126 film, di cui 22 in concorso e 77 anteprime italiane. Ma più del numero, colpisce la varietà: dalla fiction all’animazione, dallo sport estremo all’alpinismo, passando per documentari di ricerca. Che messaggio manda oggi il Trento Film Festival attraverso questa diversificazione di linguaggi?
La montagna si può raccontare in molti modi. Nei film di finzione, può essere un contesto. Nei documentari, diventa il soggetto stesso. L’anno scorso il programma seguiva linee tematiche più definite. Quest’anno abbiamo puntato sull’apertura. Abbiamo cercato la massima varietà nelle modalità di racconto. E credo che ci siamo riusciti. Abbiamo visionato 650 film. Ne abbiamo selezionati 126. È una scelta che rappresenta bene le possibilità espressive del cinema legato alla montagna oggi.
La sezione “Western di montagna” è uno dei tratti più sorprendenti di questa edizione. Il western ha sempre parlato di frontiere da conquistare, qui invece sembra volerle osservare ed attraversare. Vi troviamo in questa scelta una riflessione sul modo in cui raccontiamo i territori oggi?

Sì. Anche se i film selezionati sono tutti classici del passato, il tema della frontiera è presente. Uno dei titoli è The Far Country (Terra lontana) di Anthony Mann. Lì si parla della frontiera tra Stati Uniti e Canada. Gran parte del film è girata proprio in Canada. Abbiamo voluto esplorare un lato meno noto del western. Siamo abituati a pensarlo in paesaggi desertici e infuocati, quelli dell’Ovest americano. Ma esistono altri territori e altri climi. Il Canada, per esempio, ha ispirato storie ambientate nel grande nord e nel Québec del Settecento. Basta pensare a L’ultimo dei Mohicani.
Abbiamo selezionato sei grandi film. Tre sono legati a ricorrenze importanti. I Compari di Robert Altman, per il centenario della sua nascita. Ride the High Country (Sfida nell’Alta Sierra) di Peckinpah, sempre per il centenario. E Bite the Bullet (Stringi i denti), in omaggio a Gene Hackman, recentemente scomparso.
Ci sarà anche la versione muta del 1920 de L’ultimo dei Mohicani, accompagnata da musica dal vivo. E Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo), ambientato nello Utah. Un parco naturale straordinario, preservato anche grazie all’impegno di Robert Redford, protagonista del film.
Questo titolo è il mio omaggio personale a Sydney Pollack, regista, e a John Milius, sceneggiatore, che ammiro profondamente. E poi c’è The Far Country. Un capolavoro di Anthony Mann, forse il più sottovalutato tra i grandi maestri del cinema. Questo film è davvero magnifico.




Passiamo alla rassegna editoriale del festival “MontagnaLibri”. Da Un mondo senza api a Oltre l’immaginabile, si respira un’attenzione crescente al legame tra parola scritta ed immaginario visivo. In che modo i libri ed il cinema si stanno intrecciando per raccontare la montagna contemporanea e le sue fragilità?
Io non curo direttamente la parte editoriale, ma da quando sono al festival ho voluto creare connessioni tra libri e cinema. I due percorsi si svolgono nello stesso periodo, e ci sembrava strano che non si incontrassero mai. Così abbiamo costruito alcuni momenti comuni.
Quest’anno ci sarà un focus sul “giallo di montagna”. Ospiteremo autori che ambientano i loro romanzi in contesti alpini. Questo dialoga bene con alcuni contenuti del programma cinematografico. Avremo, per esempio, una masterclass con Avu Minguno, autore de Gli uomini pesce. È un libro ambientato durante gli anni della Resistenza, nella Valle del Po e nel Ferrarese. Parleremo con lui di cinema, memoria e territori che hanno saputo resistere.
In occasione dell’80° anniversario della Liberazione, ci sembrava giusto affrontare questi temi. Avremo anche Jacopo De Michelis, con La montagna dell’isola, ambientato sul Lago d’Iseo. Un giallo che guarda agli anni ’90, ma con radici più antiche. La rassegna letteraria è molto ricca. Tutto parte dalla montagna, ma i linguaggi si intrecciano e si contaminano in modo creativo.
Fra trekking, foraging, degustazioni, tango e molto altro ancora: il Festival vive anche oltre il buio della sala. Quanto è importante oggi costruire un’esperienza fuori dallo schermo? È una risposta al bisogno di coinvolgimento sensoriale oppure una nuova forma di racconto collettivo?
Il Trento Film Festival è anche un laboratorio di esperienze. Non abbiamo solo aggiunto eventi: li abbiamo pensati come parte integrante del racconto. Penso all’apertura dell’anno scorso con il concerto dei Modena City Ramblers. Hanno celebrato i 30 anni del loro disco Riportando tutto a casa. Un momento che ha coinvolto tutti.

Le proiezioni, le presentazioni, gli incontri. Ed i CinContri, dialoghi aperti tra pubblico e ospiti. Cerchiamo sempre di coinvolgere chi viene. Non vogliamo che resti spettatore passivo. L’obiettivo è creare una comunità. E questa comunità esiste. L’anno scorso abbiamo registrato 42.000 presenze in otto giorni. Un numero altissimo per un festival tematico, e così breve. Il cuore resta la programmazione cinematografica. Ma tutto il resto conta eccome.
Non dimentichiamo l’anima alpinistica del festival. Una parte del pubblico è fatta di persone che vivono davvero la montagna. Non si limitano a contemplarla. Vengono a confrontare la loro esperienza con quelle narrate da film, libri, esploratori, sportivi.
Quest’anno, tra l’altro, ci sono molte donne protagoniste di questi racconti. Il risultato? Una comunità viva, fatta di relazioni, scambio e partecipazione. Questo è, oggi, il vero successo del festival.