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‘The woman in the yard’: un crocevia tra morte e vita

Jaume Collet-Serra firma un horror psicologico cadenzato, una parabola discendente, severa e asciutta, sull’elaborazione della perdita. Una madre che si ritrova nell’abisso del lutto e dell’inadeguatezza

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«Un’esperienza horror che punta più alla mente che allo stomaco»

In un panorama saturo di fantasmi digitali e creature demoniache, The Woman in the Yard si distingue per la sua sobrietà. Qui non troviamo zombie o pagliacci assassini, ma il lento sgretolamento di una madre alle prese con il lutto. Il regista Jaume Collet‑Serra torna a cimentarsi nel genere horror con una pellicola dal ritmo controllato e dalla tensione calibrata. The Woman in the Yard è un esercizio minimale che scava nel dolore, nella colpa e nell’isolamento mentale di una madre ferita, trovando nella performance della sua protagonista, Danielle Deadwyler, la sua anima pulsante.

La trama

Ramona (Danielle Deadwyler), madre e vedova, è una donna sofferente che riesce a malapena ad alzarsi dal letto. É costretta a portare le stampelle dopo che un tragico incidente automobilistico l’ha privata del marito David (Russell Hornsby) e l’ha segnata così profondamente da guardare, più e più volte al giorno, un video di lui sul cellulare. Vive ai margini di una fattoria con i due figli, una sorta di rifugio e al contempo prigione, in un tempo che pare sospeso tra veglia e morte, in balia di una tensione che cresce quando una donna con un abito e un lungo velo neri (Okwui Okpokwasili) appare immobile nel cortile. Una figura inquieptante che la osserva, con le mani sul grembo, seduta su una sedia. Una presenza che appare sin da subito catalizzatrice di silenzi, sguardi e simbolismi, figura astratta che trasforma la casa in una vera e propria prigione emotiva. 

Il cineasta catalano, autore di La maschera di cera, Orphan and Carry-On, sceglie in questo film un linguaggio visivo essenziale fatto di primi piani, contrasti netti e luci rarefatte proprio per raccontare questa discesa negli abissi dove l’orrore arriva dalla grammatica dell’attesa, dal silenzio, dall’inquietudine che si annida nel quotidiano. La sceneggiatura è tesa, troppo frammentata. Avrebbe bisogno di un ulteriore livello di complessità, e pertanto si perde in un finale poco lineare: la protagonista abbraccia un epilogo ambiguo, fra catarsi e resa, con un colpo di scena che resta sospeso e poco chiaro.

In The woman on the yard, la fotografia gioca un ruolo chiave. Pawel Pogorzelski (Midsommar), modella l’immagine come specchio della psiche disturbata della protagonista, per cui le ombre diventano veli emotivi e gli spazi esterni amplificano l’isolamento. La natura si fa così cornice muta, indifferente, dando la sensazione costante di essere osservati.

La madre in bilico e la donna in nero

Danielle Deadwyler si conferma un’attrice magnetica: porta in scena una donna lacerata, sospesa fra lucidità e follia, mentre l’inquietante figura velata diventa estensione della sua mente tormentata. Ramona è fragile ma non debole. Le sue recriminazioni verso i figli—Taylor e Annie—derivano da una fatica opprimente e da un dovere materno che ormai la spaventa. È un’artista che ha smesso di dipingere, un’anima che lotta tra la vita e il ritiro dal mondo. I suoi occhi sono cavità colme di tristezza, riflettori del dolore che la lacera e consuma.

 La figura della donna vestita di nero (Okwui Okpokwasili), immobile nel cortile, appare fin dall’inizio come un preambolo di terrore. “Oggi è il giorno”, sussurra con voce vischiosa. Non si sa nulla di lei, chi è o da dove venga. Non è solo una presenza, ma un avvertimento inquietante: è dolore, colpa, depressione. É una lunga proiezione dell’inconscio. 

Riflessione sull’esistenza

The woman in the yard ha un incipit lento, quasi liturgico, che esplode in sequenze cariche di tensione simbolica. Si inserisce all’interno di quel cinema dell’angoscia che privilegia la parte mentale come vero campo di battaglia. Il finale del film è un congegno ammaliante e fortemente ambiguo. Sospeso tra morte e rinascita. Ramona siede nel fienile con un fucile. E mentre la scena si chiude se ne apre un’altra. Lei è viva, la casa è riparata, e c’è la sua firma al contrario sul quadro,” come se guardasse un’immagine di sé riflessa o ribaltata. Non c’è consolazione né catarsi per lei. Solo il riflesso del proprio dolore.

Che film ricorda?

Le atmosfere silenziosamente oppressive e il dolore che si materializza nel quotidiano ricordano senza dubbio The Babadook di Jennifer Kent, dove la maternità e il lutto si trasformano in una creatura incombente, impossibile da ignorare. L’ambiguità tra realtà e allucinazione ricorda le spirali visive e psichiche di Repulsion di Polanski. Ma è The Woman in Black di James Watkins il film che più risuona come eco spirituale: non solo per l’ovvio riferimento nominale, ma per la presenza di una figura femminile vestita di nero che incarna una perdita antica, un dolore rimasto sospeso nel tempo. Manifestazione di un lutto mai risolto, un segnale che il passato non può essere semplicemente sepolto perché continua a guardare, immobile, dal cortile.

«Io vengo solo se sono chiamata. Quel giorno è arrivato.»

Il trailer del film The woman in the yeard

Se questa recnsione ti è piaciuta leggi anche la recensione di The Dark NightMare

The woman in the yeard

  • Anno: 2025
  • Durata: 1h e 27m
  • Genere: horror
  • Regia: Jaume Collet-Serra