Matteo Memè è un giovane regista romano, che con passione e dedizione si sta facendo strada nel mondo del cinema. Autore di due corti, Il Nido di Vespe (2019) e Un-Conscious (2020), ha incantato la sezione Onde Corte del festival Alice nella Città con Tempi Supplementari, regalando agli spettatori quindici minuti di puro incanto.
Lo spaccato di vita straordinario
Il tuo corto racconta una storia estremamente umana, ma il modo in cui l’hai riportata sullo schermo è quello che ha mostrato l’anima. Viene da un’esperienza personale?
È qualcosa di personale, perché racconta il rapporto con mio padre. Credo che, come molti maschietti della mia generazione — e probabilmente anche di quelle precedenti — esista sempre un legame particolare, non direi tossico, ma a volte complicato, con i propri genitori. Proprio per questo, quando abbiamo scoperto che papà avesse un mieloma ho pensato: “e mo’ che faccio?”
Ho avuto questo flash: ero nel parcheggio di un supermercato quando mia sorella me lo ha detto e lì ho capito che dovevo cercare di mettere in ordine le cose, smettere di avere le colpe da figlio e di rimproverare le colpe del padre, quindi “buon viso a cattivo gioco”, come si dice.
Abbiamo ricreato un rapporto, il rapporto migliore che avessimo mai avuto. Ora sta bene.
Qual è stata la scena più difficile da girare, sia a livello tecnico che motivo?
Sicuramente il momento in cui padre e figlio si confrontano, quello è il più toccante a livello emotivo. Ricordo che piangevano tutti tranne me, che ero troppo agitato per piangere.
La scena più difficile, tecnicamente parlando, invece è stata quella del camera-car iniziale che, infatti, è venuto un po’ traballante. L’abbiamo sistemato con la musica.
Dove avete girato?
Abbiamo girato a Roma, tra Don Bosco, Quadraro, Villa Gordiani e Colli Albani, perché la mia idea era di ricostruire il quartiere che mi piace che è proprio in quella zona. Alcune cose, di quelle che cercavo, non sono riuscito a trovarle però facendo gioco con i palazzi e con quel tipo di urbanistica sono riuscito a dare, credo perlomeno, una linea urbana al corto, quindi potrebbe sembrare la stessa zona.
Qual è la tua scena preferita?
È quella del motorino a precedere, in cui c’è il figlio con i pensieri in testa e il padre dietro molto stanco. È un unico take, quindi è un’inquadratura abbastanza lunga, e c’è la musica. La musica è la cosa che mi emoziona più di tutto il corto, perché l’ha composta un mio amico che si chiama Davide Infantino, che è molto bravo, ha un grande talento, e credo sia il più talentuoso, sul corto, insieme ai due attori che lo fanno di mestiere già da tanti anni. Quella musica mi emoziona veramente tanto, se la sento mi fa piangere. Per cui, sì, quella è la mia scena preferita.
A proposito degli attori protagonisti, come è stato lavorare con Filippo Timi e Federico Cesari?
È stato bello e piuttosto semplice, perché entrambi hanno sposato il progetto, nonostante fosse molto low budget. Federico addirittura non sapeva guidare il motorino, quindi abbiamo fatto delle guide sotto casa sua con un motorino rimediato da amici di amici che era tutto traballante, è stato divertente.
Filippo invece è stato incredibile, perché lo ho aiutato anche a fare memoria e a imparare le battute, quindi abbiamo fatto molte letture insieme, ed è stato bello vedere il suo processo di studio.

Filippo Timi e Federico Cesari in Tempi Supplementari
Hai un ricordo, oppure un episodio che ti piace ricordare, che ti porti da questa esperienza?
Ho un ricordo molto divertente di quando abbiamo girato in questa clinica che non è esclusivamente oncologica, però avevo bisogno che nel totem esterno ci fosse scritto a caratteri cubitali “oncologia” per far capire delle cose. Quindi, l’unico vero oggetto rifatto in scenografia era questo totem, o meglio la plastica adesiva. Succede che la scenografa lo lascia in auto, auto lasciata a caso per strada perché avevamo necessità di iniziare a girare. Quando lei è tornata per prendere il totem, tipo 20 minuti prima di girare la scena, non c’era più l’automobile. È uscito un signore da un autolavaggio e ha detto: “Cerca la smart? Qui abbiamo chiamato il comune di Roma e l’ha tolta” ma noi lì avevamo il totem! È corsa al deposito a riprendere la macchina.
Cosa ti rimane di questa esperienza?
Mi rimane la consapevolezza che ho dei grandi amici, che sono una famiglia, forse a tratti un po’ disfunzionale, però indispensabile, più di quella vera. Al corto hanno lavorato tutte le persone della mia vita, da quelle con le quali ho condiviso i primi anni di asilo fino alle persone conosciute l’altro ieri sui set professionali. Sono tutti qui oggi, tra l’altro.
È stato bello vedere una chimica, un programmatore e un astrofisico mettersi a lavorare su un corto con gente che invece fa di lavoro il fonico, il direttore della fotografia, e vederli fare per amore e affetto nei miei confronti. Questa sarà la cosa più bella, forse.
Questo comunque è il tuo terzo corto ma è il primo a essere presentato ad Alice nella Città. Come ti senti a riguardo?
È effettivamente il primo in cui avevo qualcosa di urgente da dire, però questa volta non volevo dirlo al mondo, ma a mio padre. Questo forse l’ha reso abbastanza forte da essere preso a un festival, credo. Sono contento che sia qui perché sono innamorato della mia città e Alice nella Città mi sembra la cosa più importante che si svolga a Roma di questo tipo, soprattutto per i corti. Sono contento che sia proiettato qui, dove ci sono i miei amici che possono assistere.
Hai qualcos’altro in cantiere?
Sto cercando di scrivere un lungometraggio, però è un processo diverso. Questo parla di mio nonno, quindi è sempre qualcosa di sentito e personale.
C’è qualcosa che avresti voluto sapere prima di iniziare questo percorso o un consiglio che ti saresti dato?
Un consiglio che mi sarei dato è quello che in realtà ho seguito, quindi non ho una cosa da dire al me del passato, diversa da quella che già mi sono detto. Sono contento, però, di aver avuto sempre la testa dura per fare le cose come dicevo io, con le persone che volevo io. Però non c’è una cosa particolare che direi al me del passato, se non che ce l’ho fatta a seguire quello che mi sono detto da ragazzino. Non ce l’ho fatta ad arrivare ancora al punto d’arrivo, che sarebbe chiaramente fare un lungo successivamente, però bisogna avere fiducia. Quello che senti in pancia lo devi sempre ascoltare, nonostante tutto e nonostante tutti.