Sinossi: Ogni anno, Bruno, un demotivato allevatore di bestiame, partecipa al Salone dell’Agricoltura di Parigi. Quest’anno suo padre Jean lo accompagna: vuole finalmente vincere la competizione grazie al loro toro Nebuchadnezzar e convincere Bruno a prendere le redini della fattoria di famiglia.
Recensione: Dopo il ben più amaro e profondo Near Death Experience, pregevolissima e originale pellicola presentata a Venezia ne 2014, e ormai alla quinta collaborazione, Gustave De Kervene e Benoit Delepine tornano insieme a condividere la regia di Saint Amour, commedia non esaltante ma particolarmente impreziosita da un cast ottimo, nel quale spiccano l’onnipresente, ma forse anche più che in altre occasioni, in questo caso davvero bravissimo Benoit Poelvoorde, e l’ultracollaudata esperienza di Gerard Depardieu.
Mentre Near death Experience inscenava il monologo interiore di un aspirante suicida, interpretato da un gran Michel Houellebecq che ritroviamo qui in un piccolo cameo, in Saint Amour i due registi scelgono di raccontare un breve periodo di condivisione tra padre e figlio, ognuno in un determinato momento all’interno del proprio personale percorso di vita, vissuto durante un piccolo viaggio attraverso il Sud della Francia. Le due opere hanno in comune l’intento riuscito di stemperare l’intensità di vissuti e situazioni abbastanza drammatiche, avvalendosi di ironia e sarcasmo pur senza rinunciare a renderli manifesti e a rappresentarne la criticità e le conseguenze su chi li vive. La differenza è che in questo caso De Kervern e Delepine, pur effettuando la stessa operazione, scelgono un registro molto più lieve, affrontando determinati temi in modo più scanzonato e meno impegnativo, forse anche fin troppo goliardico, a rischio di esitare in diversi momenti in scene di carattere eccessivamente frivolo e proprio di commediole di ben più basso spessore. Tale aspetto, che rappresenta probabilmente l’unico difetto di un lavoro assolutamente apprezzabile ed equilibrato, è compensato dall’abilità di mettere in scena una narrazione fluida e al contempo emotivamente coinvolgente che cogliendo l’umanità dei personaggi, pur nella loro rappresentazione scherzosa, rende possibile che lo spettatore empatizzi con loro, risultando così piacevole e da seguire.
Così vediamo un dolcissimo Gerard Depardieu nelle vesti di omone burbero ancora smarrito per la perdita della moglie, che orienta tutto lo slancio vitale che gli è rimasto sul suo unico scapestratissimo figlio per il quale è costantemente in apprensione, interpretato da un Benoit Poelvoorde perfettamente in parte, che in ogni movenza, gesto ed espressione incarna in modo davvero eccellente il suo personaggio, un uomo mai cresciuto, pieno di complessi, incapace di relazionarsi con le donne, senza alcuna progettualità o prospettiva futura.
Anche i personaggi più marginali, come il tassista che li accompagna e la donna che i tre uomini incontrano nell’ultima parte del racconto, sono piuttosto credibili e contribuiscono a completare il quadro di un insieme di solitudini che si incontrano, interagiscono tra loro e trovano un equilibrio, in maniera non troppo dissimile da un altra pellicola francese che si è distinta l’anno scorso, Il condominio dei cuori infranti di Samuel Benchetrit, nella quale, sia per quanto concerne la leggerezza nella rappresentazione, sia per il fatto che la struttura che regge il racconto consta dell’interazione tra individualità sole dal cui insieme emerge un quadro abbastanza stabile e armonioso, si possono riconoscere delle analogie con Saint Amour. I due film hanno in comune anche il fatto singolare di avere entrambi nel ruolo di interprete Gustave Kervern che in questo caso svolge quindi la tripla funzione di regista, sceneggiatore e attore, anche se impersona una figura secondaria.
Come accennato in apertura, il maggior merito del film sta proprio nel riuscire a esprimere attraverso l’ironia e senza drammatizzarli, con estrema efficacia, i vissuti più intimi e sentiti dei due uomini, tutta la sofferenza relativa a quella solitudine, l’affetto infinito e assoluto di un padre per suo figlio, l’impotenza del figlio di sentirsi inferiore solo perché semplice e ignorante allevatore, la consapevolezza di ritrovarsi della fase di declino della propria vita e di aver già vissuto le cose più belle, la speranza di tollerare quel declino passando la staffetta a quello che è diventato la sua unica ragione di vita.
“Io sono qui solo per te”: è la sua ammissione finale che esplicita ciò che esprime nelle espressioni, cn le parole e in ogni azione durante tutto il film.
Un road movie spiritoso e colorato arricchito e riscaldato da tinte emotive che gli conferiscono spessore e lo rendono in definitiva una visione piuttosto gradevole.
Roberta Girau