Dopo aver conquistato la Settimana della Critica di Cannes con il suo corto d’esordio, la regista e sceneggiatrice madrilena Lucía Aleñar Iglesias torna riproponendolo in chiave lungometraggio: Forastera. Si tratta del suo primo lungometraggio in concorso ad Alice nella città, già presentato alla sezione Discovery del Toronto International Film Festival 2025. L’opera è stata prodotta da un ensemble di realtà europee: Lastor Media, Vilaüt Films, La Perifèrica Produccions, Presenta, assieme alle coproduzioni internazionali Fox in the Snow (Svezia) e Kino Produzioni (Italia).
Girato a Mallorca, Forastera segue Cata, un’adolescente che trascorre l’estate nella casa dei nonni e si trova improvvisamente a fare i conti con la morte della nonna. Con Lucía Aleñar Iglesias abbiamo parlato del passaggio dal corto al lungo, della libertà che nasce nell’assenza, della scelta di una palette fredda in piena estate e di come anche le figurine lladró, dai toni pastello delle case dei nonni, abbiano contribuito a dare forma visiva alla memoria.
Hai già realizzato un cortometraggio prima di questo film, sempre intitolato Forastera. La cosa che mi incuriosiva è che la protagonista viene interpretata sempre dalla stessa attrice. Zoe Stein è cambiata con l’età: com’è stato adattare la sceneggiatura dal corto al lungometraggio, anche considerando la sua crescita?
Adattarlo al lungometraggio è stata una sfida sotto ogni punto di vista, perché non volevo rifare esattamente la stessa cosa. Penso che entrambi i film affondino le radici nella stessa idea, ma in questa versione volevo dare alla protagonista più forza, più autonomia nelle sue decisioni; che la sua scelta di intraprendere questo viaggio fosse davvero sua, non qualcosa di imposto.

E poi lavorare con Zoe, l’attrice, è stato un privilegio, perché avevamo già collaborato insieme: abbiamo potuto riprendere un’idea su cui avevamo iniziato a lavorare sei o sette anni fa e provare ad approfondirla in modo nuovo. C’era tra noi una lingua comune, un desiderio reciproco di continuare a collaborare, e credo che entrambe preferiamo porci domande più che trovare risposte. Ci piace stare e lavorare in quello spazio.
Quindi sì, per me il personaggio nasce dalla stessa radice, ma volevo che avesse più autonomia, più possibilità di decidere da sola che tipo di viaggio intraprendere. E inevitabilmente questo ha cambiato anche il personaggio del nonno: per me era importante che, nel lungometraggio, il nonno fosse più consapevole del gioco che sta facendo con la nipote. Nel corto c’era ambiguità su quanto fosse cosciente di ciò che stava accadendo; qui volevo che lo fosse e che partecipasse attivamente. Volevo che si lasciasse andare e si immergesse in questo mondo immaginario.
Perché hai deciso di raccontare questa storia dal punto di vista di Cata e non degli altri membri della famiglia?
Per molte ragioni. Penso che ci siano ancora molti tabù intorno alla morte e al lutto nelle generazioni più giovani. È un tema difficile, di cui in famiglia spesso non si parla. Credo che una ragazza come Cata non abbia il linguaggio o gli strumenti per affrontarlo – non che esista davvero un modo “giusto” di farlo, perché è comunque qualcosa di molto personale. Questo mi interessava.
Poi, è un’adolescente, non una bambina, e quando sei adolescente (sono sicura che puoi capirlo) cerchi continuamente riferimenti, modelli, provi diverse personalità, ti chiedi chi sei. “Questa non funziona” e allora ne provi un’altra, e inconsciamente cerchi un modello da imitare. Quindi mi è sembrato naturale che una ragazza di 17 anni fosse curiosa di entrare in quel mondo, di sentire qualcuno dirle “assomigli a lei” e di lasciarsi attirare da quella curiosità.
E poi, insieme alla sorella, ma persino meno di lei, Cata non aveva un vero rapporto con la nonna. La sorella è più presente, più partecipe, mentre Cata quasi non la considera fino a quando non muore. C’è una ricchezza in questa distanza: interpretare una persona che non conosci ti dà libertà. Per lei è un modo per giocare e, paradossalmente, per scoprire sé stessa più che per imitare qualcun altro, perché non sapeva davvero chi fosse la nonna da giovane.

Quindi pensi che, indossando i vestiti della nonna, Cata potesse in qualche modo ritrovare una connessione con lei?
Sì, credo che sia un primo modo per connettersi con la nonna, ma anche un modo per connettersi con sé stessa. Quando non hai riferimenti, hai solo pochi ricordi del tempo passato con i nonni, e da adolescente difficilmente ti interessano. È più che altro un’occasione per conoscersi, e ovviamente anche per onorare quella persona.
Perché hai scelto Mallorca come ambientazione per Forastera ?
Ho passato tutte le estati della mia infanzia a Mallorca: la famiglia di mio padre è di lì, quindi ho un legame personale con l’isola. Mi interessava ambientare una storia sul lutto in un luogo così bello e luminoso. Mi piaceva quel contrasto: l’estate, la musica pop, la felicità apparente, e allo stesso tempo attraversare qualcosa di così doloroso.
Il titolo Forastera viene proprio da lì: a Mallorca i locali lo usano per riferirsi agli spagnoli che vengono dalla penisola. Si traduce come “straniera”, ma lo usano solo per gli spagnoli, non per i turisti.
Quindi i turisti non vengono considerati tali?
Esatto. Ha un significato molto specifico. E Cata è una forastera: mi interessava mostrare non la “vera” Mallorca, ma la Mallorca vista da una forastera, da qualcuno che attraversa quel luogo ma a cui non appartiene.
Volevo creare un mondo che avesse quasi l’aspetto di una cartolina, qualcosa di volutamente artificiale: il mare sempre presente, Cata che pedala sulla spiaggia, poi va ad una festa tradizionale… Interagisce con il turismo e con la vita locale, ma sempre da un passo indietro. Non entra mai davvero nella realtà del posto.
Sì, lo si nota anche dal suo interesse amoroso, che è un turista, è lì solo per le vacanze. È interessante anche la varietà di lingue nel film.
Sì, esatto. A Mallorca si sentono tantissime lingue: oltre al mallorquí e allo spagnolo, si sentono svedese, inglese, tedesco, russo… c’è davvero un mondo intero che si mescola.

Mi ha colpito anche la scena in cui il nonno entra in mare, mentre poi viene annunciato che la nonna, a un certo punto della vita, non lo faceva più. Qual è, secondo te, la metafora dietro a questo?
Mi interessava dare a Cata – e al pubblico – piccole tracce su chi fosse la nonna, ma solo il minimo necessario perché lo spettatore potesse intuire, non perché io lo spiegassi. Così ognuno può interpretare: forse la nonna si era chiusa in sé, o era più riservata. Cosa significa? Come lo leggiamo?
Volevo collegare questo anche alla scena di Cata con il polpo. Nel film ci sono diversi momenti che considero come “glitch nella realtà”: piccoli punti in cui il mondo immaginato di Cata e la realtà iniziano a fondersi. Lo si vede con il delfino di plastica, con il polpo, con le formiche. Sono elementi che la tengono ancorata al reale, ma allo stesso tempo confondono i confini tra immaginazione e realtà.
La fotografia ha moltissime sfumature di blu. Perché hai scelto proprio questa palette?
Sì, ho lavorato molto da vicino con la direttrice della fotografia, la costumista e la scenografa per costruire una palette coerente. Siamo partiti dalle ceramiche tipiche che si trovano nelle case dei nonni, chiamate lladró, dai colori pastello. Da lì abbiamo costruito tutto il mondo visivo del film.
Anche se è ambientato d’estate, volevo che la narrazione influenzasse i colori: ciò che vivono i personaggi è difficile, a tratti oscuro, e quindi dare al film una palette più fredda mi sembrava interessante, diversa, anche un po’ straniante per la stagione. L’idea, in tutta la grammatica visiva, era proprio questa: costruire una realtà leggermente spostata, più legata al viaggio emotivo che a un realismo concreto.

Come descriveresti la tua esperienza nel girare il tuo primo lungometraggio? Cosa hai imparato?
Tantissimo. Credo che la lezione più grande sia quella della collaborazione.
Ho amato tutte le collaborazioni di questo film, e penso che si veda: ogni reparto lavora in armonia, tutto è connesso nella messa in scena. Mi sono sentita molto fortunata ad avere accanto artisti generosi.
E poi c’è anche l’aspetto mentale: quando giri il tuo primo film affronti molto la sindrome dell’impostore. È un’altalena: a volte tutto va bene, poi sembra che ci siano mille problemi. Credo che sia importante imparare a farsi da parte, a non restare intrappolati nella propria testa, nelle preoccupazioni e nei “se”. Bisogna essere nel momento presente.
Hai già altri progetti in mente dopo Forastera?
Sì, sto iniziando a lavorare a qualcosa di nuovo. È ancora in una fase molto embrionale, ma ne sono entusiasta. Ho un paio di lungometraggi che mi piacerebbe realizzare: uno ambientato nel mondo del calcio, e l’altro in qualche modo legato agli incidenti stradali. Continuano a ruotare intorno agli stessi temi – le dinamiche familiari, la politica del prendersi cura – ma in mondi completamente diversi.