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Alice nella città

In dialogo con Max Walker-Silverman, regista di ‘Rebuilding’

Valore e dovere dell'arte, natura e speranza

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Il 25 ottobre, presso Casa Alice, si è svolta una roundtablecon il regista Max Walker-Silverman, ospite di Alice nella Città per presentare il suo nuovo film: Rebuilding. 

Alice nella città – 15 al 26 ottobre 2025

Il lungometraggio è una storia di rinascita, dove comunità e contatto con la natura aiutano il protagonista Dusty (Josh O’Connor) a rinascere dalle ceneri (letteralmente). E il dialogo con lui è stato un piacevole confronto, che ci ha dato modo di parlare di arte, speranza e socialità.

Ho letto che questa storia è di ispirazione autobiografica. Come hai portato, all’interno del film, questa tua esperienza personale e anche il tuo sentimento di casa?

Sì, si basa su un evento realmente accaduto a mia nonna, la cui casa è andata distrutta in un incendio. E questa tragedia si è accompagnata a un miracolo di rinascita, che è poi ciò che ha ispirato il film. È ambientato in Colorado, il luogo dove sono nato e cresciuto e, quando ne ho la possibilità, sfrutto sempre la possibilità di ambientare lì la mia arte.

Rebuilding è un’opera di finzione, una fiaba, e per questo ho scelto di parlare di bellezza e speranza; se fosse stato un saggio giornalistico, chiaramente non avrei potuto farlo. Ma l’arte è importante proprio perché ci dà modo di credere che un miglioramento è possibile.

Il Colorado, così come altre zone degli Stati Uniti, ha un rapporto particolare e complicato con la natura, e il film ce lo mostra. Ma mostra anche quanto sia necessario il senso di comunità per reagire a questo conflitto, possibilità che sembra ormai estranea agli occhi di un paese diviso. In un contesto del genere, il tuo film può essere considerato una sorta di atto di resistenza?

Sicuramente gli Stati Uniti si fondano sul mito dell’autosufficienza e sul potere del singolo individuo. Questo mito, pur essendo diffuso in tutto il mondo, è una colossale menzogna, perché gli Stati Uniti sono stati costruiti grazie alla collettività. Ma il mito dell’individualità è duro a morire poiché estremamente intessuto nella nostra società e storia.

Una nazione ha il dovere di accudire i propri cittadini e aiutarli, e invece vedo che tanti paesi, incluso il mio, voltano tristemente le spalle alla loro gente. È un intreccio di egocentrismo e di odio che rattrista la maggior parte di noi, di chi crede nel sostegno reciproco. Si sta fragilizzando il concetto di nazione in tante aree del mondo; gli Stati Uniti ne sono un esempio lampante.

A proposito di speranza: il tuo racconto ne è pieno, come tu stesso hai affermato. Credi di essere una voce fuori dal coro o pensi che man mano verrà inclusa nelle narrazioni contemporanee?

Io credo fermamente che abbiamo bisogno della speranza. Chiaramente, conosco lo stato di disperazione attuale, dunque può sembrare ingenuo o sciocco ciò che dico, ma è necessario credere nella possibilità di un mondo migliore; disperarsi porta solo a paralisi e inazione.

Forse non è particolarmente di moda manifestare certe opinioni, ma io non credo che piangendo su noi stessi e sul periodo tetro che siamo vivendo, si possa apportare un cambiamento. La speranza non è qualcosa di astratto, bensì un concetto alla base di una scelta molto precisa: quella di rendere più efficaci i mezzi che abbiamo per migliorare la nostra esistenza. È questo il senso di Rebuilding e del mio compito di cineasta.

Josh O’Connor è uno degli astri nascenti del cinema contemporaneo. Com’è nata questa collaborazione, cosa avete dato l’uno all’altro e cosa ha aggiunto lui alla storia? 

Josh aveva già avuto esperienza di un set simile con Alice Rohrwacher (che è per entrambi eroina e punto di riferimento), e gli stava molto a cuore l’aspetto ecologista del film. Inoltre, era entuasiasta di interpretare un ruolo diverso rispetto ai suoi soliti, e soprattutto molto distante da se stesso.

Il personaggio di Dusty, ridotto all’osso e scarno dopo aver perso qualsiasi cosa, richiedeva un attore dotato di anima profonda e gran cuore. Josh aveva la delicatezza adatta per poter interpretare un protagonista di questo genere, così fragile e perso. Ha mostrato sensibilità anche con il resto della troupe, composta da bambini, attori alle prime armi e animali.

Abbiamo girato in mezzo al nulla per settimane ed è stato stato molto bello è stimolante. È un’esperienza estrema, e proprio per questo si presta a una selezione naturale: chi accetta di lavorare al progetto è perché lo vuole davvero. Abbiamo lavorato tutti insieme come una compagnia teatrale del secolo scorso.

Ho trovato il tuo film sia classico che contemporaneo. A quale cinema ti ispiri? E quali sono, in generale, i tuoi generi culturali di riferimento?

Penso al cinema italiano, ma anche a Kaurismaki e ad Alice Rohrwacher; in generale, mi ispiro a film che hanno la capacità di elaborare storie, racconti e fiabe che attingono a radici folkloristiche dei paesi di provenienza. Di recente, ho visto Napoleon Dynamite e ho pensato “è proprio questo il cinema che cerco di proporre”. Ho riferimenti precisi anche nella musica e nella composizione, come John Prine. Mi piace la rappresentazione di un certo west, che non sia il solito west sanguinario, ma il racconto di qualcuno che si colloca ai margini della legge con dolcezza e rispetto. Vorrei inserirmi in questo tipo di narrazioni e cultura.