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Alice nella città

‘Felicidad’, l’utopia tra ceneri e champagne

Mastroleo dirige un cortometraggio di austera potenza visiva: un duello tra la fatica della creazione e il tedio del benessere, benedetto dal tocco mistico di Werner Herzog

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La vetrina di Alice nella Città accoglie con fervore una singolare e luminosa opera: Felicidad. Il cortometraggio firmato dal meticoloso Francesco Mastroleo, si impone immediatamente come una riflessione acuta sull’essenza della gioia e del proposito. Questa co-produzione Italia-Spagna-Australia trascende la sua breve durata, proponendo una narrazione carica di simbolismo e di una quiete, quasi solenne, come urgenza tematica. Il regista, allievo della scuola di Michelangelo Frammartino, gestisce la macchina da presa con una compostezza rara, invitando lo spettatore a un’indagine profonda. L’attesa è vibrante per l’impatto di questa prima mondiale, l’opera si preannuncia come un momento di cinema denso, concettualmente ed esteticamente elevato.

Il dualismo silente di La Palma

Il fulcro emotivo del racconto si colloca sull’isola di La Palma, teatro di una dualità esistenziale che polarizza l’esperienza umana contemporanea. Due figure, quasi archetipi, evolvono in un lussuoso resort come in un lucido esperimento sociologico sulla condizione moderna. Il giardiniere incarna l’agire costruttivo, la volontà di ricominciare: egli decide di affrontare l’imponenza del cratere vulcanico, salendo deliberatamente sulla vetta per piantare un giardino tra le cicatrici laviche e le ceneri. Questo gesto è un atto di ostinata, quasi folle, speranza. Un tentativo di affermare la vita dove la natura ha imposto la distruzione. In contrasto, la giovane ospite si annoia nel lusso dell’albergo, interroga l’utopia, riflette sulla sua irraggiungibilità dalla prospettiva privilegiata di una vacanza di lusso.

Mastroleo mette in scena due diverse, ma complementari, reazioni al vuoto contemporaneo e all’incertezza del futuro. All’azione concreta e al fare manuale si oppone la riflessione passiva e intellettuale, che finisce per trasformarsi in una fuga dal reale. La dicotomia paesaggistica tra il verde dei resort e il nero della lava amplifica il conflitto.

L’estetica della ferita

Il film dispiega, sotto il profilo stilistico, un rigore formale che merita attenzione, un’impronta autoriale in cui la contemplazione vince sulla frenesia narrativa. Mastroleo non teme, anzi ricerca, una pacata lentezza meditativa. L’influenza di Werner Herzog, che ha fornito una preziosa consulenza artistica, è palpabile nell’approccio quasi mistico e fatalista riservato al paesaggio, elevato a coprotagonista. La regia orchestra un equilibrio sottile tra la stasi contemplativa dell’inquadratura e i movimenti più dinamici. Nello specifico, la macchina da presa rompe la sua immobilità solo due volte, in scosse singole e significative, che fungono da metafore delle tensioni interiori e delle pulsioni telluriche dell’isola. Gli attori, Maria Fernanda Durán Rodriguez e Quique Hernandez Perez, sostengono l’architettura narrativa con una presenza scenica misurata, quasi essenziale. La fotografia curata da Darik Janik non si limita a documentare, ma eleva il paesaggio a dialogo: la vitalità lussureggiante del resort si scontra visivamente con l’austera desolazione del vulcano, componendo un affresco di grande impatto emotivo e concettuale.

La felicità tra le ceneri della società

Il cortometraggio si distacca con decisione dalla mera dimensione psicologica individuale, offrendo una potente e stratificata chiave di lettura sociale del nostro tempo. L’opera, parte integrante del significativo progetto Bajo el volcán, assume chiaramente i connotati di un sentito tributo alle popolazioni locali segnate profondamente dall’eruzione vulcanica del 2021. La ferita geologica dell’isola, lungi dall’essere un semplice sfondo, funge da ineludibile specchio della fragilità umana e della sua relazione con le forze primordiali. L’utopia del giardiniere, la sua ostinata volontà di generare vita e bellezza dal disastro naturale, si oppone plasticamente e ideologicamente all’afasia della ragazza, figura saturata dalla superficialità del consumo e del lusso turistico. Il film, in questo contrasto, interroga con acume la felicidad preconfezionata e vendibile nei resort contro quella autentica. Una felicità che, secondo Mastroleo, richiede cura, sforzo, un’azione etica e un profondo atto di fede nel futuro, anche quando ci si confronta con l’evidenza ineluttabile delle rovine.

Un trattato d’intelligenza visiva

L’operazione condotta da Mastroleo si configura come un piccolo, ma incisivo, trattato sulla perseveranza del senso. La maturità stilistica del regista si evidenzia nella capacità di gestire il tema con estrema sobrietà, senza cadere nel didascalismo esplicito. Il titolo, profondamente evocativo, può ammiccare in modo ironico al celebre successo sanremese di Al Bano e Romina – non a caso, il regista è di origini pugliesi. Si potrebbe quasi fantasticare che il giardiniere, nella sua solitaria ascesa al cratere, canticchi in spagnolo quel motivetto pop, contrapponendo la sua leggerezza alla gravità del gesto. Il film, tuttavia, è un inno ben più profondo, quasi ascetico, alla ricerca dell’appagamento. Felicidad non fornisce comode risposte, piuttosto, articola interrogativi fondamentali con una rara intelligenza visiva e sensoriale. L’opera lascia un’eco prolungata, stimola la riflessione sulla resilienza e sulla costante, vitale, ricerca di un luogo — fisico o mentale — dove piantare il proprio giardino. Un lavoro intenso, destinato a segnare il panorama del cortometraggio autoriale.

 

Felicidad

  • Anno: 2025
  • Durata: 19'
  • Distribuzione: LightsOn Film
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia, Spagna, Australia
  • Regia: Francesco Mastroleo