Il film di Gabriel Azorín Last Night I Conquered the City of Thebes in anteprima mondiale alla Giornata degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia 2025, lavora su una doppia frattura, temporale e percettiva. Le prime sequenze, girate in un paesaggio naturale e paludoso, mostrano giovani contemporanei che avanzano in gita, come se attraversassero i livelli progressivi di un videogioco. Non a caso il loro dialogo – in apparenza banale, una conversazione su una partita appena giocata – è intriso di metafore belliche: “attaccare”, “difendere”, “resistere”. La macchina da presa resta rigorosamente fissa, concentrata sull’unica vera “azione” del film.
Un videogioco nel paesaggio archeologico
Lo spettatore fatica a cogliere il senso fino a quando un’inquadratura con il drone, parallela al terreno, solleva lo sguardo rivelando i ragazzi come pedine di una scenografia digitale. L’inquadratura li trasforma in avatar dispersi su una mappa, che a poco a poco si rivela essere la topografia reale del sito archeologico che ospita le terme romane.
Il suono dei loro dialoghi si allontana progressivamente, ma è l’unico caso di sincronia audiovisiva. D’ora in avanti il film lavorerà su una frequente disgiunzione: lo spettatore non percepisce coerenza naturale tra ciò che vede e ciò che sente, e proprio per questo, l’effetto diventerà via via fortemente espressivo, soprattutto grazie al continuo, debole ma costante, fluire dell’acqua termale.
Last Night I Conquered the City of Thebes: Il titolo
Riguardo al titolo, Last Night I Conquered the City of Thebes proviamo ad abbozzare una suggestione, giacché non si parla mai esplicitamente di Tebe ma, come vedremo in seguito, la “notte” è invece l’elemento chiave per interpretare il lavoro del giovane regista spagnolo.
Il richiamo all’immaginario tragico della classicità è evidente. L’aggiunta dell’avverbio temporale “Last Night” colloca però la conquista in un tempo sospeso, a metà tra il ricordo e il sogno, come se l’assedio non fosse un fatto storico ma un incubo ricorrente di ogni generazione. Oggi più che mai, per noi, il riferimento corre verso il genocidio di Gaza. La pioggia finale, che impedisce l’assalto incendiario, diventa allora un segno naturale, un deus ex machina che interrompe la catastrofe e lascia lo spettatore sospeso.
Ogni epoca, sembra suggerire Azorín, ha la sua Tebe: un fronte fratricida, un destino collettivo che si ripete sotto forme sempre nuove.

Aurelio e Pompeo: archetipi della guerra
Nella sezione “antica” emergono due figure di militari, Aurelio e Pompeo. L’uno suggerisce la diserzione, l’altro sceglie di combattere piuttosto che cadere sotto la mano dei fratelli.
E mentre nella sezione “contemporanea” il dialogo tra i due protagonisti immersi nell’acqua è circoscritto a un’ apparente riflessione su dinamiche intime e personali, ritraendo una sensibilità maschile – come già notato da molti – ancora rara nel cinema odierno, nella sezione “antica” i due personaggi diventano archetipi. La scelta dei nomi richiama figure della romanità – Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, e Pompeo, il condottiero pragmatico – ma la scena non rinvia tanto a un episodio storico preciso quanto a una condizione eterna: la tensione tra coscienza individuale e destino collettivo.
Questa tensione trova il suo contrappunto nell’immagine più disturbante del film: un soldato amputato, sorretto dall’amico.
L’evocazione è immediata e ci porta al presente, a Gaza e a ogni guerra mediatizzata in cui i corpi lacerati dei giovani diventano immagini quotidiane. È in quel momento che la pellicola cambia di segno: da riflessione intima sull’amicizia e sul tempo diventa un film politico, capace di far irrompere la guerra come spettro universale e inevitabile. Ogni epoca, sembra suggerire Azorín, ha la sua Dacia: un fronte lontano, incomprensibile, verso cui muovere con rassegnazione o da cui tentare la fuga.
Una miscela stilistica straniante
Il lavoro sul suono, come anticipato, è forse l’elemento più radicale assieme alla fotografia: sempre collocato alla stessa distanza dallo spettatore, porta in primo piano tanto i dialoghi quanto i rumori lontani, amplificando un effetto teatrale. L’assenza quasi totale di musica concede alle pause narrative una dimensione meditativa, che trova il suo apice a metà film, quando lo spettatore è immerso per quasi due interminabili minuti in un buio pesto e silenzioso, impenetrabile sia al sensore della telecamera che all’occhio umano.
La regia lavora costantemente sullo scarto temporale: prima una torcia digitale contemporanea, riprodotta artificialmente e poggiata a filo d’acqua; poi il fuoco acceso da un soldato con una miccia tra due pietre, trasfigurato in gioco quando la fiamma viene fatta galleggiare sul pelo dell’acqua. Due gesti che rendono tangibile la continuità e insieme la distanza tra epoche diverse, tra la materia incandescente e il pixel luminoso.
Last Night I Conquered the City of Thebes. Il canto come nucleo rivelatore (e occasione mancata)
Se il film di Azorín vive di strati linguistici e temporali, la canzone interpretata da Héctor Arnau dentro le terme ne rappresenta forse il nucleo più oscuro e rivelatore. Un brano lungo, intenso, che richiama la tradizione orale e traduce in canto il dolore e la memoria collettiva della guerra.
Il fatto che nei sottotitoli ufficiali non compaia — né tradotto né trascritto — costituisce una vera e propria frattura percettiva. Non una scelta estetica, ma un peccato mortale di mediazione: gli spettatori italiani e internazionali sono stati privati di un contenuto essenziale, ridotto a puro suono, quando invece lì si annidava forse una delle chiavi drammatiche dell’opera.
La notte, protagonista assoluta
Quella che nel film sembra inizialmente un’ambientazione – la notte – si rivela ben presto la vera protagonista. Ed è grazie al lavoro del direttore della fotografia, l’italiano Giuseppe Truppi, che questa scelta prende vita.
Una notte stellata, impenetrabile e costante, attraversa lo sguardo degli antichi come dei contemporanei, divenendo luogo di ricerca, musa ispiratrice, interlocutrice muta a cui affidare sogni e speranze. La notte torna più volte sullo schermo: ripresa dall’app di un cellulare che ne rivela le costellazioni, o riflessa negli occhi increduli e acerbi dei soldati romani.
È un invito anche per noi spettatori a farci piccoli, tornare umili, recuperare quello sguardo di meraviglia che solo la bellezza del cosmo può suscitare, capace forse di farci dubitare delle nostre scelte auto-distruttive. Last Night I Conquered the City of Thebes è un film tipicamente festivaliero, destinato difficilmente alla distribuzione italiana, ma rappresenta senza dubbio una punta preziosa di novità e di sperimentalismo.
Gabriel Azorín, regista spagnolo formatosi tra Valencia, Parigi e Città del Messico, è parte fondamentale del collettivo di ricerca artistica lacasinegra, attivo nella fusione tra cinema contemporaneo e linguaggi audiovisivi (esposto in centri come IVAM e Tabakalera). Un progetto nato da una coscienza collettiva, impegnato su temi come mapping audiovisivo, remix e riflessione sul montaggio. Dopo la sua formazione in regia presso l’ECAM, Azorìn ha ottenuto riconoscimenti con cortometraggi come Los galgos e il documentario Los mutantes, alternando con successo progetti indipendenti e direzione pubblicitaria.