La Fondazione Ente dello spettacolo, editore tra l’altro della <<Rivista del cinematografo>>, ha promosso un convegno di studi sulla Nouvelle Vague, il movimento (l’avanguardia?) che, a partire della pagine dei <<Cahiers du cinéma>> , ha trasformato radicalmente il fare ed il pensare cinema.
Gli interventi, di cui sono stati protagonisti studiosi italiani e d’oltralpe, sono stati l’occasione per celebrare il cinquantesimo anniversario dalla proiezione de I Quattrocento colpi al Festival di Cannes 1959, e per riflettere sull’inevitabile museificazione (se va bene si potrebbe parlare di nostalgica rievocazione) cui vanno incontro anche le istanze più radicali, una volta etichettate e distanziate temporalmente dal momento in cui erano fertile pratica creativa.
Cosa resta oggi infatti del cinema di Godard, Truffaut, Rohmer, Rivette? Un metodo di ricerca che fa dell’opera nel suo farsi il punto cardine, una metafora del cinema come arte capace di afferrare il reale, una pratica politica che si oppone all’industria dello spettacolo.
Il contributo che ha offerto maggiori spunti è venuto forse da Alain Bergala (Università Parigi 3), il cui discorso sul cinema come art de la greffe, arte dell’innesto, ha colto come l’ibridazione ed il gusto della citazione non siano prerogative del cosiddetto postmoderno, ma abbiano visto piuttosto origine con i primi film dei giovani registi francesi.
L’attitudine della Nouvelle Vague stava proprio qui, nel tentare qualche cosa di non preparato, con l’umiltà di non sapere dove star andando, come un giardiniere che stia tentando un innesto inedito su una pianta selvaggia e che perciò non può conoscere il risultato. Non è proprio un andare a caso, ma è piuttosto qualcosa che si avvicina alle dinamiche del flipper ( i giovani della NV si formarono alla Cinémateque ma anche al bar), un melange tra chance, intuito e destrezza.
L’autore così non è colui che si pone come semplice realizzatore d’un progetto pre-scritto, bensì come qualcuno che opera di continuo sulla sua creatura, con inesausta propensione al “ri-tocco”, alla “ri-definizione”, al “ri-facimento”.
E se la tradizione in qualche modo si innesta sul già fatto (per inserirsi appunto nel solco della tradizione), la Nouvelle Vague, ereditando il metodo di Rossellini, si innestò in modo rivoluzionario sulla vita vera, entrando nelle case in cui vivevano gli stessi giovani cineasti francesi, tra le vere vie di Parigi, confrontandosi con il giornale del giorno stesso in cui si sarebbe girato.
Cambiò il rapporto tra attore e personaggio, prendendo da Renoir il rifiuto dell’interpretazione, della tecnica dell’attore professionista, e facendo uso di un nuovo attore (selvaggio, materiale grezzo), sul corpo del quale si dovevano porre le basi per una crescita fertile della storia. Celebri i casi di Belmondo o soprattutto di Anna Karina, tanto ben “innestati” nel cinema godardiano da risultare ormai inutilizzabili per altro genere di cinema.
Cambiò infine il rapporto tra film e spettatore, non più basato sulla rigida separazione tra opera, autore, fruitore, ma come qualcosa che nasce e si sviluppa nella coscienza interiore dello spettatore. Il film esiste solo una volta che entra in contatto con chi si pone davanti ad esso.
Salvatore Insana