La fioca luce delle candele illuminava il suo volto pallido. Restai un momento ad osservarlo immobile e, per la prima volta, esitai. È possibile che il mostro sia davvero io? Tuttavia, questa fu soltanto un’idea fugace e ben presto abbandonò la mia mente. Riacquisita la lucidità, mi ricordai della realtà dei fatti: dopo tutta la fatica che avevo fatto per arrivare a questo momento, non mi sarei di certo tirata indietro.
Lasciai il suo corpo inerme steso sul pavimento e mi allontanai in fretta. Il mio progetto sarebbe potuto saltare in aria da un momento all’altro. Dovevo sbrigarmi. Mi avvicinai alla porta che conduceva al seminterrato e cercai frettolosamente la chiave che l’avrebbe sbloccata. Presi in mano il lucchetto (come lo conoscevo bene!) ed entrai a contatto con l’acciaio di cui era composto. Era gelido e mi procurò un lungo brivido che si diffuse per tutto il corpo. Il tempo a mia disposizione, però, stava scadendo e non potevo permettermi di sprecarlo soffermandomi su tali sciocchezze. In fondo, non l’avrei mai più rivisto.
Aperta la porta, scesi velocemente i gradini di legno e mi trovai circondata dall’oscurità. L’unica fonte di luce proveniva dalla lampada nel salotto di sopra, che emanava una luce fioca e calda. Ricordo bene quando la comprammo. Mio marito e io avevamo appena acquistato questa casa, una grande villa sul mare, senza vicini attorno che potessero disturbarci. Pochi giorni dopo, partimmo per Parigi – era il suo regalo per il mio compleanno –, dove soggiornammo per una settimana. L’ultimo giorno, in preda alla dolce malinconia di chi deve lasciarsi alle spalle i momenti vissuti in un mondo apparentemente surreale, decisi di cercare il perfetto souvenir da portare con me. Lo avrei messo in salotto, dove passavo la maggior parte del tempo, e mi avrebbe ricordato la bellezza di quei giorni a Parigi. Entrai, quindi, in un negozio d’arredamento, dove mi innamorai di una lampada che riusciva a ricreare l’atmosfera sospesa che avevo potuto sperimentare in quei giorni. Decisi, dunque, di acquistarla. Ed eccola lì ora, la mia fedele compagna – quanti momenti avevamo trascorso insieme! – che, attraverso il suo barlume, mi aiutava a compiere il mio piano finale.
Gli occhi ci misero un po’ ad abituarsi alla penombra, rendendomi piuttosto difficoltoso l’orientamento nel seminterrato. Mi muovevo a tentoni, un passo dopo l’altro, tastando il terreno circostante con i piedi, e infine lo trovai. Il mio tesoro era colpito da un debole fascio di luce e pareva quasi brillare in mezzo a tutto quel buio. Quasi come una premonizione, sembrava suggerirmi l’utilizzo che ne avrei fatto di lì a poco. Lo presi tra le mani – una creatura pesante, temibile, ma di cui non avevo paura – e risalii in fretta le scale. Per la prima volta nella mia vita ero padrona di me stessa.
Tornata in camera da letto, il suo corpo giaceva esattamente come lo avevo lasciato. Erano le tre del mattino e cominciavo ad avvertire le ore di sonno arretrate; l’eccitazione, però, mi procurava una strana felicità, sovrastando ogni tipo di stanchezza. Nel posare delicatamente a terra il bottino, guardai le mie braccia. Erano cosparse da chiazze violacee e verdastre. Sui polsi potevo ancora percepire la stretta delle dita o il freddo delle catene.
Sul comodino c’era il suo bicchiere: conteneva ancora un po’ del cocktail che gli avevo preparato. Il ghiaccio, invece, si era completamente sciolto. Come al solito, quella sera tornò tardi dal lavoro. Non appena mi accorsi del rumore della sua macchina, aprii il mobiletto che conteneva gli alcolici (erano l’unica cosa che amava più di sua moglie, me lo diceva sempre!), cercai gli ingredienti – cognac, bitter, assenzio – e mi dedicai alla preparazione del suo adorato Sazerac. Non dimenticai di aggiungere una zolletta di zucchero di canna, precedentemente imbevuta con quel liquido trasparente che utilizzavo ogni qualvolta facessi fatica ad addormentarmi. I cubetti di ghiaccio li avevo realizzati con la stessa sostanza.
Per questa occasione speciale volevo rivedere il mio film preferito, Pierrot le fou, che aveva costituito la principale fonte d’ispirazione per organizzare questa grand soir. Non so perché, ma comincio a sentire l’odore della morte, stava dicendo in TV Jean-Paul Belmondo ad Anna Karina, mentre scappavano a bordo di una Ford Galaxie. Poco dopo, l’avrebbero fatta affondare nel mare.
Incontrai mio marito per la prima volta proprio a una proiezione del film di Godard. Arrivò in ritardo e scelse di sedersi al mio fianco. Io ero parecchio irritata: detesto chi entra in sala quando il film è già cominciato, disturbando il pubblico circostante. Tuttavia, al mio sguardo torvo egli rispose con un sorriso. Quando si avvicinò – indossava una camicia di lino bianca e pantaloni scuri –, fui travolta dal suo fascino: sembrava un uomo d’altri tempi, raffinato, come quelli nel cinema francese degli anni Sessanta e che adoravo così tanto. Uscita dalla sala, mi accorsi che stava piovendo; decisi, quindi, di aspettare che la pioggia finisse – non avevo un ombrello con me – per poter tornare a casa. Fu allora che mi vide e venne verso di me. Parlammo del film e scoprimmo di condividere molte passioni; la profondità dei suoi discorsi e la sua dolcezza fecero subito breccia nel mio cuore. Mi sembrava di aver trovato una persona simile a me; forse non mi sarei più sentita sola e incompresa. Mi guardò con i suoi occhi grandi e scuri e mi baciò, mentre la pioggia scendeva fitta attorno a noi. Tra le sue braccia, non potevo immaginare tutto il male che mi avrebbe fatto.
La nostra convivenza iniziò di lì a poco e, come spesso accade agli amori appena sbocciati, appariva idilliaca. Ogni giorno mi svegliava con la colazione a letto e passavamo il tempo a filosofeggiare, parlando per ore del senso della vita. Adorava prendersi cura di me e mi faceva sentire la persona più speciale del mondo. Credevo di vivere in una favola, ma faceva tutto parte del suo piano: mi stava lentamente attirando nella sua tela. Tutte le adulazioni e le attenzioni che mi dedicava altro non erano che un modo per assicurarsi di avermi in trappola. Presto, infatti, sviluppai un rapporto di totale dipendenza affettiva, anche a causa di una famiglia che non mi aveva mai amata.
Dopo il matrimonio, iniziò a trascorrere più tempo fuori casa. Non di rado capitava che uscisse il mattino presto e tornasse giorni dopo, senza darmi spiegazioni. Non passò molto tempo da quando mi accorsi che frequentava altre donne. Scoppiarono liti furiose e, a causa della mia crescente gelosia ritenuta ingiustificata, mi fece credere di essere diventata pazza. Mi dipingeva come un mostro e mi accusava di avergli rovinato la vita. Dentro di me cresceva sempre di più una sofferenza che mi torturava e logorava ogni singola parte del corpo; in lui, invece, il fastidio che gli procuravo si trasformò in disprezzo e, poi, in rabbia. Cominciò a essere violento. Una sera, mentre lo supplicavo di rimanere a casa – mancava da una settimana intera e chissà dov’era stato –, prese in mano un piatto e lo scagliò verso di me. Per poco non mi prese in pieno. Fu solo l’inizio. Dopo quell’episodio, ogni volta che era in mia compagnia era sempre ubriaco e le serate sfociavano nella violenza più brutale. Alzava spesso le mani su di me, mi prendeva a botte, e la mia pelle era piena di lividi. È persino capitato di risvegliarmi – dopo essere svenuta per i troppi colpi ricevuti – incatenata al termosifone. Com’era possibile che la persona che avevo amato più della mia stessa vita potesse farmi questo? Con il tempo presi coscienza della situazione in cui mi trovavo e l’amore si trasformò progressivamente in rancore. Lo disprezzavo con tutta me stessa e desideravo soltanto fargli provare un po’ di quel dolore che mi aveva inflitto per anni.
Posai il mio sguardo sulla sua figura. La rabbia e il cinismo avevano preso il posto dei più nobili sentimenti che un tempo provavo nei suoi confronti. Lo sollevai per metterlo a sedere, ancora privo di coscienza, e lo preparai al gran finale. Era finalmente giunta l’ora di utilizzare il mio speciale ordigno: una serie di candelotti di dinamite da avvolgere attorno al suo viso. Gli avrei permesso di morire come il suo amato Ferdinand. Dopotutto, ero una brava moglie! Dalla tasca del mio vestito presi una sigaretta e la appoggiai delicatamente tra le mie labbra. Mi aiutai ad accenderla con una delle candele. Inspirai: il fumo era caldo e inebriante. Senza alcun ripensamento, diedi fuoco alla miccia e mi diressi verso la porta, ottenendo una vista migliore per godermi la scena. Diedi un’ultima occhiata al macabro spettacolo e uscii in fretta. Jamais je ne t’ai dit que je t’aimerai toujours, ô mon amour.
Mi lasciai la casa alle spalle. Camminavo verso il mare, con i piedi che affondavano nella sabbia tiepida. Una leggera brezza mi accarezzava il viso. Non ero più abituata a tanta delicatezza. Chiusi gli occhi e sorrisi.
Poi, la grande esplosione.