Daniele Ciprì non è solo, insieme a Franco Maresco, il geniale inventore di Cinico Tv, ma un regista che assomma a una tecnica sopraffina il gusto costante della sperimentazione artistica. Una lucidità intellettuale che ne fa una delle voci più originali del nostro cinema. Come regista ha firmato, insieme a Franco Maresco, opere che sono rimaste nell’immaginario come Lo zio di Brooklyn e, soprattutto, Totò che visse due volte, uno dei più clamorosi casi di censura della storia del cinema italiano.
Estremamente attivo come direttore della fotografia, ha collaborato con grandi maestri come Marco Bellocchio e giovani registi, anche esordienti, nel cortometraggio e nel lungometraggio. Vincitore di numerosi premi, Daniele Ciprì non perde mai il gusto della provocazione, nel suo cinema come nel discorso politico-culturale. Lo abbiamo ascoltato in questa intervista esclusiva per Taxidrivers.
Al cortometraggio ti sei sempre dedicato, dai tuoi esordi fino a oggi, sia come regista che come direttore della fotografia. Qual è, secondo te, l’essenza di questa forma narrativa?
Io nasco come regista proprio con la forma del cortometraggio. Con Franco Maresco ci piaceva fare anche il mediometraggio, giravamo dei piccoli film che duravano 30-40 minuti, lontani dalla durata sotto i 20 minuti che adesso è fiscale. Sin da allora, il cortometraggio rappresentava un modo per costruirmi un immaginario. Per questo lavoravo su quel tipo di progettualità, nella brevità, perché costa meno, ti puoi concentrare su drammaturgie innovative. È un esperimento che fai e rifai. Noi avevamo un continuo rapporto con il cortometraggio e il mediometraggio. Tanto che mi piacerebbe riportare in auge quest’ultimo, solo che in Italia non è più concepito. È un formato totalmente fuori moda.

Daniele Ciprì e Franco Maresco
Più che fuori moda ormai è utilizzato per fare le serie a episodi.
È un’idea, potrebbe diventare una serie, ma non deve avere il format televisivo. Perché io do una grande importanza al cinema breve, in quanto lì c’è la tua indipendenza, un modo di costruire un lavoro senza avere vincoli o persone che fanno di te uno strumento, con istituzioni che, magari, ti danno dei soldi, ma poi ti costringono a fare quello che vogliono loro. Quindi io sono convinto che non solo il cortometraggio è importante, ma è l’unico cinema indipendente, perché oggi il resto del cinema è totalmente controllato. Il cortometraggio mi sembra l’unica l’unica formula gestita completamente dall’autore. Io ho grande nostalgia di quel periodo giovanile con Franco Maresco, infatti faccio queste cose con le scuole, con cui realizzo i corti che immagino e li condivido con i ragazzi.
Questa cosa è talmente vera che nei Festival vediamo cortometraggi bellissimi, di autori che, però, quando fanno il salto nel lungometraggio, probabilmente scendono a troppi compromessi.
Infatti succede proprio questo, il problema sono i produttori, che riescono a trovare la formula per gestirti e questi esordienti, quando fanno la loro opera prima, non sono più liberi come nel cortometraggio. Detto questo, la mia delusione nei confronti del cinema italiano spesso parte già dal cortometraggio: una cosa che io vedo e segnalo sempre è il fatto che molti giovani registi fanno dei corti in cui semplicemente raccontano delle storie. Secondo me, invece, questa forma non ti deve bloccare nel fare solo un film breve, ma portarti a sperimentare un immaginario, crearlo, farti conoscere per quello. Facciamo un esempio, parliamo di un regista che, qualsiasi film diriga, è una bomba: Yorgos Lanthimos. Lui ricrea sempre un suo mondo, un suo modo di raccontare, in tutti i film, come faceva Stanley Kubrick o altri registi che sono nel nostro immaginario. Lo stile di un grande autore si vede già nei primi lavori, nel cortometraggio, vedi Roman Polanski o Martin Scorsese o David Lynch, geni del contemporaneo. Io ho quei riferimenti lì.
Che ricordi hai del tuo esordio nel cortometraggio?
Io e Franco Maresco avevamo fatto un cortometraggio che si chiamava Pasta e patate e da lì nasce tutto Cinico Tv. Andò in concorso al Festival di Bellaria, c’erano Enrico Ghezzi e Morando Morandini in giuria, ci premiarono pure. Era il 1989. Pensa che poi ho saputo che, quell’anno in cui vincemmo, era in competizione anche un giovanissimo Paolo Sorrentino. La formula del cortometraggio mi ha sempre dato la possibilità di sperimentare, anche lavorando con materiali già fatti. In Omaggio a Enrico Ghezzi, avevo trovato una pellicola in 8 mm di 15 metri, uno spogliarello in bianco e nero di una signora che fumava una sigaretta. Erano quei filmini che tempo fa si vendevano sotto banco. Un amatore mi mostra questo spogliarello e io lo riprendo fino a quando vedo la grana della pellicola, avvicinandomi sempre di più.

Daniele Ciprì e Franco Maresco sul set di Cinico Tv
Quello che ti contraddistingue è che hai sempre sperimentato, non ti sei fermato mai. Un artista prestato al mondo del cinema.
Io ho la formula della follia, è quella che mi distingue, non mi prendo sul serio. Anche i film più stupidi, quelli d’avventura, perché una volta erano più belli? Perché non si prendevano sul serio. La mettevano sul grottesco, inserivano pure il comico. Guarda il Frankenstein di Benicio del Toro. Il suo mostro parla troppo, perché è Netflix, deve spiegare tutto. Quello che contesto alle piattaforme è l’appiattimento dell’immaginario. Il loro è stupido, perché dettato da un calcolo. Le serie sono tutto un calcolo. Devi mettere l’omosessuale, la persona di colore ecc… Ogni cosa è parametrata e da lì ti portano a raccontare una storia.
Dal 2014 dirigi, insieme a Luca Caprara, il Dorico International Film festival (ex Corto Dorico). Che tipo di esperienza è, come completa quella di chi il cinema lo fa nella pratica?
Mi aiuta nella mia evoluzione di regista, mi completa perché osservo, guardo, per me è sempre una crescita. Mi piace dedicarmi a questo Festival perché è qualcosa che già facevo tanti anni fa a Palermo con Franco Maresco. Gestivamo un cinema, il Lubitsch e facevamo tante rassegne, invitavamo giovani registi. Quando Roberto Nisi, ex direttore artistico di Corto Dorico mi coinvolse, pensai di accettare, anche perché io allora abitavo a Siracusa e Ancona fu fondata, come colonia greca, proprio dai siracusani, quindi mi sembrò un segno. Quando Roberto Nisi ha lasciato, è nato questo sodalizio con Luca Caprara, un rapporto meraviglioso, perché lui mi aiuta tantissimo. Mentre io sono sui set, magari mi capita di avere un’idea e non vedo l’ora di confrontarmi con lui. Serve sempre un doppio. Lui è il versante pratico che a me, a volte, manca. È una cosa bellissima costruire un Festival, ti dà la possibilità di osservare una nuova generazione, di vedere dove sono i confini, perché uno non finisce mai di imparare. E non lo fai solo con le grandi opere, ma anche con le cose più piccole. Oggi, per esempio, sono stato davvero incuriosito dalla sezione di Cinema per le scuole, con studenti, dalla primaria fino alle superiori, che hanno fatto un’esperienza diretta nel cortometraggio.

Luca Caprara
Anche dalla prospettiva dell’esperienza di questa edizione del Dorico International Film Festival, qual è lo stato dell’arte del cinema italiano, nel cortometraggio e nel lungometraggio?
Io sono molto arrabbiato per quello che sta succedendo, lo vivo sulla mia pelle. Il cinema italiano mi sembra in grande sofferenza. Siamo arrivati a un punto tale che mi chiedo: ma tra chi ci governa c’è gente che è frustrata? Che non è riuscita a fare l’artista e vuole mettere il bastone fra le ruote a chi lo è? Questa situazione sta creando danni enormi. A me sembra assurdo che la politica, le Istituzioni italiane, non incoraggino la formazione e la possibilità di fare film, anche opere prime, anche film a basso costo, mediometraggi, cortometraggi. Perché i finanziamenti e le possibilità diminuiscono sempre di più? Perché ci siamo comportati male? Ora, sicuramente qualcuno ha combinato dei danni, agendo come non si doveva fare. E io lo gridavo da tempo: ma questo chi è? Ma questo che fa? Cinque film, sette film, otto film. Era tutto molto strano. Infatti dicevo alla mia troupe: ragazzi, prima o poi qua crolla tutto ed è crollato tutto. Questa cosa mi dispiace moltissimo, perché poi alla fine la pago pure io. Sto preparando un film, ma non mi parte proprio per l’impossibilità di avere un budget dignitoso, non dico alto, almeno medio. Ora un film non lo puoi fare se non hai tre, quattro produttori. Quello sgravio fiscale che avevamo è fondamentale per uno che produce. E te lo dice uno che ha fatto anche il produttore, di tutti i film diretti con Franco Maresco. Quindi io spero che loro finiscano il prima possibile. Io dico loro, come nei miei cortometraggi di Cinico Tv. Loro, ma loro chi? Loro, lo sappiamo chi sono. Essere produttori di noi stessi è impossibile per fare un lungometraggio. Con quali soldi? Perché il cinema è una macchina che costa tanto. Il teatro lo puoi fare con poco, ma il cinema no. Già un Festival costa tanto. Noi facciamo miracoli, guarda, miracoli, ogni anno è una lotta.
Come direttore della fotografia alterni opere di grandi maestri, come Marco Bellocchio, ad autentici esordienti. Come scegli a chi prestare il tuo occhio, la tua straordinaria esperienza?
Prestare il mio occhio mi piace, è una frase artistica, una cosa alla Luis Buñuel. Io faccio film con le persone. Gli autori prima li conosco, per come sentono quello che vogliono raccontare, dopodiché, il regista può essere famoso o no, voler girare un lungometraggio o un cortometraggio, per me è sempre un film. Lo faccio anche con i documentari. Non ho il problema dello stile. Mi cimento in ogni tipo di genere. Se mi piace l’idea, la faccio. Tutti i film che giro come direttore della fotografia hanno una preparazione con l’autore: è lui che mi stimola ad avere un immaginario, a materializzare quello che lui ha. Io non mi permetto mai di entrare come regista, non prevarico mai con le cose che vorrei vedere io. Lascio al regista il film che vuole fare, lo faccio pure sbagliare, alcune volte, specialmente con le opere prime: dico devi sbagliare, perché devi imparare, se te lo dico io mi cacci o mi odi, invece deve rendersi conto. Io il film lo vivo come la vita. Marco Bellocchio lo ha detto proprio quando è stato ospite di questo Festival: Daniele Ciprì si è licenziato lui. Marco Bellocchio è un maestro per me, però io, quando lui mi ha richiamato per un film, mi ero già impegnato con Claudio Giovannesi per La paranza dei bambini. Lui stesso mi ha detto che facevo bene a cambiare, a lavorare con registi giovani. A breve tornerò a collaborare con Roberta Torre, forse anche con Renato De Maria. Sono tutte persone che scelgo. Ricordo pure un lavoro folle con Sabina Guzzanti per La trattativa: abbiamo ricostruito in modellino, con uno scenografo di Palermo che le ho procurato, il tribunale, le case, il carcere.

La paranza dei bambini
Da un punto di vista tecnico della fotografia, ci sono certe lenti o macchine con cui ti piace di più lavorare?
Io non faccio mai scelte a priori quando lavoro a un film. Artisticamente mi pongo sempre come un musicista jazz. Nel senso che, è vero, scrivi la sceneggiatura, ti fai una base d’immaginario, ma è come quando fai un quadro: tracci dei punti, poi cominci a disegnare, metti i colori e così nasce l’opera d’arte. Per me il cinema è questo. Progettando un film puoi fare qualsiasi riunione, ma il cinema è sul set e lì sei letteralmente come in guerra, ti devi continuamente inventare cose, risolvere problemi che, nella teoria, non avevi minimamente previsto. Mi ricordo che una volta, insieme a Franco Maresco, intervistammo Antonio Margheriti (Anthony Dawson). Lui mi disse che aveva smesso di fare cinema quando i produttori cominciarono a imporgli una riunione dietro l’altra. Oggi, poi, sia la Rai che Netflix, entrambe esperienze che ho fatto, ti spremono, ti danno 8 settimane per fare 45 location: ma come si fa a mantenere alto il livello?
Da dove prendi ispirazione per il tuo lavoro?
Io, anche se faccio un film di fantascienza, devo stare in strada. Non posso scrivere o pensare la luce di una storia se non vivo le persone, se non sento dentro di me le prime immagini che sono i personaggi. Sono questi, le figure di cui parlava Jean-Luc Godard, che ti danno gli input per raccontare storie. Perché tu puoi anche incrociare un barbone per strada e portarlo in un film di fantascienza. Io lavoro in questo modo, però poi mi affianco a sceneggiatori di professione che mettono tutto questo immaginario in una forma, perché tendo anche a perdermi in tutto questo. Massimo Gaudioso, per esempio, mi dice sempre: va bene, ma adesso scendiamo sulla terra. L’ultimo cortometraggio che ho girato, con gli studenti della scuola Piano Focale, ha per protagonista una donna del paese di mia madre, Bisacquino, di cui mi raccontava: Michirina Ababba, Michela la scema. Era una vecchietta, pazza, che rubava i fiori alle tombe del cimitero e li portava su altre tombe, perché era convinta che fossero del suo amante. Un’altra cosa che cercava di fare era suonare le campane della chiesa. Ho raccontato questa storia di paese nella forma dell’espressionismo tedesco. Lei l’ho conosciuta quand’ero bambino, ricordo che aveva dei baffi enormi.

Il regista di matrimoni
Da dove proveniamo influisce sempre su quello che diventiamo?
Certo! Mio padre riparava macchine fotografiche e mia madre stava alla cassa. Io e mio fratello, insieme a lui, andavamo a fare i fotografi di matrimoni. La storia del film di Marco Bellocchio, Il regista di matrimoni, la conoscevo meglio di lui, perché avevo realmente incontrato il personaggio a cui è ispirato.
Si dice che tu abbia un rapporto controverso con Pier Paolo Pasolini.
Pier Paolo Pasolini è stato un unicum. Quello che io contesto è che se faccio un bianco e nero nelle periferie non sto rifacendo Pasolini. Se metto una musica di Johann S. Bach non lo sto citando. Tanti registi lo hanno utilizzato nei loro film. Nei nostri lavori evochiamo sempre il cinema che abbiamo amato, è inevitabile riflettere quell’immaginario. Io penso molto a Caravaggio come direttore della fotografia, ma si diventa artisti se si ha la capacità o l’amore per l’estensione della tradizione artistica. Quando parlo dell’intelligenza artificiale mi viene da ridere: è uno strumento meraviglioso per il progresso delle scienze, forse, o per svolgere compiti pratici, ma non la puoi utilizzare per fare arte, perché quella siamo noi, è qualcosa di profondamente umano. Del resto, se tutti saremo in grado, con l’intelligenza artificiale, di fare esattamente le stesse cose, dov’è lo scarto dell’arte? Mi sembra un mezzo sopravvalutato, che farà solo rincoglionire i giovani.

Totò che visse due volte
Che bilancio puoi fare di questa 22a edizione di Dorico International Film Festival e che prospettive vedi per il suo futuro?
Sono molto contento di questa edizione. Ogni anno vedo la sala piena. Quindi è un Festival che funziona. Io, però, vorrei farlo crescere ancora di più. Le idee non mi mancano: fare una radio del Festival o anche concerti o iniziare il Festival col cunto, col cuntare tutti i corti che sono in concorso, raccontandoli alla maniera dei pupari siciliani. Contaminare, sperimentare. Il problema, però, è sempre economico, quindi, vorremmo avere più certezze, una crescita dei finanziamenti, anche perché nel Festival c’è tanta gente che lavora.
So che da anni stai preparando un nuovo film di fiction come regista. A che punto è il progetto? Ci puoi anticipare qualcosa?
Il film ce l’ho pronto, sceneggiato, ma non girato. Ce l’ha Groenlandia in produzione, già da tempo. Si intitolerà Infinito padre. Al momento, però, non ci sono i mezzi economici per farlo, per la crisi del settore di cui si parlava. Nel frattempo, sto scrivendo altre cose. Falsi documentari, per esempio, un’idea che mi piace. Infinito padre è un progetto che mi sta tantissimo a cuore. È una riflessione autobiografica, a partire dalla storia di mio figlio, un ragazzo appena diplomato in pianoforte. Voglio raccontare un rapporto padre/figlio in un luogo non dichiarato, un mondo che non esiste, ma che, di fatto, è la mia Sicilia. Ci saranno i miei tipici personaggi grotteschi, uno che lavora in una televisione privata e uno che monta antenne. Ma è, in sostanza, la storia di un padre e di un figlio. Una riflessione su un rapporto quasi di prigionia, con la condanna di una madre assente. Lo girerò in Sicilia, in un piccolo paesino che non ho ancora trovato.

Daniele Ciprì