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‘Drugstore Cowboy’: estasi e agonia

Un cult immortale che nasce alla fine degli anni '80 e pone sul grande schermo un gruppo di ragazzi alle prese con una vita fatta di fughe e droghe, di ansie e sogni infranti, e infine, la cruda bellezza di una ricerca di redenzione

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Drugstore Cowboy è un film del 1989 diretto da Gus Van Sant, tratto dall’autobiografia inedita di James Fogle. Il film è stato un successo di critica e ha consolidato il regista come una voce unica nel panorama del cinema indipendente americano.

Al momento è disponibile a noleggio o acquisto su Apple TV, Amazon Prime Video, Google Play e CHILI.

Un’esistenza rubata, una libertà tossica

Nel cuore dell’America degli anni ’70, Bob Hughes è il leader carismatico ma tormentato di un piccolo gruppo di tossicodipendenti. Con la sua compagna Dianne e due giovani complici, vive una vita fatta di furti meticolosi a farmacie e ospedali, in cerca continua di droghe. Ogni colpo è studiato come una missione, ma sotto la superficie dell’eccitazione si nasconde un profondo senso di vuoto e disperazione.

La banda si muove di città in città, evitando la legge e inseguendo l’illusione di un’euforia permanente. Ma quando una tragedia colpisce da vicino, l’equilibrio precario del gruppo si spezza. Bob si trova allora costretto a mettere in discussione tutto: la droga, l’amicizia, la fuga continua. Decide di tentare una via diversa, fatta di sobrietà e solitudine, ma scopre presto che lasciarsi alle spalle il passato è più difficile di quanto pensasse.

Drugstore Cowboy: il Cast

Matt Dillon, Kelly Lynch, James LeGros e Heather Graham in Drugstore Cowboy

Il cuore pulsante di Drugstore Cowboy è il suo cast, guidato da un sorprendente Matt Dillon nei panni di Bob Hughes. Dillon abbandona completamente i ruoli da giovane ribelle anni ’80 e si immerge in una performance matura, carismatica e tormentata, incarnando un leader fragile, consumato dall’abuso e dalla paranoia. Tuttavia, la prima scelta del regista era Tom Waits, ma i produttori volevano un attore con maggior appeal commerciale e con possibilità di successo al botteghino e alle premiazioni. Alla fine la parte andò a Matt Dillon, che si è preparato incontrando tossicodipendenti attivi e in recupero. La scelta si è poi rivelata giusta, tant’è che Gus Van Sant affermerà: “Matt Dillon ha dato al personaggio di Bob una profondità e una vulnerabilità che nessun altro avrebbe potuto portare. Era fondamentale per il film”.

Accanto a lui Kelly Lynch, nel ruolo di Dianne, la compagna dipendente e complice, donna lucida e seduttiva ma profondamente segnata dalla dipendenza. L’attrice ha dichiarato di aver vissuto un’esperienza reale di dipendenza da oppiacei in seguito ad un incidente stradale, esperienza che le ha permesso di immedesimarsi profondamente nel ruolo.

James LeGros e una giovanissima Heather Graham completano il quartetto centrale, interpretando due personaggi tanto ingenui quanto compromessi.

Ma la presenza più simbolica arriva con William S. Burroughs, icona della Beat Generation, che appare nel ruolo di Tom, un vecchio tossico che riflette con cinismo e lucidità sul senso dell’esistenza e sul fallimento delle politiche repressive sulle droghe.

Drugstore Cowboy: dal romanzo al film

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di James Fogle, ex tossicodipendente e rapinatore di farmacie. Il libro, fortemente autobiografico, racconta in prima persona l’esistenza ai margini di un gruppo di giovani eroinomani nella provincia americana degli anni ’70. Gus Van Sant, affascinato dalla crudezza e dall’ironia del racconto, ne conserva l’anima più autentica, trasportando sullo schermo non solo le vicende, ma anche il tono tragicomico e la dimensione morale ambigua della storia.

Il regista sceglie di adattare il romanzo con un approccio più fluido, aperto all’improvvisazione e alla contaminazione con la realtà vissuta. Egli stesso ha dichiarato che “Kelly Lynch e James LeGros erano in comunicazione con le persone reali del libro… e abbiamo incorporato quelle cose nel film. Mi piaceva di più. Se non hai una sceneggiatura fissa, le conversazioni diventano più naturali. Vai avanti senza una torcia in mano”. Il film riduce alcuni elementi episodici del romanzo per focalizzarsi maggiormente sulla figura di Bob Hughes, divenuto un antieroe moderno.

Drugstore Cowboy: la certezza in un’etichetta

Drugstore Cowboy

È colpa di questa vita fottuta, non sai mai cosa ti succederà dopo. Per questo che Nadine ha scelto la via più facile per uscirne, è per questo che Dianne vuole continuare. La maggior parte della gente non ha idea della sensazione che proverà tra cinque minuti. Per un tossicomane invece è diverso: lui lo sa, gli basta leggere un’etichetta.

La droga, all’apparenza emblema dell’imprevedibilità, nasconde l’estremo tentativo di dare un ordine all’angoscia dell’esistenza. Il tossico cerca nelle sostanze una riposta che sopprima l’attesa, che colmi la mancanza. Non c’è più bisogno di interrogarsi su cosa si proverà, perché l’assunzione della droga offre una certezza. È qui una forma di sapere assoluto sul godimento, un sapere senza inconscio. È un effetto regolato, quasi analitico, senza sorprese.

In questa prevedibilità si annida il disfacimento della droga, l’altra faccia della medaglia: il carattere mortifero della dipendenza. Non è altro che il sapere sempre cosa proverai significa non provare più nulla di nuovo. Porta a vivere quell’angoscia tanto agognata ad un circolo vizioso, è un godimento che si chiude su se stesso. Eppure nel protagonista vive un ulteriore certezza: esiste qualcosa che sfugge dal proprio controllo, le inevitabili “forze oscure”.

Lo sapevo nel mio cuore. Puoi contrastare il sistema, ma non puoi contrastare le forze oscure che giacciono nascoste sotto la superficie. Quelle che alcune persone chiamano superstizioni.

Queste “forze oscure” rappresentano quegli elementi invisibili che influenzano il destino umano: dalla paura al fatalismo. Sono presagi o minacce non razionalizzabili, simili a superstizioni o credenze popolari, che sono personificazione di un sentimento di impotenza di fronte al caos esistenziale. È tutto ciò che non si può controllare né spiegare. È ciò che in The Social Value of Drug Addicts viene descritto come la logica alternativa che governa il mondo dei tossicodipendenti. Luogo in cui il pensiero magico e rituale diventa una forma di controllo in un’esistenza precaria.

La casualità è intollerabile e le superstizioni diventano tentativi di rendere la sofferenza prevedibile, anche se in modo futile e illusorio.

Gli ‘utili inutili’: la droga è un fatto politico

William S. Burroughs e Matt Dillon in Drugstore Cowboy

Le droghe sono state sistematicamente demonizzate e trasformate in capri espiatori

Lo scrittore e pittore William S. Burroughs ha una presenza breve nel film, ma di grande importanza narrativa e simbolica. È un’istanza politica ben indirizzata. Il suo monologo, all’apparenza molto insolito per l’uomo che lo esplicita, un vecchio tossicodipendente, è preciso: ogni individuo deve avere il diritto di decidere cosa introdurre nel proprio corpo.

Gli studiosi Singer e Page in The Social Value of Drug Addicts mostrano come i tossicodipendenti vengano trasformati in “utili inutili”, funzionali ad un sistema di controllo legale, mediatico e carcerario. Sono degli strumenti per una narrazione sociale utile al potere, è un capro espiatorio per le colpe sociali.

Tom allora si domanda se la narrazione ufficiale sulla droga, che la dipinge solo come male assoluto sia giusta, o opportuna. Secondo questa idea, la droga diventa oggetto a sostegno del desiderio che rifiuta ogni castrazione, è una sublimazione perversa. È ciò a cui va a parare il personaggio quando denuncia l’uso repressivo della “guerra alla droga”.

Roger Ebert lo descrive “come una comparsata della Morte”, un momento chiave in cui l’iconico scrittore rappresenta il destino possibile del protagonista.

La scelta registica di Gus Van Sant di affidare questo ruolo proprio a Burroughs, icona letteraria della Beat Generation e tossicodipendente dichiarato, non fa altro che rafforzare il messaggio: la voce dell’outsider non è patologica, è politica.

I Bonnie & Clyde di fine anni ’80

Dio mio, è mio figlio tossico e ladro e sua moglie, una piccola ninfomane pazza

La banda in Drugstore Cowboy è espressione di una dimensione sociale sottoproletaria. Negli Stati Uniti si è diffusa la locuzione “white trash”, cioè quel gruppo sociale razzializzato, in cui l’essere bianco non è più elemento privilegiato, ma è associato a una condizione di ignoranza, di povertà, e in generale di problematicità del posizionamento culturale. È un film che fa riferimento ad una lunga tradizione di opere sulla cosiddetta coppia fuorilegge.

Jack Shadoia propone una serie di elementi comuni che sintetizzano i film sulla coppia fuorilegge, il primo tra questi scrive: “Un uomo, una donna, o un gruppo in opposizione alla società”, o ancora, Ian Leong, Mike Sell e Kelly Thomas rappresentano la coppia fuorilegge come “formata solitamente da due persone giovani che si innamorano, scappano via da casa su un’automobile rubata, sparano, fanno l’amore e vengono catturate”.

Si tratta di un genere nato subito dopo la Depressione nella Hollywood alla fine del classico. La grande ondata si ebbe negli anni ’40, quando si iniziò a mettere in scena una difficoltà dell’esperienza sociale dei soggetti. Si lavora di più sulle classi sociali problematiche, con una rappresentazione più sistematica e allargata. Nonostante questo genere di film abbia ricevuto diversi nomi, come couple on the run, outlaw couple, bad couple, criminal couple, non manca la definizione Bonnie-and-Clyde film.

Diane era mia moglie. L’amavo, e lei amava la droga. Così abbiamo formato una buona coppia.

Così come in Bonnie & Clyde, Bob è l’incarnazione dei desideri di Dianne, come lo è Dianne per Bob. I due formano una coppia tanto carismatica quanto autodistruttiva. Il critico Roger Ebert li definisce “la retroguardia della generazione dell’amore”. La loro complicità si costruisce sulla dipendenza condivisa e, quando essa cessa, i cardini della relazione non sembrano più così solidi.

La personificazione della colonna sonora

La colonna sonora di Drugstore Cowboy è curata dal giovane Elliot Goldenthal, qui al suo debutto al cinema. Egli utilizza una partitura sperimentale che evita l’orchestra a favore di sintetizzatori, strumenti elettronici e sonorità di world music trattate elettronicamente.

Seguendo quanto già analizzato in Music, Sound and Filmmakers: Sonic Style in Cinema, la colonna sonora in Van Sant può essere letta come espressione di sonic subjectivity. Si tratta di un uso del suono per rendere percepibili le emozioni, i conflitti e gli stati alterati della coscienza dei protagonisti.

La musica e i suoni ambientali diventano così parte integrante del racconto psichico del tossicodipendente. Contribuendo a trasmettere la ripetitività rituale della dipendenza, la sospensione dal tempo reale e la fuga dal dolore. Infatti, Goldenthal sperimenta loop di didgeridoo e timbri atonali per evocare stati alterati e rituali legati alla dipendenza, costruendo dei ritmi pulsanti.

Heather Graham in Drugstore Cowboy

Drugstore Cowboy: l’emblema del cinema indipendente americano

Il film apre la strada alla cosiddetta Death Trilogy del regista Gus Van Sant, che comprende Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005). Ispirati a storie di morte reale, dal massacro di Columbine alla fine di Kurt Cobain, queste opere sono meditazioni quasi astratte sul tempo, sulla colpa, sull’alienazione giovane e sulla disconnessione esistenziale.

Inoltre, Drugstore Cowboy viene considerato un’anticipazione ai temi che si affronteranno nel New Queer Cinema. Pur non mostrando direttamente tematiche queer, rappresenta già una sensibilità per personaggi outsider. Infatti, il movimento, che nasce nei primi anni ’90, è caratterizzato da rappresentazioni non convenzionali dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Gus Van Sant contribuirà in modo esplicito a questo filone con My Private Idaho nel 1991.

Gus Van Sant: tra Hollywood e cinema indipendente

Gus Van Sant, nato nel 1952 a Louisville, Kentucky, è una figura chiave del cinema indipendente americano. Ha esordito con opere underground come Mala Noche (1985) e si è affermato con titoli come Drugstore Cowboy (1989) e My Own Private Idaho (1991), che esplorano temi di marginalità e identità.

Negli anni ’90 ha attraversato una fase hollywoodiana, dirigendo film di grande successo e visibilità come To Die For (1995), Good Will Hunting (1997), che gli è valso riconoscimenti importanti, il remake shot-for-shot di Psycho (1998) e Finding Forrester (2000). Nonostante questi impegni, Van Sant ha mantenuto un approccio personale e spesso sperimentale.

Dopo questo periodo, è tornato a un cinema più indipendente e autoriale con la cosiddetta Death Trilogy  in cui ha approfondito tematiche esistenziali e sociali attraverso uno stile minimalista e innovativo.

Negli anni successivi ha continuato a lavorare tra cinema indipendente e produzioni di più ampio respiro con film come Paranoid Park (2007), Milk (2008), Restless (2011), Promised Land (2012) e The Sea of Trees (2015), e tanti altri, affiancando al cinema numerosi progetti teatrali e artistici.

Drugstore Cowboy

  • Anno: 1989
  • Durata: 101'
  • Distribuzione: Columbia TriStar Films Italia
  • Genere: Drammatico, Giallo
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Gus Van Sant