raggiunse Antonio, un anziano sardo che avevamo conosciuto da poco. Si presentò quasi come una figura evocata, come una musa, e in quel momento qualcosa si accese.

Da allora Antonio divenne parte del nucleo creativo che, nel corso degli anni, ha dato forma a Terra Incognita. Mi propose un’intuizione: ascoltare il canto degli uccelli per cercare di decifrare un possibile alfabeto dell’Antropocene. Questa immagine poetica, che portava con sé un senso di mistero e interrogazione, divenne la scintilla iniziale del film. Era un invito a riascoltare il mondo, a riaccordarsi con i segnali più sottili e dimenticati della natura. Non era la prima volta che una “musa” mi spingeva in una direzione creativa. Trovo questo ruolo fondamentale. Come una guida.

In quel momento iniziai a sviluppare un pensiero che univa quel canto degli uccelli a una ricerca più ampia, legata alla geografia europea. Ne nacque presto un articolo sul Manifesto, a firma di Silvana Silvestri, che colse il carattere precocemente visionario del progetto: un’indagine nel cuore dell’Europa — tra Italia, Francia, Germania — con al centro le Alpi della Svizzera, come baricentro idrografico e simbolico in cui nascono i tre grandi fiumi simbolici del continente: Reno, Danubio e Rodano, il fiume che abbiamo scelto e percorso in lungo e in largo nel corso del film.

Per una coincidenza significativa, la sorgente del Rodano, molto vicina al confine italiano, è anche vicina al luogo in cui abbiamo “trovato” la famiglia protagonista. Credo molto nell’objet trouvè e nella cultura trobadorica. Ho provato in ogni modo a restituire nel film questo “delirio geografico”, una mappa emotiva e politica dell’Europa contemporanea. Ma mi rendo conto, come ha detto anche Benni Atria (il montatore) durante il montaggio, che ciò che stavo tentando di costruire aveva i contorni di un trattato, più che di un documentario classico. E in effetti, le intenzioni erano esattamente queste: restituire una visione in cui poesia, territorio e memoria si intrecciano senza una gerarchia predefinita.

Quando il personale incontra l’antropologico: la sfida di un racconto

Nel film si percepisce un equilibrio tra un approccio soggettivo e interpretativo e una ricerca più antropologica. Quanto è stato difficile coniugare questi due aspetti, e quali elementi hanno portato alla nascita di qualcosa di nuovo rispetto all’idea originale?

Nel nostro caso, questo equilibrio tra una spinta soggettiva, quasi allucinatoria, e una tensione antropologica verso la realtà si è costruito nel tempo, quasi naturalmente. Forse più per me che per Alessandra Lancellotti che viene da una formazione da architetto e tende a un pensiero strutturato, razionale, spaziale. Io, invece, vengo da un percorso più caotico, sono un damsiano, e credo nella “caosmosi” della creazione, nel fatto che il dubbio, il conflitto, la deviazione siano parte integrante di ogni processo artistico. A volte anche in maniera perversa: cerco il conflitto, lo interrogo, lo coltivo.

Vengo da una terra – l’Emilia centrale – che è un luogo di benessere, industriale, sofisticato. Una regione che ti educa alla mediazione, all’equilibrio. E proprio per questo, in questo approccio al cinema ho sempre cercato l’intemperanza, l’imprevisto, l’interferenza. Terra Incognita non fa eccezione: fin dall’inizio abbiamo accolto tutte le deviazioni che il processo ci offriva. Le sorprese, le discontinuità, le variazioni di senso non ci hanno spaventati. Anzi, le abbiamo seguite, anche quando sembravano portarci lontano dal disegno iniziale. A volte con Stefano Migliore, chiamiamo questo approccio “il doppio salto”, come un’acrobazia concettuale, come è stato per esempio nel momento in cui abbiamo associato la battaglia di Lepanto alle Olimpiadi (Trilogia brasiliana, 2016).

Negli anni, però, questa continua tensione ha avuto un prezzo. Ho vissuto il conflitto così intensamente, in quasi tutti i miei film, che oggi, quasi godardianamente, sento il bisogno di smettere di soffrire. E questo vale anche per Terra Incognita, che ha avuto una storia produttiva molto complessa, faticosa. Oggi sento il desiderio di armonia, di un cinema che non rinunci alla complessità ma che la sappia attraversare con una diversa grazia.

La struttura formale del film è sempre rimasta molto solida: divisa in sette parti, girata in digitale, 35mm, 16mm, con inserti d’archivio. Era pensata così sin dall’inizio. È stato piuttosto il contenuto a trasformarsi, a cambiare pelle. Le idee, gli incontri, i percorsi narrativi si sono rimescolati. Ma quella tensione originaria tra soggettività poetica e osservazione antropologica è sempre rimasta il motore profondo del nostro lavoro.

Credo che la tensione antropologica, specialmente in un documentario, il cui obiettivo resterà quello di rappresentare la vita delle persone, oltre che l’essenza dei fenomeni, sia una rincorsa della verità, espressa e inespressa, di personaggi esistenti. Questa verità nel film diventa altro, si scioglie in un plasma che sta nelle mani dell’autore/cineasta, o del regista/realizzatore, ed è materiale infuocato, pura materia di poesia, nell’equilibrio perfetto che il cinema, in quanto arte, ha individuato. Adriano Aprà lo ha riconosciuto e parlava negli ultimi anni di un cinema quantistico, in cui lo studio della successione delle inquadrature portava ad una consapevolezza ulteriore. E questo è solo l’inizio del nostro agire.

Equilibrio tra vita autentica e mondo capitalistico

Il film mette in dialogo due mondi apparentemente inconciliabili: da un lato una realtà più radicata nella natura, quasi arcaica e autentica; dall’altro, una dimensione ipertecnologica e industriale. Secondo voi, esiste davvero una via di mezzo tra questi due estremi? È possibile, oggi, restare fedeli a sé stessi e ai propri valori in una società che tende a uniformarci e spingerci verso modelli precostituiti?

In fase di scrittura iniziale ci siamo posti una domanda molto precisa: avrebbe senso raccontare storie di figure “medie”? Un operaio medio, un dirigente medio, oppure un neorurale medio? Sapevamo che questa scelta ci avrebbe portati in una direzione più realistica, forse più sociologica. Ma poi è emersa con forza un’altra esigenza: quella di raccontare una radicalità. Una possibilità estrema, e per questo forse più illuminante.

Il soggetto l’ho scritto nel pieno della pandemia, tra marzo e giugno 2020. Era un momento di isolamento, ma anche di ascolto profondo. E in quella scrittura, prima ancora di incontrarla, immaginavo già l’esistenza della famiglia che poi è diventata protagonista del film. La vedevo nella mia mente: una famiglia tedesca, isolata, in una casa sulla montagna, oltre una strada bloccata da una frana, con una visione del mondo totalmente altra, non contaminata dai codici del consumo.

L’incontro reale con loro è avvenuto poco dopo, durante le ricerche nelle valli intorno al Monte Rosa. Eravamo saliti ad alta quota, cercando storie legate alle forme di resistenza montana. E sono stati proprio i gestori di un rifugio a parlarci di questa esperienza famigliare. Quando li abbiamo incontrati, abbiamo capito subito che rispondevano esattamente al disegno che avevamo immaginato. Ma con una forza in più: erano vivi, incarnavano nella loro fatica quotidiana un’utopia.

Questa famiglia ha compiuto una scelta radicale, figlia anche di un trauma collettivo: l’esperienza di Chernobyl, che ha segnato profondamente la generazione dei genitori. Da lì è nata una visione alternativa del mondo, che ha orientato la loro vita e quella dei figli, in un progetto quasi intergenerazionale. Un tentativo di tramandare, nel tempo, un sapere e un modo di abitare la Terra con maggiore consapevolezza, consumando meno, vivendo in equilibrio con l’ambiente.

In questo senso, il film si interroga proprio sulla possibilità di un’esistenza “altra”, radicale ma non nostalgica. E la domanda che solleva – se esiste una via di mezzo tra la vita autentica e il mondo capitalistico – rimane aperta. Perché quella via di mezzo, forse, non è un equilibrio da trovare una volta per tutte, ma una tensione continua, un movimento, un esercizio critico. Il film, con le sue due polarità – la famiglia montana e il centro nucleare di ITER – esplora proprio questo campo di tensione.

Scelte di narrazione e impatto emotivo

Che impatto ha avuto l’incontro con la famiglia tedesca e in che modo questa esperienza ha influenzato la vostra visione del mondo rappresentato nel film?

Ci ha colpiti profondamente la coerenza radicale del loro stile di vita. Una scelta netta, anti-consumistica, in cui ogni gesto, ogni pratica quotidiana è orientata alla sostenibilità, alla trasmissione tra le generazioni di un sapere essenziale, analogico, che si oppone alla velocità e all’astrazione del mondo contemporaneo. I genitori sono cresciuti in contesti urbani fortemente segnati dalla distruzione dell’uomo, ed è da quella ferita che è nata la loro scelta: proteggere, ricostruire un’alternativa di decrescita, lasciare in eredità un modo di vivere che fosse più armonico, più consapevole.

Quello che abbiamo voluto raccontare, dunque, non è una favola bucolica, ma un progetto familiare che si interroga sulla longevità delle sue stesse premesse. Che cosa accadrà quando i figli, cresciuti fuori dalla società dei consumi, dovranno fare i conti con il mondo esterno? Ci è sembrato necessario trovare e raccontare un’esistenza così radicalmente diversa — un’eccezione che ci costringe a ripensare la regola.

Ci ha profondamente colpito per la loro percezione di sé e per il modo in cui utilizzano il film come manifesto di una vita neorurale possibile. Hanno scelto di controllare poeticamente la rappresentazione di sé, restituendo un’immagine di un mondo alternativo che, pur essendo distante dalle nostre società iper urbanizzate, resta accessibile e autentico.

Siamo rimasti sorpresi soprattutto dalla generazione dei ragazzi, alcuni nati direttamente nel bosco, cresciuti lontano dai percorsi tradizionali di formazione come la scuola, e che quindi hanno sviluppato un’identità e una consapevolezza particolari.

Inoltre, il loro modo di vivere analogico si riflette nella colonna sonora, che alterna musica elettronica e acustica, creando una sorta di dialogo, e di scontro, tra due mondi. La famiglia è diventata quasi coautrice, influenzando profondamente il montaggio e le scelte narrative. Ogni membro, musicista, ha contribuito alla musica che accompagna le loro parti del film.

Questa esperienza ci ha lasciato un’impronta importante: la capacità di raccontare una vita radicalmente diversa e la forza di una comunità che vive in armonia con la natura, con una coscienza ecologica e una volontà di trasmettere queste conoscenze alle nuove generazioni.

Scoperte e rivelazioni durante il processo creativo

Durante la fase di ricerca e raccolta dati sono emerse altre storie inaspettate? Potete raccontarci quale ruolo hanno avuto queste realtà nel film e cosa vi hanno lasciato?

Nelle fasi iniziali ci hanno colpito diverse realtà travolgenti del novecento atomico. Los Alamos, che rappresenta uno di quegli “spazi remoti” dove si costruiscono centrali nucleari o grandi laboratori, lontani dalle aree urbane, ma in questo caso a contatto con la civiltà indigena. Questa idea di territorio isolato e “terra incognita” si riflette nella narrazione del film e nel suo approccio.

Nel processo creativo, esisteva una versione preliminare del film, chiamata: “Terra 3”, che includeva il personaggio di un nativo americano diventato fisico nucleare, un’idea che ha influenzato la direzione del progetto, anche se poi è stata abbandonata in favore della struttura attuale. Questa versione era stata apprezzata da diversi critici e colleghi, ma la scelta finale ha portato a una narrazione diversa, più vicina alla famiglia protagonista trovata in Piemonte.

Inoltre, durante le riprese e la ricerca, è emersa una figura davvero sorprendente: Edith Bernardini, una donna originaria della Corsica che lavorava nella caffetteria di ITER. Siamo tornati a ITER circa otto volte, e a un certo punto lei mi ha confidato con semplicità: “Io tra non molto smetterò di lavorare, tornerò in Corsica nella mia casa di pietra.” Proprio lei, la donna che preparava i caffè nel cuore di uno dei luoghi più iper-tecnologici e avanzati del mondo! rimasi molto infatuato di questa storia.

La sua presenza ha aggiunto un tocco umano e quotidiano a un contesto altrimenti molto tecnico e distaccato, mostrando come le storie personali si intrecciano con i grandi temi della ricerca scientifica e delle sfide ambientali.

Anche nel mio lavoro con Laban, portavoce ufficiale di ITER, è successa una trasformazione simile. All’inizio raccoglievo solo dati tecnici, ma nel corso di cinque incontri distribuiti su due anni, il focus si è spostato gradualmente sulla sua storia personale. Ho scoperto così le sue origini amish-mennonite e il fatto che, all’interno della sua famiglia, è stato l’unico a rompere con la tradizione.

Questa svolta ha arricchito il film: la famiglia di Laban è diventata un elemento chiave, quasi una controparte drammaturgica, con radici che si collegano anche a quella dell’altra famiglia che vive oltre le Alpi. È stato sorprendente: andando nella parte più “ufficiale” di ITER, ci siamo imbattuti in una persona che, inconsapevolmente, conteneva molte delle storie che stavamo cercando.

Credo molto nell’importanza di lasciare che il progetto evolva durante il processo, senza fissarsi rigidamente a un’idea iniziale. Spostare la messa a fuoco e rendere il racconto più accessibile e personale può arricchire molto il documentario, trasformandolo quasi in un diario intimo. È un approccio sano e prezioso, anche se alcuni preferiscono mantenere un controllo rigoroso dall’inizio alla fine.

L’importanza filmica del suono

Nel film il suono assume un ruolo centrale, non solo come accompagnamento ma come vero e proprio corpo narrativo. Come è nata questa scelta e che impatto ha avuto sulla costruzione del racconto?

Il suono in Terra Incognita non è mai un semplice accompagnamento o un elemento episodico: è un corpo narrativo, parte integrante della struttura filmica, capace di raccontare e ampliare il significato stesso delle immagini.

Questa scelta, racconta Alessandra Lancellotti, nasce dalla sensibilità musicale dei fondatori di Caucaso, Enrico Masi e Stefano Migliore, entrambi musicisti che hanno sempre considerato la colonna sonora come un elemento creativo fondamentale, non solo decorativo. È proprio questa visione, spiega, a guidare l’uso del suono come un vero e proprio dispositivo di narrazione sensoriale.

Nel film abbiamo voluto esaltare questa funzione espressiva del suono attraverso un dispositivo preciso: le sette sezioni in cui è suddiviso il film alternano immagini con colonne sonore diverse. Questa polarizzazione sonora non è solo un espediente estetico, ma una vera e propria dialettica interna al racconto, che riflette le tensioni tra natura e tecnologia, tradizione e innovazione, autenticità e artificio.

Il suono, in Terra Incognita, diventa quindi un elemento vivo e autonomo, capace di suggerire emozioni e significati che vanno oltre il visivo, ampliando la percezione dello spettatore, coinvolgendolo in un’esperienza multisensoriale. È un omaggio a quella che potremmo definire la “poetica del fuoricampo”, un concetto che stiamo approfondendo anche nel lavoro teorico e che si ispira ai grandi maestri del cinema.

In questo modo, il film propone di trascendere dalla tradizionale funzione del suono portando lo spettatore a immergersi in un paesaggio sonoro vivo, consapevole e profondamente umano.

Cosa ci insegna Terra Incognita

Considerando il vostro approccio poco convenzionale al Cinema Documentario, cosa rappresenta per voi quest’opera? Cosa vi augurate che il pubblico possa portare con sé dopo averla vista?

Terra Incognita non è solo un documentario, è potenzialmente un trattato filosofico. Il film è anche una sperimentazione metodologica, condotta da un gruppo di autori coadiuvati da un comitato che ha cercato di coniugare tematiche forti con un approccio formale innovativo.

Per il pubblico, credo che il film possa offrire una visione cosmica, la capacità di distaccarsi e guardare la Terra non come un insieme di piccole formiche, ma come se fossimo noi gli dei, o il dio, o la dea del pianeta. Questo distacco permette di riflettere in modo più ampio sul nostro ruolo e sul senso della vita sulla Terra. L’arte del cinema può spingersi molto oltre nell’esplorazione dell’umano e del pianeta, cercando di affinare strumenti di consapevolezza e di trasformazione etica, arginando la violenza e la sopraffazione. Ma resterà il mistero della poesia, e probabilmente Terra Incognita è un’ode a questo.

“Terra Incognita”: la mappa visiva dell’ignoto contemporaneo

  • Anno: 2025
  • Genere: documentario sperimentale
  • Regia: Enrico Masi