Esiste una categoria particolare di film in cui il cinema smette di limitarsi al racconto e diventa specchio dell’identità umana. Psycho (1960) di Alfred Hitchcock e Fight Club (1999) di David Fincher appartengono a questa famiglia di film che mettono in scena personaggi fratturati, proiezioni di sé, alter ego che emergono quando l’identità non regge più il peso delle aspettative sociali o dei traumi non elaborati. In epoche diverse, entrambi i film hanno scosso il pubblico proprio suggerendo che dentro ogni individuo abitano più voci: quella della fragilità, ma anche quella della ribellione e della possibilità di rinascita.
L’alter ego come verità interiore
Nella cultura pop contemporanea, la figura di Tyler Durden, uno dei protagonisti di Fight Club, è spesso citata come emblema dell’alter ego che nasce dal disagio esistenziale. È celebre il verso del cantautore Michele Salvemini (Caparezza) nella canzone Kevin Spacey: “In Fight Club Edward Norton ha le turbe, non esiste nessun Tyler Durden”.
Tuttavia, la dimensione dell’alter ego non va interpretata come semplice illusione. L’esistenza di Tyler è reale sul piano psicologico, anche se invisibile al mondo esterno. Come afferma il personaggio di Albus Silente nella saga di J.K. Rowling: “Certo che sta accadendo dentro la tua testa, Harry. Ma questo vorrebbe forse dire che non è vero?”
Fight Club: l’alter ego che esplode contro il conformismo
Tyler Durden, produttore di film e venditore di sapone interpretato da Brad Pitt, incarna la ribellione al conformismo e alla società del consumismo. La sua celebre invettiva – “La nostra grande guerra è quella spirituale…” – denuncia una generazione alienata, cresciuta con l’immaginario di un successo irraggiungibile e imprigionata in lavori privi di senso. Il desiderio represso del protagonista esplode in violenza, distruzione, eccessi. Fincher rappresenta questa frattura interiore attraverso una doppia identità: quella del Narratore, consulente del ramo assicurativo debole e frustrato, impersonato da Edward Norton, e quella di Tyler, audace, anarchico, anticonformista, in realtà l’alter ego del Narratore. Lo scontro finale tra i due sancisce una verità fondamentale: la crescita non consiste nell’annientare il mondo, come vorrebbe Tyler, ma nell’affrontare sé stessi. Il Narratore sceglie Marla (Helena Bonham Carter), simbolo dell’umanità imperfetta, e rinuncia al caos. Accetta il proprio vuoto, la propria ambiguità, e sceglie di essere sé stesso.
Psycho: l’alter ego che implode nel passato
Se Tyler Durden in Fight Club rappresenta l’esplosione dell’io represso, Norman Bates in Psycho incarna la sua implosione. Norman (Anthony Perkins) non riesce a separarsi dalla figura della madre, interiorizzata fino a trasformarsi in una seconda personalità dominante. La sessualità diventa il desiderio proibito che scatena la punizione: Norman desidera Marion (Janet Leigh), ma “Mother” reprime quel desiderio attraverso l’omicidio, che diventa negazione del piacere. La repressione sfocia in patologia: dissociazione, necrofilia, delirio. Hitchcock non mostra esplicitamente la violenza, ma la suggerisce con pochi, iconici elementi – un vestito, una sedia a dondolo, una parrucca – e con una regia capace di generare un’inquietudine profonda. La celebre scena della doccia, in cui il coltello non tocca mai realmente il corpo di Marion, dimostra come il cinema riesca a evocare il trauma più attraverso l’immaginazione che tramite l’immagine.

Due facce dello stesso disordine
Norman Bates e Tyler Durden possono essere letti come due facce dello stesso disordine identitario. Entrambi nascono dalla fragilità dell’io di fronte alle pressioni interne ed esterne. Tuttavia, reagiscono in modo opposto: Norman implode nel passato, rifugiandosi nel grembo materno; Tyler esplode nel futuro, sovvertendo l’ordine sociale per rifondarlo. Uno rappresenta la repressione silenziosa dell’essere, l’altro il grido di un ego liberato. In modi diversi, entrambi mettono in scena la stessa verità: a volte la mente può trasformarsi nella più impenetrabile delle carceri.
