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Conversation

Busto Arsizio Film Festival: conversazione con Steve Della Casa

Direttore del Busto Arsizio Film Festival, Steve Della Casa ci parla di un'esperienza culturale e organizzativa vissuta sempre dalla parte dello spettatore. 

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Del cinema e dei suoi festival, ragionando sul rapporto tra cinema e pubblico. Nella sua veste di Direttore artistico del Busto Arsizio Film Festival, con Steve Della Casa abbiamo parlato del suo ultimo impegno e di un’esperienza culturale e organizzativa vissuta sempre dalla parte dello spettatore.

Steve Della Casa: non solo Busto Arsizio Film Festival

Fin dal principio il cinema per te non è stato mai un piacere fine a se stesso, ma piuttosto l’occasione di un’esperienza condivisa: il modo di vedere un film, ma anche una delle maniere possibili di stare insieme.

Sì, perché io facevo tutt’altri studi: stavo per laurearmi in lettere classiche, poi a un certo punto ho deciso di cambiare indirizzo e laurearmi in storia del cinema, influenzato com’ero dal grande piacere che mi dava la frequentazione di ben due cineforum. Da lì sono nati gli incontri con un po’ di persone, tra le quali Alberto Barbera e Roberto Turigliatto. A un certo punto nel ‘74, quando avevo appena vent’anni, ci hanno offerto di gestire una sala.

Il mitico Movie Club che in poco tempo divenne uno spazio cinematografico tra i più importanti d’Italia.

Esatto. Io e Roberto, assieme ad altra gente che poi ha deciso di fare altro, ci siamo buttati in quell’impresa. Questo per dire che il cinema è sempre stato una questione collettiva e organizzativa. Credo cioè che il mio approccio al cinema non è tanto quello di scriverne o di criticarlo o di farne una questione intellettuale. Ho sempre pensato che il compito principale sia quello di cercare il modo per far vedere i film, dando a ciascuno la possibilità di farsi la sua idea. Una volta i cineclub erano quelli che mostravano quei titoli che nessuno voleva distribuire: adesso questo lavoro un po’ lo fanno i festival, quindi mi trovo a mio agio in questa situazione.

Cosa significa popolare

Volevo ragionare con te sul concetto di popolare, oggi tornato in voga anche tra i direttori dei grandi festival che lo considerano in senso positivo mentre prima era qualcosa da cui scappavano. In realtà tu, Alberto Barbera e il resto del gruppo di Torino questa sensibilità l’avete sempre avuta, a partire dal Festival dei giovani per finire con il Torino Film Festival, e adesso con il Busto Arsizio Film Festival.

Penso sempre che il cinema sia un’industria a doppio senso, cioè che le due cose non si possono vedere separatamente, dunque per me si tratta di una scelta intrinseca. Il concetto di popolare a me è sempre appartenuto nel senso che i primi due film che abbiamo dato al Movie Club nel ‘74 erano La vita di O-Haru di Kenji Mizoguchi e Dracula il vampiro di Terence Fisher, con Christopher Lee. Questo per dire che abbiamo sempre cercato di mescolare l’alto e il basso. Oggi i festival riscoprono il popolare anche perché sono un po’ in difficoltà. È chiaro che se fai l’anteprima di Super Mario hai sicuramente un’attenzione da parte della stampa che non avresti presentando solo film d’autore. La capacità che devi mettere in campo oggi è quella di assecondare questo fatto. I festival devono comunque creare visibilità per i film e lo si può fare solo mescolando il cinema di ricerca con quello a maggior attrattiva popolare, in maniera che il pubblico che si muove per le cose un po’ più commerciali si fidi dei consigli di chi, accanto al film del momento, gli propone la pellicola di un attore sconosciuto di una cinematografia ignota.

D’altronde il marketing è l’arte più vicina alla buona direzione di un festival: devi in qualche modo vendere un tuo prodotto e secondo me quello deve essere lo spirito con cui lo dirigi. Il cinema è un’arte che è nata facendo pagare il biglietto già dalla sua prima esibizione. Di questo bisogna tenere conto: non puoi fare l’ “intellettualone” o pensare che siano stupidi quelli che non apprezzano la tua scelta estrema. Al contrario devi fare in modo che quest’ultima sia compresa, capita e amata da quelli a cui non appartiene. Questa è la sfida.

Steve Della Casa e il Torino Film Festival

Voi l’avete fatto anche in maniera politica, organizzando un festival come quello di Torino in cui a tutti è data la stessa possibilità di partecipazione, non distinguendo tra pubblico e addetti ai lavori.

Tengo molto a questo aspetto, nel senso che se fai il festival per la compagnia di giro dei cosiddetti professionisti del cinema hai perso in partenza: quelli sono schizzinosi e pieni di pregiudizi, con un sacco di paratie stagne intellettuali. È un pubblico che mi interessa abbastanza poco, quello degli addetti ai lavori, anche perché se non vedono un film da me lo recuperano da un’altra parte. A me interessa, come dico sempre, riuscire a fare in maniera che ci sia Mereghetti ma anche il signor “Pautasso”. Vorrei che l’intellettuale e il frequentatore saltuario, quello che fa tutt’altro nella vita e che va al festival con la curiosità di capire cosa succede, fossero entrambi appagati.

Il popolare per reagire a una crisi di sistema?

Come storico del cinema sai che il recupero del popolare come reazione a una crisi di sistema è stata alla base del fenomeno della cosiddetta New Hollywood. Per supplire alle difficoltà economiche degli studio il cinema americano trovò, nell’utilizzo delle forme di genere, la sua salvezza con registi come Scorsese, De Palma e Coppola che le reinterpretarono con sguardo autoriale.

Certo, è normale che sia così. Penso che anche i nostri grandi a un certo punto, quando hanno avuto meno successo e problemi di soldi, si sono messi d’accordo e hanno fatto in due mesi Il Generale Della Rovere, con l’intenzione di vincere a Venezia e sbancare al botteghino. A me piace la concezione di uno spettacolo in cui il punto di vista intellettuale ed emotivo sia funzionale alla voglia di intercettare il grande pubblico. Credo sia un dovere quasi morale per chi fa il cinema, capire che deve avere un’audience. Chi fa un festival deve analizzare a monte quale spettatore deve raggiungere e come può fare per riuscirci. Senza questi passaggi fondamentali vuol dire che ha fatto male il suo lavoro.

Anche l’ultimo cinema di Marco Bellocchio ragiona molto attorno a questi concetti.

Sì, anche cimentandosi con le fiction televisive che qualche anno fa sembravano una bestemmia, con il linguaggio televisivo percepito come una caratteristica del tutto negativa.

Festival sempre più popolari

Un dietro front che ha toccato vette inaspettate con la scorsa edizione del Festival di Cannes, pronta a rivalutare anche sotto il profilo critico un progetto come Top Gun. Un discorso che voi avete anticipato di molti anni. Penso, per esempio, al Torino Film Festival nell’edizione di Non si sevizia un Paperino, ma anche al festival di Venezia in cui Barbera inserisce in concorso La Forma dell’acqua di Guillermo Del Toro, poi vincitore del Leone d’oro.

È la capacità di cui stavo parlando, quella di formare un pubblico che vuole divertirsi, ma anche scoprire cose nuove e affascinanti. Così è successo quest’anno di fronte alla personale di Carlos Vermut, un autore sconosciuto, a cui il pubblico si è avvicinato fidandosi e riempiendo le sale. Adesso è diventato un nome, almeno tra quelli che amano il cinema fantastico. Il direttore di un festival è come un cuoco che deve cucinare: non puoi fare solo ed esclusivamente la carbonara o la nouvelle cuisine ma devi sempre inventarti qualcosa di nuovo perché il pubblico a un certo punto si stanca dei soliti piatti.

D’altronde è quello che sta succedendo adesso, e cioè che gli esercenti per fronteggiare la crisi delle sale organizzano uscite evento che ricalcano le giornate dei festival, con i film accompagnati da registi e attori pronti a parlare del film con il pubblico.

Certo, perché la proiezione oggi non è più la molla per spingerti a uscire di casa e pagare un biglietto. Per quello ci sono già le comodità offerte da Netflix e dalle altre piattaforme. Il cinema ha bisogno di un qualcosa in più per giustificare l’accesso in sala. Ce n’è bisogno durante i festival come pure nella programmazione giornaliera. Per questo penso torneranno di moda i cineforum, le presentazioni, gli incontri con gli autori. A sopravvivere saranno le sale in grado di creare questo spirito di appartenenza e di unicità. Il potenziale spettatore deve pensare che se non va quella sera al cinema si perde qualcosa. Se sai già che il film sarà tra due settimane su Netflix cos’è che ti perdi? Il fatto di poterli vedere sul grande invece che sul piccolo schermo non è abbastanza. Devi inventarti una cosa che faccia sì che uno percepisca come imperdibile il fatto di recarsi quella sera in sala, quello secondo me è fondamentale.

Il Busto Arsizio Film Festival presentato da Steve Della Casa

Per tutto quello che si è detto, se uno scorre il programma del Busto Arsizio Film festival si accorge di quanto esso ti appartenga per la messa in pratica dei concetti di cui sopra.

Sì, è un festival piccolino e senza molti soldi che ho deciso di fare per pura passione e senza guadagnarci nulla. A Busto ci sono ben quattro monosale che sopravvivono perché fanno i cineforum e in questo ho trovato lo spirito delle mie origini. L’organizzazione del festival segue questo modello: facciamo incontri, proiezioni per le scuole, e tutte quelle attività capaci di creare un’eccezionalità che poi si trasforma in una onda lunga e duratura, di quelle che spingono a tornare in quelle sale anche negli altri periodi dell’anno.

I titoli selezionati riassumono il mix di particolare e universale insito in uno spettacolo che si rifà con sguardo autoriale alla tradizione più popolare del nostro cinema. Quando vedi l’ultimo film di Piccioni non puoi fare a meno di pensare ai melodrammi di Raffaello Matarazzo.

Certo, ma infatti mettiamo insieme tanti approcci diversi comprensivi anche di un’anteprima internazionale. Quest’anno poi è venuto a trovarci Jerzy Skolimowsky, regista quasi novantenne che però quest’anno a Cannes con EO ha veramente spopolato. Da parte nostra usiamo tutti i mezzi e i contatti per far sì che il festival a Busto sia vissuto come un fatto eccezionale. Non lo faccio per i soldi o la gloria, ma perché mi piace vedere tutte le sere questi signori che durante il giorno hanno lavorato, e ancora pensionati e studenti che arrivano lì per vedere qualcosa e saperne di più. Quando escono di solito sono abbastanza contenti.

Titoli ed eventi al Festival di Steve Della Casa

Tra i presupposti del festival c’è quello di valorizzare produzioni italiane di buona qualità e tra quelle selezionate se ne trovano due, L’ombra del giorno e Brado, il cui valore è stato solo in parte riconosciuto dagli incassi.

Vale soprattutto per il film di Piccioni, uscito in tarda stagione, in un periodo in cui, causa pandemia, il pubblico evitava le sale. Il festival serve proprio a questo, ovvero a riscoprire titoli di valore.

L’evento clou del festival sono stati gli incontri dedicati ai protagonisti di Mare fuori.

Duemila ragazzi che urlavano nella stessa sala non mi capitava di vederli da quando ero giovane. Anche qui si tratta di superare le barriere, perché Mare Fuori non è un film, ma una fiction molto bella, capace di mobilitare le coscienze e far sì che duemila ragazzi escano la sera della domenica non per andare in birreria, ma per farsi le foto con i protagonisti. Penso si tratti di un divismo positivo dietro il quale c’è l’apprezzamento nei confronti di una performance tutt’altro che banale.

La potenza di Mare Fuori

La presenza di Mare fuori penso ci dica qualcosa anche in termini di rapporto tra cinema e piattaforme.

Sì, perché Mare Fuori è una fiction della RAI passata anche sulle piattaforme. È un esempio virtuoso perché dicono tutti che le fiction della RAI sono sempre ripetitive ma in questo caso sinceramente è arrivata la smentita ufficiale. Mare fuori riesce a parlare ai ragazzi, che in quest’epoca è la cosa più difficile da fare. Condividerne il linguaggio e parlare con loro è una sfida quasi impossibile per le persone che non hanno quell’età. In più la serie ci ha consegnato un gruppo di attori, tra cui Lucrezia Guidone, che ora hanno una fama che prima non avevano. Con interpretazioni forti con personaggi tutt’altro che facili sono riusciti a conquistarsi sul campo uno spazio che prima non li vedeva protagonisti.

Lucrezia Guidone l’ho intervista più volte, trovando che la sua bravura e versatilità si sarebbe prima o poi affermata. Per Francesco Di Leva, invece, la premiazione è solo la conferma di un momento davvero felice.

Francesco ha lavorato con Mario Martone e con la stessa intensità e capacità mimetica ha fatto anche il poliziotto in L’ultima notte di Amore. Lui è molto impegnato nel sociale mentre la Guidone è simpaticissima: dopo l’Accademia, ha iniziato a lavorare con Luca Ronconi e anche in questo caso il festival serve per far scoprire l’intensità delle persone che vedi ma che delle quali non sai molto di più. Entrambi gli incontri hanno dimostrato che Lucrezia e Francesco sono persone pensanti e parlanti, portatori di concetti, idee, e valori davvero notevoli.

Il cinema di Steve Della Casa

Qual è il cinema che ti piace?

Il film della mia vita è Sentieri selvaggi di John Ford e infatti quest’anno a Torino farò una personale di John Wayne perché prima di congedarmi voglio che il più grande attore del mondo venga ricordato in un festival di avanguardia. Mi piacciono poi tantissime cose: mi divertono sia gli Ercole e Maciste sia Godard nel suo periodo maoista. Attualmente credo che dopo la morte di Godard il maggior regista vivente sia Quentin Tarantino. Penso sia uno che ha inventato una nuova maniera per fare cinema e al tempo stesso ha aiutato a far riscoprire quello di una volta: due cose che di solito non si riesce a coniugare. Lui è riuscito a farlo, quindi chapeau.

Non posso non chiederti dell’esperienza di Hollywood Party, trasmissione radiofonica con cui siamo tutti un po’ cresciuti.

Hollywood party sta per compiere trent’anni: succederà il 18 aprile del 2024, epoca in cui penso di finirne la conduzione, perché poi ho raggiunto una certa età e vorrei anche non morire lavorando. Hollywood party è stata una scommessa dall’inizio perché fare una trasmissione radiofonica, – quindi senza immagini-, sull’arte più visiva del mondo non era proprio scontato che potesse riuscire. Lo abbiamo fatto lavorando su quello che ora si chiamerebbe lo storytelling. Detto questo per me il vero inventore di Hollywood party è David Grieco, il cui genio è stato quello di non fare una trasmissione di critica cinematografica: noi non diciamo questo piace o questo non piace, ma diamo il maggior numero di informazioni possibili e di riferimenti e pensieri sui lungometraggi di ieri e di oggi, sui blockbuster così come sui piccoli film indipendenti o cortometraggi e documentari. C’è un po’ tutto il cinema, proposto senza fare né le battaglie intellettuali né le operazioni a cuore aperto. Le prime le lascio ai grandi pensatori. Io non mi considero tale, ma solo uno che si è sempre divertito nella vita e vuole comunicare agli altri come ci è riuscito.

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