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Tulipani di seta nera

‘Jawhara Insha’ Allah’: donne, cultura e tradizione. L’intervista alla regista

In occasione della presentazione di Jawhara Insha' Allah al Festival Internazionale della Cinematografia Sociale Tulipani di Seta Nera, ne abbiamo discusso con una delle due registe

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Jawhara Insha’Allah è stato presentato all’edizione appena conclusasi del Festival Internazionale della Cinematografia Sociale Tulipani di Seta Nera di Roma. Il documentario, datato 2024, ha ricevuto un’accoglienza calorosa, riscontrabile nei premi già vinti, entrambi quest’anno: il premio del pubblico a Sguardi Altrove Film Festival, e il premio miglior documentario a Spello International Short Film Festival.

Il documentario, della durata di cinquantasei minuti, presenta fin dalle prime inquadrature la sua dualità, di temi e intenti. Le due registe – Arianna Proietti Mancini e Claudia Paola Sagona – indagano cioè il tema della diversità e affinità culturale tra mondo occidentale e mondo islamico, attraverso diverse forme di rappresentazione e racconto della realtà. Da una parte, la scoperta dell’altro da sé è delineata attraverso la componente del viaggio, faticoso e gioioso al tempo stesso, prevalentemente di natura emotiva. D’altra parte lo strumento intervista che, specie nel genere documentario, rappresenta il modo più diretto alla regia di interagire con i propri attori, e sviscerare temi di varia natura. Culturale, sociale, religiosa.

Ne abbiamo parlato più approfonditamente con la regista Arianna Proietti Mancini, al margine della proiezione di Jawhara Insha’Allah.

L’intervista ad Arianna Proietti Mancini

Questo film fa uso dello strumento intervista, da parte della regia, con il fine di indagare un tema importante: quello della dualità. Tradizione da una parte, innovazione dall’altra; giusto, sbagliato, vero, falso. Un documentario, per questi motivi, sicuramente coraggioso: che cosa voleva scoprire il film attraverso il viaggio – sicuramente in gran parte emotivo – tra culture diverse, che compie?

Quello che il film voleva scoprire e dimostrare – forse in questo caso il termine scoprire è proprio quello giusto – era in qualche modo il fatto che le radici del patriarcato si possono rintracciare nella religione.

Non solo nella religione islamica, ma anche in quella cattolica, cristiana, ebraica. Insomma, la dimostrazione del fatto che la religione è stata scritta dall’uomo, non in quanto essere umano, ma uomo per il suo sesso biologico, e quindi ovviamente è stata scritta in funzione dell’uomo stesso. Quello che io ci tengo sempre a dire è che sono partita, più io che Claudia [Claudia Paola Sagona, ndr], molto agguerrita rispetto a tanti dogmi della religione, da destrutturare.

Il viaggio realizzato all’interno del documentario è un viaggio che ho compiuto anche io come persona, nel senso che poi quest’esperienza mi ha veramente cambiata. Si tratta di contatti umani, della possibilità di parlare di certi argomenti, affrontarli, anche in modo più personale: è un’esperienza molto forte e difficile, perché, veramente, si può vedere e cogliere anche il bello. C’è il brutto e il bello, il vero e il falso: c’è tutta la complessità.

Con questa ricerca, ovviamente emerge il paragone tra l’occidentalizzazione e il preservare usi e costumi della propria cultura [islamica, ndr]. In quest’ultimo caso sicuramente vi è un rallentamento dell’innovazione sociale e umana, ma permette anche ad altri valori, come il senso di comunità, di emergere. Un qualcosa che, tra l’altro, si è perso nelle grandi metropoli. Questo grande senso di grande famiglia allargata, questo esserci, questa presenza, questo amore, e quindi anche questa moralità molto presente, che però non è una morale ipocrita. È invece una moralità dettata dal cercare di essere un essere umano corretto.

Il personaggio di Loubna è sorprendente. Il film mostra una giovane donna alla scoperta di se stessa, come se fosse guidata dalla regia, che in voice over, successivamente, accompagna tali scoperte attraverso osservazioni di varia natura. Come è stato e cosa ha significato avvicinarsi a un personaggio così complesso come Loubna?

Loubna è una persona piena di contrasti: sono questi gli esseri umani che preferisco. È una cosa bellissima, ma sono persone molto difficili da destrutturare. Il lavoro che noi facciamo con l’attore sociale, nei documentari nei quali c’è una componente autobiografica (perché ci siamo anche noi dentro), attraverso il mezzo intervista, è quello di usare anche un po’ la psicologia. Con il fine di destrutturare le convinzioni del tuo attore sociale, e mandarlo un po’ in crisi, perché da questo processo può uscire qualcosa di positivo. Diverso il caso se si tratta di documentari osservazionali, perché quelli sono un’altra tipologia di documentario.

Io spero sempre che sia uno scontro positivo, dal quale possa uscire qualcosa di costruttivo. Come si può vedere nel film, Loubna spesso ha gli occhi lucidi o arriva alle lacrime, nelle riflessioni che vengono fatte. Lei ha un amore smisurato per i suoi genitori, che è bellissimo, ma qualche volta questo la fa soffrire. È come venerare, idolatrare le due figure che sono i tuoi genitori, che diventano tutto il tuo mondo e la tua felicità dipende dalla loro. Questo porta inevitabilmente a dei contrasti, perché se tu vuoi una carriera, perché ciò ti rende felice, ma poi tua madre non è felice per te, il contrasto è certo. Io ho visto tanto amore, ma anche tanto dovere, e questo fa sì che Loubna rinunci a una vita sicuramente più incentrata su se stessa.

Spero che tutte le interviste portino Loubna a rivalutare intimamente lo spessore che dà al giudizio dei genitori nei suoi confronti. Il fine è sempre quello di rileggere con amore il portato di queste figure, la loro storia, anche con le inevitabili difficoltà.

Jawhara Insha’ Allah per tutta la sua durata rimane a cavallo tra due realtà culturali, sociali e religiose molto differenti: da una parte l’Occidente e dall’altra la comunità islamica. Sembra che il film voglia rappresentare quel ponte del dialogo e della costruzione comune che ad oggi purtroppo non è ancora presente, né del tutto possibile. Come è stata letta alla regia questa assenza di comprensione e dialogo tra culture diverse riscontrabile nel presente?

Questa è una cosa che effettivamente non ho mai sentito sulla mia pelle, è una domanda a cui più loro, i protagonisti del documentario, potrebbero rispondere. Ci hanno raccontato di quanto la vita dei genitori e la loro sia cambiata a partire dall’11 settembre 2001. Di quanto per loro potesse essere complicato prendere semplicemente una metro.

Io mi ricordo che in quel momento mi sono sentita stupida, perché quelle esperienze non ero mai riuscite a vederle, e quindi non me ne ero mai preoccupata abbastanza per chi le stava vivendo.

Il documentario affronta sicuramente il tema del ruolo della donna, a mio avviso, in modo particolarmente delicato e insieme incisivo. Uno dei momenti più emotivamente intensi è stato quando un ponte del dialogo effettivamente è stato realizzato, azzerando le distanze, anche nel dolore, perché si è detto alla regia che molte volte nella periferia romana ci si sente donne invisibili, come accade a donne, coperte o ricoperte dal velo, nella comunità islamica. Che cosa ha significato per voi, toccare con mano, questa forma di vicinanza?

Io sono cresciuta nella periferia romana e l’ho sempre sentita questa cosa; non che non ci siano altri contesti, anche nella Roma bene, assolutamente. Però quando cresci in borgata è un po’ come se cresci in un piccolo paesino in cui la distinzione dei ruoli è ancora più netta e marcata. Si sente tanto questa cosa del “ci dividiamo in maschi e femmine”, tavolo degli uomini, tavolo delle donne. La questione dell’onore, per esempio, è forte. Ancora, qualcuno non ti stringe la mano perché magari saluta il tuo compagno e tu stai lì, senza sapere cosa fare. Questo l’ho vissuto sulla mia pelle, sicuramente.

Per loro è davvero diverso, e riguarda anche la scelta di indossare il velo. Che per la donna significa, dal mio punto di vista, in qualche modo, mettersi “sottotono”. Rinunciare cioè a una parte importante di se stessa. Sebbene abbia tanti significati differenti, come emerge dal documentario.