‘Tutti giù per terra’: Marco Simon Puccioni racconta il trauma in un corto di diciannove minuti
Presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Onde Corte, il cortometraggio drammatico italiano esplora l’infanzia violata e la memoria adulta con realismo e intensità.
C’è un cinema che non cerca di intrattenere, ma di scuotere. È il caso di Tutti giù per terra, dramma psicologico italiano di Marco Simon Puccioni, presentato in anteprima il 21 ottobre 2025 alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Onde Corte di Alice nella Città.
In appena diciannove minuti, il regista – autore sensibile e già noto per pellicole di forte impegno civile come Come il vento o Il colore nascosto delle cose – concentra un intero universo emotivo: l’infanzia violata, il trauma rimosso, la solitudine adulta, la difficoltà di essere ascoltati da un sistema che troppo spesso preferisce voltarsi dall’altra parte.
Prodotto da Giampietro Preziosa per Inthelfilm, con il sostegno del Nuovo Imaie e del Ministero della Cultura, Tutti giù per terra nasce da un’idea dell’attrice Cinzia Scaglione (Il tarlo, Yuria), che interpreta la protagonista da adulta e firma la sceneggiatura insieme allo stesso Puccioni.
La storia trae ispirazione dal romanzo Stupro di Alberto Bottacchiari, ma ne distilla l’essenza più intima: quella di una voce femminile che tenta di ricomporsi dopo la violenza.
La protagonista è Viola, che vediamo in due momenti distinti della sua vita: bambina (interpretata dalla sorprendente Beatrice Stella) e donna adulta (Cinzia Scaglione). Due età, due corpi, due stagioni della stessa ferita.
Il corto si apre con la sequenza che più colpisce lo spettatore: Viola bambina, legata a un albero da una banda di coetanei che la deridono e la minacciano di bruciarla viva. È un episodio di bullismo di una crudeltà disarmante, raccontato però in modo paradossale: in una luce calda, gialla, quasi estiva. La fotografia, lungi dall’addolcire la scena, la rende ancora più disturbante. La violenza si consuma alla luce del sole, nel candore dell’infanzia che si fa incubo.
Questo ribaltamento cromatico – la crudeltà che esplode in pieno giorno – è una delle scelte più potenti di Puccioni. L’infanzia non è mostrata come un territorio innocente, ma come una giungla primordiale in cui la crudeltà si apprende presto. È una visione che si avvicina, per intensità e coraggio visivo, a certo cinema di Haneke (The Seventh Continent, Benny’s Video) o László Nemes (Orphan, Il figlio di Saul), dove la distanza tra il reale e l’orrore si assottiglia fino a svanire.
Il buio dell’età adulta
Quando Viola riappare da adulta, il registro visivo cambia radicalmente. Tutto accade di notte. La scena è dominata da luci fredde che accompagnano la tensione e il senso di isolamento della protagonista. È il tempo della violenza, ma anche quello della memoria che si apre a fatica.
Il dialogo con il poliziotto – interpretato da Tommaso Ragno (Tre piani, Nostaglia), presenza magnetica e misurata – costituisce l’asse emotivo del racconto. Viola cerca di raccontare la violenza subita, ma le parole sembrano non bastare. Il linguaggio si inceppa, il respiro si spezza. La macchina da presa di Puccioni rimane vicina al volto, quasi a voler accompagnare il dolore, non per pietà ma per rispetto.
La scena della violenza è mostrata con una crudezza diretta, quasi insostenibile. Puccioni non si nasconde dietro l’allusione: sceglie di mettere lo spettatore davanti all’atto stesso, senza tagli o ellissi, ma mantenendo sempre la dignità del corpo filmato. Non c’è compiacimento, non c’è morbosità: la macchina da presa resta ferma, testimone silenziosa, mentre la violenza si compie. È un momento di cinema estremo, dove la realtà del trauma viene restituita nella sua nuda verità, senza filtri ma anche senza spettacolarizzazione.
Realismo e incubo: l’equilibrio di Puccioni
Tutti giù per terra alterna con grande efficacia realismo e visioni oniriche. Le scene del presente si intrecciano a frammenti del passato, quasi come lampi nella mente della protagonista. Il montaggio, denso e nervoso, accompagna questa discesa a ritroso: non si tratta di un flashback tradizionale, ma di una memoria che esplode, scomposta, dolorosa.
Puccioni sceglie di non offrire conforto né catarsi. La struttura del corto conduce lo spettatore verso un epilogo che non concede scampo, dove la violenza e il silenzio trovano il loro punto estremo. Non c’è salvezza, ma una verità che esplode con forza devastante, chiudendo il cerchio del trauma. È un cinema che non offre consolazioni né messaggi rassicuranti: osserva, interroga e costringe a restare dentro il dolore, anche dopo la fine.
La fotografia gioca sul contrasto fra il giallo abbagliante dell’infanzia e il blu cupo dell’età adulta. Questi due registri cromatici diventano le due polarità del trauma: il giorno della violenza innocente, la notte della consapevolezza.
Una denuncia necessaria
Il regista ha dichiarato che l’opera nasce dal bisogno di «rompere il silenzio di un sistema che troppo spesso non ascolta, non protegge, non comprende». E in effetti Tutti giù per terra non è solo un racconto individuale, ma una denuncia contro un mondo che normalizza la violenza e tende a colpevolizzare le vittime.
Cinzia Scaglione, che ha voluto e sostenuto il progetto fin dall’inizio, parla del film come di «una missione personale», un modo per ridare voce alle donne che hanno subito abusi e che spesso non trovano spazio per raccontarsi. La sua interpretazione è intensa, asciutta, lontana da ogni retorica: un corpo che si piega ma non si spezza, una voce che tenta di ricostruire la verità nel caos della memoria.
Accolto con grande rispetto alla Festa del Cinema di Roma, il cortometraggio ha conquistato il pubblico per la sua sincerità emotiva e per la capacità di trasformare il dolore in linguaggio visivo. È uno di quei momenti in cui il cinema torna a essere rito collettivo, incontro tra chi ha qualcosa da dire e chi è disposto ad ascoltare.
Ai confini dell’horror
Pur essendo un dramma sociale, Tutti giù per terra lambisce i confini dell’horror psicologico. Le scene di bullismo infantile, la minaccia del fuoco, la violenza invisibile ma percepita, costruiscono un’atmosfera di terrore più morale che fisico. È la paura di rivivere, di ricordare, di non essere creduti.
Questo avvicinamento al linguaggio dell’horror – inteso come esplorazione dell’oscurità umana – è uno degli aspetti più originali dell’opera. Il corto non cerca di spaventare, ma di far provare allo spettatore quel senso di disorientamento che accompagna chi sopravvive a un trauma. È un’esperienza sensoriale e emotiva prima che narrativa.
Il cinema breve come forma politica
Nel panorama del cinema italiano, Tutti giù per terra segna anche una riflessione sul valore del cortometraggio. Non un esercizio di stile né un semplice trampolino di lancio, ma una forma politica capace di affrontare con urgenza temi che il lungometraggio spesso diluisce.
Puccioni concentra tutto in diciannove minuti: nessun preambolo, nessuna consolazione. Ogni scena è necessaria, ogni parola pesa. La sua è una scelta di responsabilità più che di misura: usare il formato breve per raccontare la verità senza attenuarla, per restituire al cinema la sua funzione primaria — guardare, testimoniare, interrogare.
Una ferita che resta aperta
Alla fine del corto, la vicenda di Viola si chiude in una sospensione tragica, dove la violenza non è più solo un fatto ma una condizione collettiva. Non resta redenzione, solo la traccia di un dolore che continua oltre l’immagine. Tutti giù per terra diventa così il racconto di una caduta senza ritorno, ma anche un atto di testimonianza: il tentativo di dare forma, attraverso il cinema, a ciò che spesso viene taciuto.
Il titolo, che richiama il linguaggio dell’infanzia – quello dei giochi e delle filastrocche – si rovescia in un simbolo di fine: la caduta di ogni innocenza, la resa davanti al male che appartiene a tutti. In un’epoca in cui la violenza di genere è tornata tristemente al centro dell’attenzione pubblica, il corto di Puccioni non offre soluzioni ma domande. E in questo sta la sua forza: costringe lo spettatore a confrontarsi con il proprio sguardo, con la propria soglia di empatia.
Conclusione
Tutti giù per terra è un film necessario, scomodo, imperfetto forse nella sua brevità ma lucidissimo nella sua urgenza morale. È un racconto che non consola ma risveglia, un piccolo grande esempio di come il cinema possa ancora essere strumento di verità.
Nella luce crudele del giorno e nel buio delle notti di Viola, Marco Simon Puccioni firma uno dei cortometraggi più intensi di questa edizione della Festa del Cinema di Roma. Un’opera che scava, disturba, ma lascia un segno autentico – come solo le storie che nascono dal coraggio di guardare davvero possono fare.