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Intervista a Marco Bertozzi co direttore di UnArchive

Il Festival del cinema d'archivio torno a Roma dal 27 maggio al 1° giugno con la sua terza edizione

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UnArchive Found Footage Fest

Dopo il successo delle passate edizioni, UnArchive Found Footage Fest torna per il terzo anno a Roma, dal 27 maggio al 1° giugno 2025. Ideato e prodotto dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ETS. il Festival racconta gli orizzonti cinematografici del riuso creativo delle immagini, con l’intento di intercettare nuove e diverse forme espressive, al confine tra cinema, videoarte, istallazioni e live performance. Noi di Taxdrivers abbiamo avuto il piacere di intervistare Marco Bertozzi che, con Alina Marazzi, condivide la direzione artistica del festival.

Il programma della terza edizione di UnArchive Found Footage Fest

Per iniziare, ci puoi fare una panoramica sui film in concorso?

L’intero programma della terza edizione di UnArchive Found Footage Fest sarà illustrato il prossimo 19 maggio, durante la conferenza stampa. Per il momento mi limito a segnalarti alcune opere in concorso, come Mes Fantômes arméniens, di Tamara Stepanyan, che realizza una carrellata sul cinema armeno, dalla diaspora in poi. Un film in cui la regista affronta sia la costituzione di un cinema nazionale armeno sia, in termini autobiografici, la sua complessa formazione in quanto cineasta e donna.

Oppure un’opera come Trains, di Maciej J. Drygas, con eccezionali immagini d’archivio che raccontano l’epopea costruttiva delle ferrovie, in diversi periodi storici e in diverse nazioni. O, ancora, Billy, un film canadese di Lawrence Côté-Collins, sul controverso rapporto di un giovane e appassionato filmmaker con la regista stessa.

L’intreccio tra autobiografia e storie più vaste è una dominante del Festival, rintracciabile anche in altri film. Le memorie personali intrecciano spesso storie di un intero popolo, di una nazione, di un continente. Si tratta di una modalità potente che, oltre al riuso creativo delle immagini, attraversa performance vocali degli autori in grado di mettere in crisi l’idea della voice-over convenzionale, scardinando proprio la supposta naturalità della voce narrante. È questo deragliamento dalla voce verso espressioni più personali, a volte incerte, che incespicano nel raccontarsi, con tutti i dubbi, le sofferenze e le passioni della vita indiscriminata, segna una rivoluzione fondamentale del cinema contemporaneo.

Riuso di classe, Panorami italiani e Frontiere

Quali sono le sezioni della terza edizione di UnArchive Found Footage Fest?

Oltre al concorso principale mi piace partire da Riuso di classe, la sezione che ospita opere provenienti da vari percorsi formativi, dal Centro Sperimentale di Cinematografia alla NABA, dalla Scuola Volontè di Roma all’Università IUAV di Venezia… Questa sezione, ogni anno più ricca, sarà ospitata nella sala Scena dell’ex Filmstudio, dove verranno presentati i lavori degli studenti di cinema.

Poi c’è la sezione Panorami italiani, con film che segnano la crescente attenzione al found footage dei cineasti italiani, nella quale, tra gli altri, sarà possibile vedere opere come Bestiari, Erbani, Lapidari, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, o Sulla terra leggeri di Sara Fgair.

In Frontiere accogliamo film provenienti dai bordi del pianeta, opere al confine, cine-culture in bilico tra nazioni, popoli, regimi diversi. Un’idea di ibridazione e di mescolanza che produce risultati estetici di grande interesse, mescolando idee sperimentali di riuso e approcci diversi all’archivio. E qui penso a opere come Sempre, di Luciana Fina, Bye Bye Tiberas, di Lina Soualem o My Father’s Diaries, di Ado Hasanovic.

Ma ci tengo a ricordarti anche alcuni eventi speciali, come la Master class di Andrei Ujică, o i cinque lavori realizzati da registi del Québec con materiali conservati alla Cinémathèque québecoise; o, ancora, la sezione Best of Fest, con opere proposteci da altri festival dedicati al riuso delle immagini… nonché una serie di performance live in cui la musica diventa l’arte di riferimento per la rielaborazione delle immagini.

UnArchive. Film che ci emozionano e fanno galoppare la mente

Quale criterio avete deciso di adottare per la selezione delle opere da ospitare alla terza edizione UnArchive Found Footage Fest ?

Direi che siamo alla ricerca di esplorazioni non protette, sin dall’intendere l’archivio come un irrequieto luogo di conservazione. Ci muoviamo alla ricerca di ri-assemblaggi non convenzionali, per costruire costellazioni visive capaci di tenere insieme consapevolezza teorica e rischio del gesto artistico. Uno scenario ricco di potenzialità che il Festival attraversa e stimola, con atti che privilegiano la dimensione vivente e relazionale delle immagini, nella costruzione di memorie e storie alternative.

Per quanto riguarda la selezione delle opere abbiamo da sempre evitato la rincorsa all’anteprima. Siamo per i film e per i cineasti, il nostro compito è mostrare e condividere, non rincorrere rassegne stampa affascinate dalla primogenitura di una visione o dal tappeto rosso. Il nostro interesse è rivolto a film che ci emozionano e fanno galoppare la mente, opere che spesso hanno una vita difficile, alle quali cerchiamo di dare massima visibilità.

Tra diritti d’autore e manipolazione delle immagini

Questo criterio è stato adottato anche nelle passate edizioni, con la scelta di film che, purtroppo, difficilmente potevano o potranno avere una normale distribuzione in sala. Faccio l’esempio di Una claustrocinefilia, scritto e diretto da Alessandro Aniballi, un lungometraggio innovativo, dove il suo autore riesce a essere, allo stesso tempo, regista e critico cinematografico. Ma proprio per la natura della sua opera, costituita da tanti spezzoni di altri film, non può avere una distribuzione convenzionale in sala. Come si può superare questo impasse?

 Tocchi un aspetto fondamentale. E’ un tema gigantesco, che si sviluppa a cavallo di due grandi assi: da un lato quello di natura giuridica, sviluppatosi dal Settecento tra Francia e Inghilterra, con l’obiettivo di tutelare il diritto d’autore; dall’altro, più recente, quello diffusosi enormemente con lo sviluppo del digitale, che ha creato il desiderio, forse l’illusione, di potere giocare/manipolare/rimontare liberamente immagini alla portata di tutti. Lo scontro tra salvaguardia del diritto d’autore e libere possibilità di utilizzo segna una riflessione molto contemporanea, sulla quale si dibattono idee di giuristi, filosofi, cinetecari, documentalisti, cittadini…

Personalmente sono per una maggiore modulazione delle possibilità di utilizzo, soprattutto per usi culturali, o legati alla ricerca, alla sperimentazione, alla costruzione e alla rielaborazione degli immaginari comunitari. Quanto dobbiamo pagare immagini prodotte o, a volte, semplicemente conservate, in istituzioni che abbiamo contribuito noi stessi a sovvenzionare come cittadini? Giusto tenere conto dei costi di gestione, restauro, valorizzazione dei patrimoni audiovisivi ma allo stesso tempo è importante sviluppare politiche culturali capaci di favorire lo sviluppo delle arti contemporanee, nonché la vita democratica del Paese, limitando fortemente i costi di utilizzo di immagini che ci appartengono.

Visioni ribelli

Ti riferisci a quei film, come quello di Aniballi, di cui parlavamo prima e ad altre opere che usano materiale preesistente per creare un film nuovo, autonomo che, invece di essere penalizzati, con un alto costo per i diritti d’autore, andrebbero tutelati?

 Esatto. È proprio questo il potere del found footage, una capacità di valicare l’approccio filologico, per scavare nel potenziale delle immagini. E offrirci visioni originali, ribelli, stranianti. Pensa al tipico caso di filmini familiari felici, dove il  padre di famiglia esigeva una messa in scena istituzionale, a volte al di là della volontà dei familiari stessi. In molti film contemporanei questa armonia di facciata viene rivisitata, quando non ribaltata, per cercare di offrire una gamma emozionale più complessa e raccontare fatti, e, a volte, misfatti, inconfessabili.

Lo stesso concetto lo esponi nel tuo libro Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, dove giungi alla conclusione che tale processo rende le immagini d’archivio di dominio pubblico.

 Direi un nuovo dominio pubblico, nell’emergere di questioni teoriche e storiografiche che investono la stessa idea di cinema. Pensa solo a una possibile estensione delle storie del cinema, da un lato a tutto il cinema orfano, di famiglia, amatoriale, underground, scientifico…insomma tutto ciò che non è stato considerato come opera d’arte cinematografica; dall’altro alla necessità di valicare l’idea di Storia del cinema come tradizionale Storia dell’arte, dunque fatta di opere memorabili e grandi successi – di pubblico o economici – per rendere appieno l’idea che le immagini continuino a pensare ben oltre la loro collocazione forzata dentro un’opera finita una volta per tutte.

Come dimostrato da tanti, da Baruchelli e Grifi, con Verifica incerta, sino a Godard, con le sue Histoires, o alle registe e ai registi che ci hanno accompagnato in queste prime edizioni di Unarchive, rivisitare le immagini del cinema significa farle esplodere verso innumerevoli altri significati. E rilocarle in nuovi spazi e in diversi dispositivi, per fruizioni al tempo stesso museali e transmediali.

La lezione di Enrico Ghezzi con Blob

È indubbio che la modalità del found footage sta avendo una particolare diffusione negli ultimi anni, ma in realtà le sue origini vanno ricercate in tempi molto lontani.

Certo, si tratta di una pratica iniziata con il cinema muto, nel riuso sia di film dal vero, sia di film di finzione, proseguita negli anni ’30 – penso, ad esempio, a Gloria, un documentario di propaganda fascista che cercava di risemantizzare le immagini della Prima guerra mondiale – ed esplosa soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. Quest’anno, grazie alla collaborazione con Philippe Alain Michaud del Centre Pompidou, mostreremo alcuni film di Ken Jacob, un maestro del genere. Ma mi piace ricordare quando  anche in Italia, a inizio anni Sessanta, tanti giovani autori si cimentano in questo cinema creativo e destrutturato, dai citati Baruchello e Grifi a Gianni Amico, da Tinto Brass a Cecilia Mangini, Lino Micciché e Lino Del Fra, da Pier Paolo Pasolini ad Alfredo Leonardi

Sempre restando in Italia un contributo fondamentale al found footage è stato dato da Blob.

È un esempio magnifico. Siamo tutti debitori nei confronti di Enrico Ghezzi.  Con Blob, Ghezzi ci ha scodellato una critica televisiva attuata attraverso le immagini della televisione stessa. Una critica ludica e ribelle, non basata sulla parola, ma sull’immagine rieditata. Una riflessione pratico-estetica che va oltre il visibile, amplia il pensiero, e preserva le potenzialità dell’immagine proprio sovvertendone la sua finalità primigenia.

UnArchive. Overdose di immagini

Il tuo discorso ci porta a trattare del rapporto del found footage con la realtà che, per tornare al tuo libro, introduci illustrando i fatti del G8 di Genova del 2001.

In quel caso mi riferivo alla proliferazione dei dispositivi di ripresa attuati dal popolo delle mille camerine. Una moltiplicazione dell’atto di vedere che pensavamo fosse in grado di rappresentare la realtà di quei giorni. Forse Genova ha fatto luce proprio su questo, cambiando definitivamente i modi di rappresentare i movimenti. Sino ad allora era normale riprendere il corteo dei manifestanti, dopo Genova ci si è resi conto che questo poteva non servire più a nulla.

Che quella overdose di immagini su gente in marcia non riusciva a spiegare la tragedia in atto, la durezza delle reazioni delle forze dell’ordine, le mistificazioni compiute proprio in nome della società dell’informazione. Restava testimonianza muta, nella quale la quantità di reale occultato era incredibilmente più vasta del tentativo collettivo di riprendere il visibile. E, alla fine, quella centinaia di ore di veri pestaggi, reiterati in decine di video digitali, rischiavano di comunicare a stento, di scalfire appena i grandi immaginari del pensiero unico televisivo.

E se quelle immagini documentarie non sono riuscite a darci uno sguardo alto, capace di superare la violenza sulla pelle per arrivare a intaccare quella occulta, ancora più tragica, delle istituzioni e dei suoi regimi, Genova 2001 è stato comunque un momento di emersione di un cine tribalismo capace di lavorare in trasferta, fuori dai circuiti televisivi mainstream, nell’immenso tentativo di condividere una esperienza politica e mediale, fra innesti autobiografici, quello del io c’ero, e un più vasto coro no-global.

Bill Morrison ospite della terza edizione di UnArchive Found Footage Fest

Tutto ciò mi porta a parlarti di un altro aspetto importante, condiviso dal cinema sperimentale e dal documentario contemporaneo: quando, non avendo a disposizione immagini su un determinato fatto, realmente accaduto, si fa ricorso all’animazione, oppure al reenactment, per ricostruire/immaginare parti mancanti del racconto. E anche questo è un aspetto esteticamente rivoluzionario, se pensi che fino a qualche anno fa l’animazione era un genere destinato esclusivamente, o quasi, ai bambini, con un taglio immancabilmente favolistico; e il documentario, all’opposto, era considerato attestazione di verità. Oggi le due forme si incrociano sempre più spesso, in un’ottica di attraversamento cinematografico del reale molto più complessa.

Un altro esempio che posso fare riguarda le immagini del cinema muto, quando l’emulsione degradata dal tempo, dall’umidità o da altri agenti patogeni, le sottrae al realismo primigenio per offrirci magiche perturbazioni iconiche. Sino a qualche decennio fa erano considerate immagini perdute o, in alcuni casi, da restaurare, ma oggi ne apprezziamo l’indecidibilità e la loro supposta patologia diviene centrale per pratiche di riutilizzo come quelle attuate da Bill Morrison, ormai un ospite fisso di UnArchive. In questa edizione del Festival Morrison ci offrirà un’altra splendida composizione delle sue, intitolata darker, in uno speciale cine-concerto accompagnato da dodici archi che avrà luogo all’Auditorium del Parco della Musica.

Questa terza edizione di UnArchive Found Footage Fest, infatti, non offrirà solo proiezioni cinematografiche, ma c’è un vasto programma che comprende anche tanti altri eventi.

Le performance visive di UnArchive Found Footage Fest

C’è la volontà di lavorare in un’ottica espansa: unire la visione cinematografica ad accompagnamenti musicali dal vivo, o a momenti performativi. Penso, ad esempio, all’esibizione di Federica Foglia in una serata intitolata Super paesaggi, con l’accompagnamento di un trio sonoro. In quest’occasione l’artista mostrerà come lavora con i suoi film orfani, utilizzando procedure che ricordano l’arte scultorea, tagliando e incollando la pellicola, con modalità estremamente materiche. È una direzione che ci trova uniti, con Alina Marazzi, la co-direttrice, Luca Ricciardi, direttore organizzativo, e l’intero Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, assolutamente centrale per garantire forza e continuità al lavoro di programmazione di Unarchive.

Così ritorniamo al discorso della manipolazione delle immagini che non è mai uno sterile riutilizzo. È questo un metodo che viene adottato non solo nel cinema, ma in diverse altre discipline artistiche.

La giuria di UnArchive 2025

 A partire dalla letteratura, come fece Walter Benjamin nel magnifico Parigi capitale del XIX secolo. Oppure, pensa alla rivoluzione attuata da Aby Warbug che esce dall’idea classica, cronologica, di Storia dell’arte per fondare una Storia della cultura in grado di attraversare diverse temporalità e localizzazioni, montando e collegando tra loro opere lontanissime. Negli ultimi anni l’idea del riuso ha assunto un forte valore ecologico e investito altre discipline – dalla moda sino al design – ma è proprio nell’arte visiva che la pratica è esplosa, con opere presentate in musei, gallerie, biennali. Pensa a The Clock, di Christian Marclay, meritevole del Leone d’Oro alla Biennale nel 2011, che monta circa 12.000 spezzoni di film con immagini di orologi, sveglie, pendoli, lancette di ogni genere ed epoca, per rappresentare quel determinato minuto della giornata in un film fiume di ventiquattro ore.

Prima hai accennato alla performance che terrà Federica Foglia, presente alla terza edizione di UnArchive Found Footage Fest anche in qualità di giurata. Il suo ruolo d’artista, cineasta e in questo caso di giurata è un’ulteriore conferma di volontà di espandere il potere comunicativo della macchina cinema?

 Con la scelta della giuria cerchiamo sempre di espandere l’ambito prettamente cinematografico. Oltre a Federica Foglia, quest’anno potremo godere dell’esperienza di Costanza Quatriglio, che dirige la sezione di cinema documentario del Centro Sperimentale di Cinematografia, e nella passata edizione era presente con Il cassetto segreto, e degli sguardi accuminati di Eyal Sivan, cineasta e saggista israeliano da sempre vicino alla tragedia palestinese, anche lui presente nella passata edizione con lavori fondati su un riuso fortemente politico dell’immagine.

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