Presentato ad Alice nella Città all’interno della sezione Onde Corte Academy, il primo cortometraggio di Lisaly Martinez, Eden, frutto di un lavoro condiviso ad opera degli studenti della Naba di Milano, la Nuova Accademia di Belle Arti. Scritto assieme a Loris Occhiogrosso, dello short-movie Martinez ne cura anche montaggio e produzione. Tra gli interpreti: Nofel Ajaara, Younes Ferrad, e Samy Maalouf.
Eden
Zayd (Nofel Ajaara), adolescente nordafricano adottato da una famiglia italiana, entra in contatto con coetanei delle sue stesse origini. Inizia così a cercare la propria identità e accettazione, vivendo un’amicizia sospesa tra due culture e realtà idealizzate.
 Il blocco interculturale
Il grande merito dell’opera prima di Martinez è quello di raccontare una storia spesso trascurata che ritrae la crescita degli adolescenti adottati che cercano, nell’adattarsi in un nuovo contesto geografico, di far coincidere formazione con accettazione. Eden è una storia di blocchi, come  far parte di una comunità mediante tutto quel processo di ritualizzazione proprio del ghetto amicale. Al centro abbiamo il marocchino Zayd, che la regista ci mostra, fin dalle scene iniziali, in una situazione di conflitto, accerchiato dai bulli del quartiere.

Da qui, il corto attraversa brevemente una scena  d’interno ben strutturata, che attiva in Zayd quella molla di condivisione e bisogno accettazione. In questo la regia è attenta col suo realismo a non indugiare in semplificazioni, restituendoci anche nell’estetica la pressione che vive il ragazzo nella sua realtà esterna: diviso tra ciò che è e ciò che il gruppo si aspetta che sia. Ma se da un lato Eden colpisce per il ritmo serrato e autentico, dall’altro tratta l’aspetto culturale, nel suo piano formativo, in modo superficiale e inesplorato. Questa condizione di liminalità di Zayd – lo stare in bilico tra i due mondi –  lo costringe continuamente a negoziare la propria identità tra ciò che gli è stato trasmesso dalla sua famiglia adottiva e ciò che scopre in contatto con gli altri conoscenti nordafricani.
L’identità diventa una performance 
Mentre Zayd viene incluso nell’accettazione – anche attraverso “l’esame del fuoco” alla Blocco 181  -, Martinez riesce a restituirci la multiculturalità come uno spazio di frizione, dove l’identità adolescenziale emerge attraverso resistenze, manipolazioni, rifiuti e prove. Eden, quindi, si inserisce nella lunga tradizione di un cinema interculturale contemporaneo, che non ha paura di mostrare le zone grigie della crescita, come già fatto da autori come Jonas Carpignano (A Ciambra), e soprattutto da Houda Benyamina (Divines), un probabile riferimento per la Martinez.
Indubbiamente Eden è penalizzato dalla sua durata (soli otto minuti), che ne inficiano la tenuta e l’apertura al tema di fondo. L’adesione al gruppo parte da un certo rituale “da strada”, come atti di bullismo e atteggiamenti di sfida che finiscono, però, con il collocare sul piano essenzialmente performativo la complessità del contesto culturale che il corto vorrebbe e vuole rappresentare. Più che mettere in discussione tali cliché, Eden sembra accoglierli come scorciatoie narrative che, alla fine, non solo plasmano la storia di Zayd, ma diventano parte integrante dell’identità stessa del corto.

Il gruppo come specchio deformante
Ciò porta alla rappresentazione troppo bidimensionale del mini-film; chi sono i bulli-futuri amici con cui il ragazzo entra in contatto? Da dove vengono? Per quale motivo assumono quell’atteggiamento nei confronti di Zayd? Forse per allargare la propria cerchia e introdurre un nuovo adepto al “branco”? O sono mezzi per far riflettere lo spettatore sul multiculturalismo periferico?
Il gruppo, insomma, appare non un contesto vivo ma uno specchio deformante, facendo ricadere il cortometraggio in una rappresentazione monolitica dell’identità etnica, contraddicendo, in parte, la sua ambizione critica.
Eden non offre risposte ma pone domande essenziali. Quale cultura possiamo chiamare nostra quando tutte ci sembrano imposte? E anche se il tentativo di Martinez è radicato nella non rappresentazione di una intercultura come semplice slogan, il rischio che emerge è quello di rendere Zayd prigioniero di quella stessa prospettiva culturale che smaniosamente rincorre per tutto il cortometraggio. Un’opera prima che colpisce per intensità e sensibilità, ridotta però a una performance culturale.