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Approfondimento

Il mondo di William S. Burroughs da “Queer” a Luca Guadagnino (attraverso Cronenberg)

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La letteratura e il cinema sono due linguaggi assolutamente diversi. Non a caso importanti registi come Orson Welles o John Huston, che si sono (pre)occupati spesso a trasportare sul grande schermo scrittori come Kafka e Melville, solo per citare alcuni, hanno sempre sostenuto che per trasporre un libro al cinema bisogna tradirlo. Ma quando leggi la prosa di uno come William S. Burroughs hai la sensazione che un semplice tradimento non sia abbastanza! Il primo testo che lessi di questo autore è stato Soft Machine (t.it. La macchina morbida) scritto nel 1961 ed è stato proprio quello a spingermi a cercare anche gli altri romanzi di Burroughs, visto che ho letto nell’introduzione di quella tardiva edizione che alcuni personaggi venivano da romanzi precedenti dello scrittore e altri sarebbero stati utilizzati nei libri successivi.

Il motivo? Ma perché cosi pensavo che avrei colmato quelle che mi erano sembrate all’epoca, e alla mia giovane età, delle lacune narrative. Mai c’è stata illusione maggiore. Più mi addentravo nell’universo burroughsiano con Junkie, Queer o Pasto nudo, più scoprivo che allo scrittore di Saint Louis non interessava l’idea del racconto classico, ma che utilizzava il linguaggio scritto come i registi usano il montaggio: per creare ellissi che provocano sentimenti e sensazioni allo spettatore. E Queer è l’apoteosi di questo tipo di linguaggio sincopato, che irrompe nella scrittura esattamente come l’improvvisazione irrompe in uno standard di musica jazz, spappolando il tema originale: Burroughs fa la stessa cosa con la narrazione.

Queer è stato scritto tra il il 1952 e il 1953, ma pubblicato solo all’inizio degli anni ’80 (per motivi di censura data la tematica scomoda? Forse) e ci trasporta in un luogo non luogo, diremmo oggi, noi che abbiamo conosciuto l’universo di questo autore, “la solita” interzona (il subconscio dello scrittore?) che va dalla Città del Messico, in cui i delitti sono all’ordine del giorno (infatti l’autore la descrive come se fosse uscita da un western particolarmente funereo “il cielo di quella speciale sfumatura d’azzurro che si intona tan­to bene con gli avvoltoi volteggianti”), fino a Panama.

Lì dove, William Lee, alter ego dello scrittore, tesse la sua amorosa tela intorno a Eugene Allerton, un giovane ambiguo, ma che della sessualità ha fatto il suo karma. Allerton ha un volto “perbene e infantile, che allo stesso tempo sembra truccato, delicato ed esotico, orientale … contraddistinto da una calma impersonale come quella di un animale o di un bambino”. Personaggio che ritroveremmo ne Il Pasto nudo sotto le (poco mentite) spoglie di Kikki.

Queer brulica di sensualità e l’affronta come uno strumento di ricatto. Da ambedue le parti. Il romanzo arriva subito dopo la morte della moglie Joan (probabilmente uccisa dallo stesso Burroughs involontariamente) che lo stesso autore confessa nel suo libro in un impeto di rabbia autodistruttiva: “…la morte di Joan mi ha messo in contatto con l’invasore, lo spirito del male, e mi ha trascinato in una battaglia lunga un’intera vita, in cui non ho avuto altra scelta che scrivere la mia via d’uscita.”

E autodistruzione è la parola giusta per definire la passione omosessuale al limite del grottesco, un grottesco tiranneggiante, che il protagonista del romanzo nutre nei confronti del suo oggetto di desiderio, Allerton. Ed è lo stesso spirito con cui William S. Burroughs affronterà l’uso delle droghe in Junkie.

Autodistruzione che trova momenti di tenerezza e poesia apocalittica non solo in “Queer” ma anche, e soprattutto, nel suo monumentale (e più tardo) Le città delle notti rosse.

Ho sempre pensato che i libri di questo autore siano intraducibili in immagini perché le sue parole sono già immagini formate e complete. Ma un autore come Cronenberg (tradendo amabilmente l’universo del nostro) con il suo Pasto Nudo mi ha convinto del contrario. Vogliano vedere che cosa farà Luca Guadagnino con la sua versione del Queer presentato a breve alla kermesse veneziana. Un punto sicuramente a suo favore, la scelta di Daniel Craig nella parte di William Lee. Infatti scrive Burroughs in Queer che Lee e Allerton andarono a vedere l’Orphée di Cocteau.

L’ex 007 era già stato davanti ad un quadro di Cocteau nel film Love is the devil dove interpretava l’amante maledetto del pittore Francis Bacon. Curiosità del destino!

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