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Cammini narrativi al Trento Film Festival con Mauro Gervasini

Dall’intimità della sala all’aria aperta: un’esperienza sensoriale e narrativa che si espande oltre lo schermo. Partendo dal cinema argentino fino ai western innevati.

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Cosa accade quando il cinema prende quota? Diventando non soltanto arte da guardare, ma un sentiero da percorrere. Il Trento Film Festival, raccontato da Mauro Gervasini, diventa un altopiano narrativo dove ogni film è una camminata nell’immaginario, tra memoria, esplorazione e visioni che resistono al tempo. Un cinema che non si limita a rappresentare, ma che si mette in cammino. E lo fa assieme al pubblico, attraverso incontri, musica, libri, degustazioni, trekking ed altro ancora. Perché a Trento la visione non si chiude mai dentro una sala, bensì continua fuori, tra le persone, nel corpo vivo del territorio.

La pre-apertura del festival inizia con un ritorno: Silêncio Branco, un film argentino del 1960 restaurato per l’occasione, proiettato proprio dove debuttò nel ‘61. Un gesto simbolico che apre anche alla sezione “Destinazione…” che vede come paese proprio l’Argentina. Cosa rappresenta per lei portare al pubblico questo dialogo tra passato e presente, soprattutto mettendo in luce un paese come l’Argentina?

C’è stata una lunga ricerca durata mesi. Ha permesso di ritrovare le bobine del film, in parte in Argentina e in parte a San Paolo, in Brasile. Questo perché si tratta di una coproduzione argentino-brasiliana. È un film argentino parlato in spagnolo, ma con elementi brasiliani. Unendo i materiali recuperati in entrambi i paesi, Andrés e il suo team sono riusciti a ricostruire una copia. Presenta ancora qualche imperfezione, soprattutto nel sonoro, ma è una restituzione quasi completa. Si tratta del 98% di un film che si riteneva perduto. La considero una vera e propria proiezione inedita, anche se era già stato presentato a Trento. Questa versione include infatti materiali mai montati prima. Rispetto alla copia vista oltre 60 anni fa, si tratta quasi di un’anteprima mondiale.

Il paese ospite quest’anno è l’Argentina, e le ragioni sono molteplici. Il Trento Film Festival ha una forte identità legata alla montagna, all’esplorazione, alle culture d’altura. La sezione “Destinazione” è l’unica a permettersi una deviazione dal tema centrale. In passato, per esempio, abbiamo ospitato l’Etiopia o la Finlandia. Paesi non associati alle grandi montagne, ma ricchi di storie da raccontare.

Nel caso dell’Argentina, però, la montagna c’è davvero. Gran parte della Patagonia è Argentina. Ma ci sono due motivi in più. Il primo è storico e culturale: l’Argentina, insieme al Messico, è la nazione con la cinematografia più solida del Sud America ispanofono. Il secondo è politico: oggi il settore audiovisivo argentino sta attraversando una crisi profonda. I finanziamenti pubblici sono stati ridotti, e questo mette a rischio la capacità produttiva del cinema nazionale. Per questo motivo abbiamo voluto accendere un riflettore sul presente e sulla memoria cinematografica argentina.

La selezione “Destinazione Argentina” conta 13 film. Sei sono anteprime assolute o nazionali. Ho inserito anche alcuni recuperi a cui tengo molto. Zama di Lucrecia Martel. La Cordillera di Santiago Mitre (uscito in Italia come Il Presidente). La quietud di Pablo Trapero, che considero sottovalutato. Los Delincuentes di Rodrigo Moreno, uscito in Italia ma in poche sale.

E infine, un restauro in 4K di Nove Regine (Nueve Reinas). Sarà un’anteprima europea. Questo è anche un omaggio a Ricardo Darín, uno dei più grandi attori argentini. Pochi sanno che suo padre era originario delle Dolomiti bellunesi. Esiste quindi anche un legame familiare con la montagna e Darín è ancora con noi, per fortuna.

Mar de Molada di Marco Segato apre ufficialmente il festival con un’opera che fonde teatro, territorio e coscienza civile. Mentre Vingt Dieux!, ambientato nel Giura francese, lo chiude attraverso una storia di perdita e rinascita. Che tipo di arco emotivo e narrativo ha voluto costruire? C’è un filo rosso che lega questi estremi?

Mar de Molada è un documentario itinerante. Racconta la nascita e la preparazione dello spettacolo teatrale portato in scena da Marco Paolini. Il percorso segue il fiume Piave, con alcune tappe anche lungo l’Adige. Il tema centrale è l’acqua. Un elemento scelto anche perché il 2025 è l’anno che le Nazioni Unite hanno voluto dedicare alla conservazione dei ghiacciai. Si parla anche della Marmolada.

Il film di chiusura, invece, è un’opera di finzione che mi ha colpito molto. E non solo a me, visto che ha vinto il César come miglior opera prima. Il titolo originale è Vingt Dieux!, ma a livello internazionale è conosciuto come Holy Cow. È la storia di un ragazzo di 18 anni che perde il padre in un incidente. Si ritrova da solo a gestire la fattoria casearia di famiglia, con una sorellina di 7 anni da accudire. Un compito immenso per un ragazzo che, fino a quel momento, era immerso nei pensieri e nei desideri della sua età.

Per cercare una via d’uscita, decide di partecipare a un concorso che premia il miglior Comté, un formaggio tipico della zona. È un romanzo di formazione molto diverso da quelli urbani a cui siamo abituati. Qui il contesto è rurale, montano, concreto. È proprio questo a renderlo speciale.

126 film, di cui 22 in concorso e 77 anteprime italiane. Ma più del numero, colpisce la varietà: dalla fiction all’animazione, dallo sport estremo all’alpinismo, passando per documentari di ricerca. Che messaggio manda oggi il Trento Film Festival attraverso questa diversificazione di linguaggi?

La montagna si può raccontare in molti modi. Nei film di finzione, può essere un contesto. Nei documentari, diventa il soggetto stesso. L’anno scorso il programma seguiva linee tematiche più definite. Quest’anno abbiamo puntato sull’apertura. Abbiamo cercato la massima varietà nelle modalità di racconto. E credo che ci siamo riusciti. Abbiamo visionato 650 film. Ne abbiamo selezionati 126. È una scelta che rappresenta bene le possibilità espressive del cinema legato alla montagna oggi.

La sezione “Western di montagna” è uno dei tratti più sorprendenti di questa edizione. Il western ha sempre parlato di frontiere da conquistare, qui invece sembra volerle osservare ed attraversare. Vi troviamo in questa scelta una riflessione sul modo in cui raccontiamo i territori oggi?

Sì. Anche se i film selezionati sono tutti classici del passato, il tema della frontiera è presente. Uno dei titoli è The Far Country (Terra lontana) di Anthony Mann. Lì si parla della frontiera tra Stati Uniti e Canada. Gran parte del film è girata proprio in Canada. Abbiamo voluto esplorare un lato meno noto del western. Siamo abituati a pensarlo in paesaggi desertici e infuocati, quelli dell’Ovest americano. Ma esistono altri territori e altri climi. Il Canada, per esempio, ha ispirato storie ambientate nel grande nord e nel Québec del Settecento. Basta pensare a L’ultimo dei Mohicani.

Abbiamo selezionato sei grandi film. Tre sono legati a ricorrenze importanti. I Compari di Robert Altman, per il centenario della sua nascita. Ride the High Country (Sfida nell’Alta Sierra) di Peckinpah, sempre per il centenario. E Bite the Bullet (Stringi i denti), in omaggio a Gene Hackman, recentemente scomparso.

Ci sarà anche la versione muta del 1920 de L’ultimo dei Mohicani, accompagnata da musica dal vivo. E Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo), ambientato nello Utah. Un parco naturale straordinario, preservato anche grazie all’impegno di Robert Redford, protagonista del film.

Questo titolo è il mio omaggio personale a Sydney Pollack, regista, e a John Milius, sceneggiatore, che ammiro profondamente. E poi c’è The Far Country. Un capolavoro di Anthony Mann, forse il più sottovalutato tra i grandi maestri del cinema. Questo film è davvero magnifico.

Passiamo alla rassegna editoriale del festival “MontagnaLibri”. Da Un mondo senza api a Oltre l’immaginabile, si respira un’attenzione crescente al legame tra parola scritta ed immaginario visivo. In che modo i libri ed il cinema si stanno intrecciando per raccontare la montagna contemporanea e le sue fragilità?

Io non curo direttamente la parte editoriale, ma da quando sono al festival ho voluto creare connessioni tra libri e cinema. I due percorsi si svolgono nello stesso periodo, e ci sembrava strano che non si incontrassero mai. Così abbiamo costruito alcuni momenti comuni.

Quest’anno ci sarà un focus sul “giallo di montagna”. Ospiteremo autori che ambientano i loro romanzi in contesti alpini. Questo dialoga bene con alcuni contenuti del programma cinematografico. Avremo, per esempio, una masterclass con Avu Minguno, autore de Gli uomini pesce. È un libro ambientato durante gli anni della Resistenza, nella Valle del Po e nel Ferrarese. Parleremo con lui di cinema, memoria e territori che hanno saputo resistere.

In occasione dell’80° anniversario della Liberazione, ci sembrava giusto affrontare questi temi. Avremo anche Jacopo De Michelis, con La montagna dell’isola, ambientato sul Lago d’Iseo. Un giallo che guarda agli anni ’90, ma con radici più antiche. La rassegna letteraria è molto ricca. Tutto parte dalla montagna, ma i linguaggi si intrecciano e si contaminano in modo creativo.

Fra trekking, foraging, degustazioni, tango e molto altro ancora: il Festival vive anche oltre il buio della sala. Quanto è importante oggi costruire un’esperienza fuori dallo schermo? È una risposta al bisogno di coinvolgimento sensoriale oppure una nuova forma di racconto collettivo?

Il Trento Film Festival è anche un laboratorio di esperienze. Non abbiamo solo aggiunto eventi: li abbiamo pensati come parte integrante del racconto. Penso all’apertura dell’anno scorso con il concerto dei Modena City Ramblers. Hanno celebrato i 30 anni del loro disco Riportando tutto a casa. Un momento che ha coinvolto tutti.

Le proiezioni, le presentazioni, gli incontri. Ed i CinContri, dialoghi aperti tra pubblico e ospiti. Cerchiamo sempre di coinvolgere chi viene. Non vogliamo che resti spettatore passivo. L’obiettivo è creare una comunità. E questa comunità esiste. L’anno scorso abbiamo registrato 42.000 presenze in otto giorni. Un numero altissimo per un festival tematico, e così breve. Il cuore resta la programmazione cinematografica. Ma tutto il resto conta eccome.

Non dimentichiamo l’anima alpinistica del festival. Una parte del pubblico è fatta di persone che vivono davvero la montagna. Non si limitano a contemplarla. Vengono a confrontare la loro esperienza con quelle narrate da film, libri, esploratori, sportivi.

Quest’anno, tra l’altro, ci sono molte donne protagoniste di questi racconti. Il risultato? Una comunità viva, fatta di relazioni, scambio e partecipazione. Questo è, oggi, il vero successo del festival.