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‘Indietro così’ intervista con il regista Antonio Morabito

Un racconto di emarginazione, ma anche di creatività. Alle Notti Veneziane

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Alle Notti Veneziane all’interno dell’82esima edizione della mostra del cinema di Venezia nella sezione de Le giornate degli autori, c’è anche Indietro così di Antonio Morabito.

Stefano è un operatore sociale che fa teatro integrato con disabili anche psichiatrici. Spesso è difficile andare avanti. E allora come si fa, ci si ferma? No. Basta andare indietro. Le prove con gli “attori” Elisabetta, Luigi, Alessandra e Daniele, si avvicendano ai laboratori dove Barbara, Cinzia, Daniele, Mario, Marco, Rosaria, Benedetta esplorano abissi dentro se stessi attraverso la pratica teatrale, portando le loro idee, i loro ricordi, l’autismo, le sindromi, la fantasia, le ansie, la gioia, la memoria, le psicosi, in un turbinio di arte e disabilità, andando indietro verso nuovi progressi, guidati da Stefano, che assorbe tutto e li stimola, li guida e li coinvolge, rivelandosi alla fine meno invulnerabile di quello che all’inizio poteva sembrare…

Indietro così! è un racconto di emarginazione, di periferie fisiche e mentali, di luoghi oscuri fuori e dentro. Ma anche di creatività, resistenza e voglia di vivere. (Fonte: Vertigo Film)

In occasione della presentazione a Venezia abbiamo fatto alcune domande al regista Antonio Morabito.

Antonio Morabito e la genesi di Indietro così

Com’è nata l’idea di questo documentario?

Devo premettere che avevo già fatto un documentario una decina d’anni fa che parlava di disabilità, sempre con Stefano come operatore, dal titolo Che cos’è un Manrico. In quell’opera i protagonisti erano Stefano e Manrico, un ragazzo distrofico, o meglio il protagonista era Manrico, e Stefano gli faceva un po’ da spalla. Poi, approfondendo la cosa e considerando che Stefano lo conosco da una vita e sapevo che aveva cominciato a occuparsi anche di teatro nel suo lavoro, lo seguivo. Da qui ho avuto il desiderio di fare una cosa che lo vedesse rovesciare un po’ la situazione, in modo da renderlo protagonista, come fosse lui il fil rouge, mostrando quanto fosse complesso, faticoso, sottile e delicato il suo lavoro.

L’occasione è arrivata con un piccolo produttore, Tony Campanozzi, che, grazie alla sua follia e al suo coraggio, ha prodotto il documentario da solo, senza nessun finanziamento, come un vero e proprio salto nel buio. Lui ci teneva a realizzare qualcosa con me perché ci siamo conosciuti sul set del mio film Il Venditore di Medicina, nel quale lui faceva una piccola parte. Poi lui ha aperto questa piccola casa di produzione che si chiama Vertigo Film e da allora vuole assolutamente fare una cosa con me e questa è stata l’occasione perfetta: un film produttivamente piccolo, ma comunque molto impegnativo.

C’è stata libertà totale e questa è stata la forza del film.

Chi è il protagonista?

Hai detto che in questo documentario Stefano è il protagonista ed è vero, però, al tempo stesso, a differenza di tanti altri titoli, Indietro così si concentra forse più sul tema e sulla storia che sul personaggio. Il protagonista diventa il raccontare quello che fa Stefano piuttosto che Stefano stesso.

Sì, lui deve venire fuori attraverso le cose che fa e che dice, così come l’approccio filmico. L’approccio di regia, secondo me, non deve esserci, cioè io non cercavo un’estetica, un indugiare, ma cercavo più che altro qualcosa che mettesse la storia e le varie vicende al centro con i vari personaggi, e quindi per far questo bisognava comunque trovare la giusta distanza tra la macchina da presa e i personaggi. Questa è stata la cosa più delicata e, al tempo stesso, fondamentale.

Poi c’è da dire che questo tipo di documentario in generale viene definito di osservazione, però credo che sia quasi impossibile l’osservazione se c’è di mezzo una macchina da presa, perché comunque una macchina da presa perturba lo spazio che c’è intorno. Anche io l’ho fatto perché puoi essere il più discreto possibile (io ho girato senza operatore, senza direttore della fotografia, senza fonico, per la gioia della montatrice del suono Silvia Moraes che poi ha dovuto fare un po’ di miracoli), però con la consapevolezza che comunque la macchina da presa influenzava l’ambiente circostante.

Secondo me la cosa più importante è stata quella di capire la distanza tra la macchina e i soggetti (quando avvicinarmi, quando stare un po’ più in disparte) ed è stato questo l’equilibrio. Anche per questo motivo Stefano non è autocelebrato, non si racconta, non fa, ma viene fuori attraverso quello che fa, come dici tu.

Secondo me è proprio questo l’elemento che funziona, perché alla fine valorizzi tutto allo stesso modo, e diventa bello l’ambiente che crea e quello che fa in generale.

Assolutamente.

Unito a questo c’è anche il fatto che tutte le persone con cui ha a che fare sono trattate in modo normale, naturale, per quanto possibile. Non c’è una spettacolarizzazione in negativo o in positivo.

Esatto. Infatti io non ho voluto sapere niente, non ho volutamente approfondito, poi a volte me lo dicevano per questioni evidenti, però non volevo neanche sapere la loro patologia, volevo che tutta la parte clinica fosse un po’ messa da parte per dare risalto e concentrarmi sulla loro umanità, sulla loro normalità. È tutto il lato umano che interessava Stefano e di conseguenza interessava me nel film.

Il rischio in effetti era spettacolarizzare un qualcosa che, invece, doveva essere raccontato, come hai giustamente fatto, in maniera lineare e naturale.

Si tratta di un filo molto sottile. E quella è la difficoltà maggiore: non riuscire a non andare di là, però, al tempo stesso, neanche stare troppo di qua altrimenti il rischio è l’effetto opposto. Ed è una delle caratteristiche che più mi è piaciuta e più mi ha affascinato di Stefano e di come lavora. Lui arriva a un livello di intimità clamoroso, però sa sempre quando fermarsi, anche perché è sempre presente questa costante e totale assenza di giudizio. Tutti loro si sentono sempre non giudicati, infatti tutti quanti sono sempre molto contenti di vederlo.

Il documentario di Antonio Morabito è metacinematografico

E collegato a questo mi viene da riflettere sul fatto che sembra quasi di vedere uno spettacolo nello spettacolo. Alla fine loro stanno preparando una sorta di spettacolo, fosse anche solo il rapportarsi con lui. E secondo me questa cosa si percepisce anche grazie a tutti questi primi piani che sembrano quasi titoli dei capitoli, come se fosse diviso in più capitoli e ognuno avesse il suo piccolo spazio parlando direttamente col pubblico o anche solo facendosi vedere e guardando in camera.

Sicuramente c’è un approccio metafilmico, perché comunque Indietro così inizia e finisce con uno spettacolo teatrale e tra le cose che mi avevano molto colpito c’erano proprio le parole che dice Stefano all’inizio. Così come tutto il dialogo che c’è alla fine, poco prima dei titoli di coda, tra i due protagonisti dello spettacolo teatrale.

Volevo chiederti di una scena che mi ha colpito, quella con la tovaglia e la musica, nella quale è coinvolto un bel gruppo che sembra quasi essere composto da personaggi diversi da quelli che abbiamo visto fino a quel momento perché tutti sono a proprio agio e completamente liberi anche di essere loro stessi.

Sì, secondo me poi la possibilità di ballare così e giocare con la musica allevia proprio ogni tipo di verticalità nel rapporto con gli operatori e tra loro. Quella in particolare è stata una scena un po’ magica su questa musica di Battiato che quando la sentii la prima volta e stavo cominciando le riprese, dissi dobbiamo veramente farci in quattro per avere questa musica.

Stefano in movimento

E poi c’è un aspetto interessante che mi ha colpito: il fatto che Stefano, quando non è con i ragazzi, è sempre in movimento, spesso su un mezzo di trasporto, dall’autobus all’auto, ma sempre comunque in movimento. Si può leggere come una metafora di cambiamento o di ricerca continua anche di sé?

Sì, questa per me è una cosa molto importante: Stefano passa tutto il tempo ad ascoltare le loro storie, ha una capacità di assorbimento estrema. Un po’ come le sedie nell’esercizio della sedia vuota, quante cose hanno assorbito, quante insoddisfazioni, se potessero parlare chissà cosa verrebbe fuori. Stefano allo stesso modo assorbe le cose e non se le può tenere dentro. È costretto a farci i conti, è come se ci fosse un continuo ripensamento, una messa in discussione di queste cose che ha assorbito. È come se da una parte il movimento lo aiutasse. E poi c’è questo senso di precarietà estrema, nel senso anche proprio di non prevedibilità del lavoro che lo aspetta, perché comunque non ci sono vere e proprie routine nel suo lavoro. Deve essere pronto a tutto. Nella seconda parte del film, infatti, quando vengono fuori un po’ anche delle sue insicurezze, lui dice di poter portare avanti il lavoro in situazioni estreme.

Quindi questo muoversi per Roma, sempre sballottato per mezzi, nel furgone, anche in macchina, spesso a piedi, rappresenta molto Stefano, perché dà un senso di precarietà, di movimento.

antonio morabito

La chiave di lettura

Ricollegandomi a quello che hai detto, c’è una frase che dice a un certo punto che lo spiega: Io sto a mio agio nel disagio e a disagio nell’agio. Credo sia emblematica e forse è un po’ anche come dovremmo leggere il film.

Sì, sicuramente dà più importanza al disagio che non all’agio e quindi si trova più a suo agio in quello, cioè comunque nella cosa più importante per lui, come forse dovrebbe essere. La sua collega lo punzecchia perché comunque ha capito che questa cosa potrebbe anche essere un po’ un rifugio in una zona di confort. Così facendo non si mette veramente in discussione perché comunque, stando nel disagio, non ci si aspetta troppo, si limitano le aspettative in qualche modo.

Alla fine più che una chiave di lettura è quasi un insegnamento…

Un po’ sì. Non dall’alto, però in qualche modo sì.

Il tutto si ricollega poi al titolo che hai scelto per il documentario.

Sì assolutamente. Poi per il titolo si può collegare anche la cosa che dicevi prima sul fatto che il documentario ricalca un po’ il teatro e lo spettacolo in generale che porta avanti Stefano perché comunque è il teatro che lui ha battezzato teatro dell’indietro. Quindi l’ho voluto intitolare Indietro così proprio per far vedere che poi alla fine l’importanza, e ci ricolleghiamo anche all’idea del movimento, è quella della non staticità. L’importante è muoversi, andare avanti. Si può progredire anche andando indietro insomma, cioè con un paradosso linguistico.

È vero. Infatti alla fine si può progredire andando indietro, ma può anche voler dire non guardarsi indietro, ma provare a ripartire sempre.

Certo, c’è chi teorizzava la crescita attraverso la decrescita. Sono paradossi che non hanno niente di razionale, ma sono molto propositivi e in realtà guardano avanti però non in una direzione monotematica, non in una direzione monotona.

Esatto. Infatti anche il film stesso, che forse si può dire che si divide in due parti, non ha una parte positiva e una negativa. Nella seconda parte non si va indietro, anzi. E la morale è positiva.

Alla fine è anche un titolo provocatorio. Non vuol dire “andiamo indietro perché non riusciamo ad andare avanti”, ma andare avanti sarebbe bello e giusto. In realtà andiamo nella direzione che più si confà a noi, basta che progrediamo.

Indietro così è non dare niente per scontato, però fare le cose che si riescono a fare.

Antonio Morabito a Venezia

Il film è presentato alle Notti Veneziane. Quali sono le aspettative per un documentario come Indietro così?

Sì, adesso il film è alle Notti Veneziane e poi sarà al Farnese a Roma che solitamente inserisce nel programma alcuni film di Venezia e poi ci sarà anche la proiezione al cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti che ci ha aiutato nella post produzione del documentario e quindi lo ha selezionato per ottobre.

Quindi un trampolino di lancio da Venezia verso una programmazione in giro per l’Italia?

Speriamo di sì e speriamo di avere una buona distribuzione perché, soprattutto con i documentar, non è mai facile.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Indietro così

  • Anno: 2025
  • Durata: 94'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Antonio Morabito