Folgorante esordio di Michele Vannucci, Il più grande sogno, presentato al Festival di Venezia del 2016 nella sezione Orizzonti, e premiato con tre Future Award ai David di Donatello del 2017 (in cui Vannucci è stato anche candidato nella categoria Miglior regista esordiente), è un film necessario, laddove, infrangendo senza remore la retorica estetica del mondo contemporaneo, sempre più pervaso da un immaginario patinato che veicola una falsa rappresentazione del tessuto sociale, rievoca, mettendola in scena, ‘la periferia’, ovvero quel luogo situato ai margini, frequentato dagli esclusi, in cui il benessere non ha attecchito, neanche sotto forma di presunto ideale da rincorrere. Mirko Frezza (la sua prestazione è di quelle che non si dimenticano) interpreta se stesso, restituendo allo spettatore le difficoltà enormi che incontra chi, come lui, provenendo da un passato non emendabile fino in fondo, cerca di ritornare alla vita, provando a integrarsi in un ordine simbolico irrigidito, che non ammette gli irregolari, pervaso com’è da una logica escludente prodotta dal sempre presente (quantunque lo si ritenga debellato) perbenismo delle masse allineate (quelle che, per intendersi, continuano a farsi ‘tritare’ quotidianamente dall’informazione, finanche ostinandosi ad esercitare il diritto di voto – l’ironia c’è, ed è fortemente voluta).
Gli occhi verdi-acqua di mare di Mirko inondano lo schermo, chi guarda non può evitare di essere investito dall’autenticità di un’anima che reclama quel riscatto cui ogni essere umano avrebbe diritto. Ma la narrazione fiabesca che al cinema ha sempre trovato un forte riscontro collide drammaticamente con quel muro semiotico che il capitale ha eretto per impedire una reale deterritorializzazione di quelle linee di fughe che, se lasciate fluire, sarebbero forse in grado di tratteggiare nuovi orizzonti capaci di riformare l’asfittico ordine simbolico, in cui, per lo più, si è fatalmente catturati.
Mirko è un criminale romano che, a 39 anni, si rende conto di avere davanti a sé un “futuro da riempire”, per sé e per la sua famiglia, possibilmente in modo onesto. Improvvisamente viene eletto, a sua insaputa, presidente del comitato di quartiere. La sua vita cambia radicalmente. In modo irrazionale insegue il sogno di un’altra esistenza per sé e per la sua borgata: basta spaccio, basta violenza, basta indifferenza, ora c’è bisogno di creare una comunità unita sul principio dell’aiuto reciproco. Bisogna far funzionare la mensa per i poveri e costruire un orto dove far lavorare gli ex-detenuti come lui. Questo è il suo sogno. Un sogno però difficile da gestire. Soprattutto con un padre criminale e una famiglia difficile da riconquistare. E il passato rimane sempre lì, a incombere funestamente.
Il sogno del film di Vannucci è quello di una comunità vera, in cui la solidarietà, la collettività, il pensarsi come soggetto a partire dall’intersoggettività non siano solo slogan da sventolare per captare la benevolenza della anime belle, ma costituiscano l’occasione per mettere in pratica, realizzare, concretizzare, a partire dall’impegno personale e fidando, sulla base di una lucida valutazione (e non su qualche velleitario ideale), in un processo virtuoso, quel rovesciamento che consenta la trasformazione delle masse in moltitudini, ovvero in corpi sociali, che, sganciandosi da una politica irrimediabilmente inefficiente e al servizio del capitale, riescano, finalmente, ad autogestirsi, potendo vantare, come nella fattispecie, una conoscenza approfondita del territorio che abitano (vi rimandiamo in tal senso alla visione del bel documentario Domani di Cyril Dion e di Mélanie Laurent, in cui viene mostrato quanto certi processi siano già operativi in diverse parti del mondo).
Vannucci, che ha scritto e sceneggiato il film ispirandosi alla vita reale di Mirko, ha il merito di aver costruito una storia esemplare in cui dramma personale, denuncia sociale e riflessioni non scontate sulle contraddizioni del mondo contemporaneo (nonché l’abbozzo di suggerimenti di vie alternative realmente praticabili) si fondono in modo felice, fornendo allo spettatore l’opportunità di tornare ad interrogarsi sulla posizione che occupa all’interno delle esecrabili dinamiche in cui è stritolato (e che pensa illusoriamente di gestire). Per questo, e per gli altri motivi forniti, consigliamo caldamente la visione del film: il cinema italiano non è morto, ci sono nuovi autori che, fortunatamente, costituiscono una meravigliosa eccezione, e noi, critica, abbiamo il dovere di segnalare e valorizzare ciò che fa la differenza.
Pubblicato da Kino Produzioni e distribuito da CG Entertainment, Il più grande sogno è disponibile in dvd in formato 2.35:1 con audio DD 5.1 e sottotitoli in italiano per non udenti. Nella sezione extra: Anatomia di una scena; Scene tagliate; Trailer.
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