Cosa resta di noi quando tentiamo di aggiustare, ma senza successo?
E cosa ci spinge, invece, a tentare comunque di riparare il mondo, un oggetto, una relazione, anche quando tutto sembra irrimediabilmente rotto? In My Daughter’s Hair, presentato in concorso ad Alice nella Città 2025, il regista iraniano Hesam Farahmand debutta con un’opera sorprendentemente matura e intima, un dramma domestico che diventa riflessione universale sul gesto della “riparazione”. Una riparazione che va oltre il materiale e si intrica con quella morale ed affettiva.
Il film segue Tohid (Shahab Hosseini, già volto del cinema di Asghar Farhadi), un padre che ha dovuto lasciare il lavoro a seguito di un trauma subito, che trascorre le giornate collezionando oggetti rotti per poi aggiustarli e rivenderli. Non è solo un accumulatore, è un uomo che tenta, con gli strumenti che gli restano, di salvare ciò che oramai sembra sfuggirgli. L’opera ruota intorno a questo: un padre che vuole salvare sua figlia derubata del computer, strumento necessario per lavorare.
Un esordio tra intimità e critica sociale
Scritto da Mohammad Ali Hosseini, My Daughter’s Hair (Raha) si inserisce nel solco del nuovo cinema iraniano che guarda al quotidiano come campo di tensione politica e spirituale. Farahmand però non filma la miseria, ma il gesto. Non mostra la povertà come condanna, ma come spazio etico, luogo in cui il reale si misura con la coscienza.
La regia è ferma, pudica, mai spettacolare. La macchina da presa resta distante, come se non volesse violare il dolore. Ma dentro quell’apparente calma si muove tutto: corpi che si evitano, sguardi che si sfiorano, oggetti che diventano prolungamenti della mente. L’immagine è statica solo in superficie: in realtà vibra, vive di micro-movimenti interiori. A muoversi sono proprio i personaggi, fra le riprese in diretta e le telecamere di sorveglianza, mescolando il drammatico con il giallo.

My Daughter’s Hair: riparare come forma di resistenza
“Ha usato la molla della trappola per topi.”
Con questa frase, detta dal figlio riferendosi al nuovo tostapane, Farahmand ci introduce immediatamente al cuore del film. Tohid vive in una casa ingombra di ferri, molle, carcasse di elettrodomestici: un piccolo universo post-industriale in cui ogni pezzo può avere una seconda vita.
Ma l’atto del riparare non è solo economico. È un gesto di resistenza morale.
Nel suo voler rimettere in moto ciò che è rotto, il protagonista compie un atto politico contro la logica consumistica, ma ancor più, tenta di negare la morte simbolica della sua famiglia.
Il film si colloca così in quella linea di autori che, come Bong Joon-ho, leggono la famiglia come microcosmo sociale e politico. Un unità che come in Parasite deve scendere a compromessi per poter sopravvivere. Anche se questo comporta entrare nelle abitazioni altrui. Tohid aggiusta oggetti come se potesse ricomporre il proprio mondo, ma ogni riparazione è anche un fallimento. Eppure, in quel fallimento, c’è la sua umanità.
Il sacrificio di Raha: dal gesto al mito
“Mia figlia ha venduto i suoi capelli e ha dato i soldi a suo padre affinché le comprasse un altro computer portatile. Qual è il nostro crimine? È un crimine non poterci permettere di comprare cose nuove?”
Il gesto di Raha (Zoha Esmailifar), la figlia, è il cuore pulsante del film. Per poter ricomprare un computer, la ragazza si taglia i capelli e li vende. È un atto che rimanda alla Jo March di Piccole Donne, ma anche alle figure archetipiche del sacrificio redentore: Antigone, Ifigenia, o persino Maria nel silenzio del dolore.

Il taglio dei capelli è un simbolo di identità e dignità, che a sua volta diviene una rinuncia iniziatica, un rito di passaggio. Farahmand lo filma senza enfasi, con pudore quasi religioso. Non c’è retorica, solo verità. In una società dove la bellezza femminile è ancora merce o vergogna, Raha compie un gesto radicale: trasforma la perdita in possibilità. L’opera, intitolata non a lei ma ai suoi capelli, custodisce in quella scelta tutto il senso del racconto: la materia che si sacrifica per dare forma al sogno.
Il film introduce poi un tema di karma materiale, quasi metafisico. Il computer che Raha tenta di riottenere e che il padre ricompra, forse rubato, passa di mano in mano come un oggetto maledetto, generando colpe e ingiustizie.
Come in Sympathy for Mr. Vengeance di Park Chan-wook, la vendetta non è mai esterna ma interiore: una spirale di gesti che ritornano, un karma etico dove la sofferenza genera altra sofferenza. Cerando così un circolo vizioso.
Quale è la colpa in My Daughter’s Hair?
“My daughter’s Hair approfondisce le difficoltà nascoste della gente comune. Ispirandomi a esperienze reali, ho cercato di creare personaggi autentici che navigano in un mondo in cui la giustizia è incerta e le scelte determinano il destino. Il film combina immagini poetiche con il realismo sociale, offrendo una storia che risuona oltre i confini.”
Precisa Farahmand. In fondo, ciò che resta di My Daughter’s Hair è la percezione di un mondo in bilico, dove l’ingiustizia non esplode ma si infiltra nei gesti minimi. Il regista non cerca di denunciare: registra, con una calma quasi documentaria, l’impossibilità di distinguere fino in fondo la colpa dal bisogno. Il suo cinema si costruisce nella zona grigia, dove la legge non è garanzia ma rumore di fondo, e dove ogni decisione diventa un atto morale. Dal comprare, al vendere ed al nascondere.
Si tratta di un’idea di realismo che non ha nulla di naturalistico: il regista osserva i volti come spazi poetici, li lascia consumarsi nel silenzio, come se la macchina da presa fosse un testimone troppo umano per giudicare. In questo senso, la sua opera guarda oltre i confini dell’Iran contemporaneo e dialoga con un’idea più ampia di cinema politico: non quello che espone il conflitto, ma quello che lo abita. Di chi è dunque la colpa? Di chi abita il conflitto, chi lo espone oppure del sistema stesso?