Straight Circle, debutto alla regia di Oscar Hudson, è una commedia con un retrogusto dolceamaro, che porta in scena la realtà della guerra, da un punto di vista privilegiato: quello di due soldati nemici. Il film è ambientato in un non luogo tanto surreale quanto inquietante, come quello di un deserto sconosciuto per la sua posizione e denominazione geografica, che i protagonisti sono chiamati a difendere dal fenomeno dell’immigrazione clandestina.
Il film è stato presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in competizione, nella sezione Settimana Internazionale della Critica.
Il concetto di confine
Elemento cardine dal punto di vista narrativo e registico di Straight Circle è sicuramente il concetto di confine. I due soldati protagonisti, Private Warne e Private Arthur, sono nemici, eppure si trovano a dover difendere lo stesso luogo. La contrapposizione è presente fin dalle prime inquadrature: lo schermo è diviso a metà da una linea, che vuole evidentemente richiamare l’idea concreta di barriera. Non solo, perché i personaggi si parlano continuamente sopra a vicenda non potendosi comprendere, come se la linea di demarcazione li separasse anche fisicamente. Il tentativo, da entrambe le parti, è quello di ottenere la supremazia sull’altro, tramite la costruzione di rapporti di potere gerarchizzati, come accade nella realtà, ben oltre le sale cinematografiche. Il microcosmo relazionale di Arthur e Warne, in questo senso, è caratterizzato dalla mancata possibilità di comunicazione e di incontro.
Che cos’è un confine? A cosa serve? Il film di Hudson gioca tutto intorno a quest’interrogativo. Il regista tenta di trovare una risposta semplicemente mostrando gli esiti tragici dell’interpretazione distorta di tale concetto. In questo senso appare particolarmente significativa la scena dell’arrivo di un pastore con le sue capre, proprio al confine sorvegliato dai due protagonisti. Qui l’uomo viene immediatamente bloccato, eppure una capra riesce a scappare, oltrepassando la linea di confine. Nell’abuso del potere che la sua posizione gli dà, Warne spara dritto verso l’animale, che muore.
L’episodio del pastore
Il pastore viene trattenuto e brevemente interrogato. È la voce di costui a esprimere il vero senso del film, ovvero l’idea alla regia:
Cosa vi ha portato qui? Chi ha disegnato questa linea che divide?
Il quesito esteso nel suo significato, perciò, è il seguente: cosa state difendendo e da chi? È l’idea della confusione che una concezione distorta del concetto di confine permette: non riuscire più a distinguere cosa sta di qua e cosa sta di là rispetto alla linea divisoria. Esiste, quindi, solo il caos, in cui ogni miccia accesa corrisponde a una possibile esplosione atroce di violenza, così difficile da arginare. Non valgono regole, poiché non si riesce più a distinguere il vero pericolo dal mero inconveniente. Tutto diventa morte agita per difendersi da un nemico fantasma, che risiede un po’ più in là rispetto alla posizione della linea di confine.
La confusione è chiaramente anche di tipo identitario. È come se il pastore con il suo quesito si rivolgesse direttamente al pubblico abbattendo la quarta parete, senza la necessità di guardare in camera, e chiedesse agli spettatori un parere a proposito di ciò che stanno vedendo. Tale forma di coinvolgimento diretto del pubblico, che Hudson mette in atto alla regia, sembra voler favorire una riflessione sul tema della guerra: pensare su quanto accade intorno a noi e vedere realtà altre per come sono è una prima forma di resistenza, mediata in questo caso dalle immagini. Un modo per restare vivi, e umani.
I due protagonisti
Private Warne
Warne, da una parte. Soldato, figlio di un soldato, è ossessionato dal suo passato, che trascina pesantemente nel presente, e che lo obbliga a indossare una divisa, di cui coglie unicamente i significati di violenza e distruzione. L’uomo ha basato tutta la sua identità sulla sua professione di soldato al servizio della patria e, per lui, il senso dell’esistenza risiede tutto qui: vivere per combattere. E onorare altresì la figura paterna, così profondamente idealizzata, da finire per scomparire nei ricordi di un passato doloroso, sfigurato com’è nella sua consistenza umana.
Per Warne essere un soldato coincide con l’utilizzo della violenza, della sopraffazione, della tortura, attraverso la predominazione sull’altro, chiunque questo sia. Warne ha smesso di vivere, è già morto all’inizio del film, e questo è evidente quando è incapace di cogliere la bellezza di un tramonto – che pure Arthur gli fa notare – , di godere della compagnia umana altra e quando, accecato dalla rabbia, uccide una capra colpevole di aver oltrepassato il confine senza permesso. Straight Circle di Hudson tocca apici di rappresentazione surreali, pur con qualche sprazzo ironico, con l’obiettivo di mostrare “l’altro lato della medaglia” del ruolo di soldato: invaso dal potere che il suo ruolo gli conferisce, Warne non è più in grado di distinguere il falso dal reale, il bene dal male e la vita dalla morte.
Private Arthur
Dall’altra parte, c’è Arthur. Anch’egli figlio di un soldato, morto però suicida. L’uomo, anche in conseguenza a questo evento traumatico, è stato in grado di riconoscere gli aspetti più brutali del mestiere di soldato, e non idealizzarlo in toto. Riveste dunque, per quanto può, il ruolo di oppositore rispetto ai pensieri e alle azioni del compagno. La differenza sostanziale tra i due risiede nei loro ideali, nelle loro credenze e nei loro desideri per il futuro. Che cosa significa, ancora, il concetto di confine? E madrepatria, lealtà? Tali interrogativi, che costellano l’intera opera di Hudson, tornano quindi con più vigore, e s’impongono allo spettatore, in tutta la loro urgenza.
Se Warne ha scelto di obbedire ciecamente ai dettami imposti in primo luogo dalla sua condizionata coscienza e, dopo, dal suo Paese, Arthur ha fatto propria l’arte di porsi delle domande. L’umanità di quest’ultimo può dunque emergere con forza, e risiede nella sua capacità di pensiero libero. Tragicamente, però, non è altro che la premessa di un incontro impossibile tra i protagonisti, e quindi della distruzione imminente di uno.
La funzione dei ricordi
Warne nei suoi movimenti e nelle sue azioni è un personaggio fortemente, e splendidamente, evocativo. Hudson, ancora una volta, sceglie di rappresentare attraverso una metafora visiva l’attaccamento intimamente ossessivo del personaggio al proprio passato, e nello specifico alla figura del padre. Come?
Mettendo, letteralmente, la testa dentro la sabbia. I movimenti di Warne in questo senso sono delle continue metafore – di vissuto, comportamento e intenzione – che la regia usa per modellare i passaggi emotivi del personaggio e conferirgli uno spessore, tutto teso alla sofferenza e al rimorso. Warne mette la testa sotto terra per ricercare le proprie radici e parlare con suo padre, dimostrandosi di fatto dipendente dal suo passato e dalla figura genitoriale, in maniera così pervasiva e passiva, da ritrovarsi in trappola. L’uomo non può muoversi, spostarsi da quel frangente temporale e non riesce ad allontanarsi da esso, preferendo una comoda illusione a un presente inevitabilmente fatto di cambiamenti, e di difficoltà da affrontare. La sua identità sembra frammentata in schegge impazzite, che non riescono a trovare la giusta direzione d’espressione, e finiscono per colpire chiunque, incluso il personaggio stesso.
Warne si rivela così spaventosamente bloccato in un passato che tenta continuamente di replicare, tramite l’aderenza a dettami di violenza e sopraffazione, che ora esercita sul compagno Arthur. Una chiara e vivida, nella sua resa estetica, rappresentazione dei rapporti di potere di cui qualunque conflitto si serve per legittimare la sua esistenza: c’è chi domina e chi soccombe.
La confusione dei ruoli e l’annientamento del “noi”
L’annientamento del “noi” a favore dell’”io”, ovvero la principale drammatica conseguenza della guerra. Ecco ciò che succede in Straight Circle di Hudson e che il regista sa mettere sapientemente in scena attraverso una surreale e insieme inquietante fusione di identità: Warne e Arthur diventano la stessa persona, e cioè Warne. A questo punto la confusione è totale, e anche la follia, oltre che la violenza, raggiunge il suo punto di culmine. Non vi è più distinzione tra le singole individualità, perché ogni limite – di identità, fisico e mentale – è stato varcato.
Ecco che in un processo graduale di presa di coscienza del reale significato del concetto di confine – tramite un lavoro alla regia che gioca sull’antitetica resa estetica e significativa delle immagini – sulla sua utilità non-violenta e sulle sue molteplici possibilità di impiego, a fine film si arriva a una conclusione. Il confine non è altro che un cerchio, come suggerisce in parte il titolo e come dice lo stesso Warne/Arthur. Non divide, non separa, non difende; invece può unire, connettere, ma solo quando abbattuto. Un cerchio che nel film di Hudson si rivela però dritto (straight), e quindi inesistente, forse perché intriso di sangue e violenza, conseguenza del fallito tentativo di comunicazione con l’altro da sé.
Tra Warne e Arthur è valsa la legge del più forte: l’annientamento dell’umanità è totale, e con essa la linea di confine si è definitivamente smaterializzata.