Un imperdibile piccolo film, il racconto di un’epica familiare, arguta e nostalgica, che tocca tutti i registri delle emozioni, spaziando dall’ironia, al dramma, alla commedia: così Ma Mère, Dieu et Sylvie Vartan, presentato a Rendez-Vous 2025 Festival del Nuovo Cinema Francese – che quest’anno ha offerto al pubblico italiano una rosa di film francesi di altissima qualità – ha incantato la platea gremita del Nuovo Sacher, per la storia originale e commovente, per la bravura della protagonista, Leïla Bekhti, nel ruolo di una madre ebrea sefardita, Esther, con una grande famiglia, determinata a non arrendersi mai, soprattutto per il bene di Roland, il suo sesto figlio, nato con una malformazione al piede.
In Italia il film, che uscirà il 22 maggio con la BiM Distribuzione, sarà intitolato C’era una volta mia madre, come il romanzo autobiografico da cui è tratto, firmato da Roland Perez, che racconta la sua incredibile storia vera: quella di un bambino nato con un piede deforme e quella dell’incrollabile determinazione di una madre nel voler dare al figlio una vita non solo normale, ma addirittura eccezionale, nonostante l’handicap che gli impedisce di camminare e la diagnosi pessimista dei medici secondo i quali Roland non camminerà mai come gli altri. Nella sua lotta ingenua e picaresca, Esther diventa quindi una figura quasi ‘eroica’ di madre, tra il serio e il faceto.
Il regista canadese Ken Scott – anche sceneggiatore e attore comico – autore di commedie esilaranti come Starbuck, torna con Ma Mère, Dieu et Sylvie Vartan, ad esplorare il pianeta ‘famiglia’ nelle sue polivalenti e spiazzanti sfaccettature, costruendo una commedia tragicomica e commovente al tempo stesso, che mescola tristezza e umorismo, concentrandosi in particolare sul ritratto divertente, tenero e travolgente di sua madre, una donna incredibilmente vitale e fuori dagli schemi.
Nessuna attrice avrebbe potuto essere più adatta di Leïla Bekhti ad interpretare con intensità Esther, questa madre coraggiosa ed anche un po’ pazza, disposta a tutto per assicurare al figlio una vita ‘meravigliosa’ nonostante la deformità, sempre presente in modo gentilmente ingombrante nell’intero corso della sua vita, anche quando lui, cresciuto, sposato e divenuto avvocato, cerca di convincerla di essere ‘autonomo’.
Nel cast, Jonathan Cohen presta il suo carisma alla figura di Roland da adulto, mentre Naïm Naji interpreta Roland da piccolo, mentre Sylvie Vartan, presenza iconica del film e nume tutelare di Roland, interpreta sé stessa con grande presenza scenica.
Ma Mère, Dieu et Sylvie Vartan: ode alla resilienza e a Sylvie Vartan
Si sa che spesso le madri possono essere eccessivamente protettive, fino a risultare invadenti e ad eterodirigere la vita dei figli, ma Esther sembra confermare e superare tutti gli stereotipi. Il film si divide in due parti: quella del Roland bambino, che combatte e supera la malattia con l’aiuto della sua folle, adorabile famiglia. Nella seconda parte vediamo Roland ormai adulto ed Esther anziana, che non demorde però nel voler ancora orientare il figlio nelle sue scelte di vita.
Fin da quando Roland è piccolo, la madre non accetta in alcun modo che sia diverso dagli altri, nonostante il piede deforme che gli rende impossibile lo stare in piedi, e rifiuta ogni supporto che consentirebbe al bambino di camminare: non permette ai medici di mettere un tutore al piede del figlio, lascia che il bambino si trascini per terra per anni e, fuori casa, lo porta in braccio, non lo manda a scuola per evitare prese in giro, ma si affida piuttosto alle preghiere, alle amiche di sempre e ad alcuni guaritori che costringono il ragazzino a letto per anni, inguainato con delle corde tiranti che dovrebbero servire a rimettere in sesto il piede.
Perfino l’arcigna assistente sociale, che sta per dare Roland a una famiglia affidataria, poiché la madre non ottempera all’obbligo scolastico e sembra trascurare le cure mediche tradizionali, alla fine si arrende di fronte alla tenacia ed alla fiducia fideistica di un amore materno ingombrante e commovente, e scende a patti con questa madre che compie per il figlio scelte estreme, facendosi promettere che Roland imparerà almeno a leggere. Ed è qui che entra in gioco Sylvie Vartan, con il suo partner Johnny Hallyday.
I fratelli e le sorelle di Roland, infatti, per distrarlo e farlo stare fermo nel letto, coltivano e valorizzano l’amore del bambino per le canzoni di Sylvie Vartan, astro del momento alla tv francese e della musica yéyé anni Sessanta, comprando tutti i suoi dischi: attraverso i testi e l’ascolto delle canzoni della Vartan, ripetute ossessivamente nel corso di interminabili giornate, Roland apprende le sillabe e la lettura.
A poco a poco avviene il miracolo e Roland, con delle grosse scarpe ortopediche ed appoggiandosi ai muri, inizia a camminare, a stare eretto e, come vuole sua madre, anche a ballare. Ma soprattutto Roland trova la sua strada, forma una famiglia e cerca di allentare il legame materno, ma invano.
La forza irresistibile dei legami familiari e i mitici anni Sessanta
Il film è la celebrazione del potere che hanno alcuni legami familiari, in particolare quelli fra madri e figli e tra fratelli, come mezzi privilegiati per raggiungere obiettivi imprevedibili, con una fede incrollabile, contro ogni evidenza, ed un amore che non si piega di fronte alle difficoltà della vita.
La scelta dell’interprete è stata quasi un’evidenza per il regista, che racconta: «Leïla possiede il carisma e la luce che permette di seguire questa storia commovente per oltre cinquant’anni ».
Il regista ricrea nel film, con grande veridicità, le atmosfere degli sfavillanti anni Sessanta, con colori e musiche vintage, soprattutto nella prima metà del film, quella in cui viene introdotta la famiglia Perez – che vive in un HLM parigino, dove si mescolano culture e religioni – e dove il piccolo Roland intraprende il suo incredibile viaggio verso la guarigione sulle note di Sylvie Vartan, una figura che lo accompagnerà per tutta la sua vita.
“A casa ero circondata solo da persone di colore – racconta Roland Perez spiegando il perché del fascino esercitato su di lui dalla cantante – i vicini erano di colore, le mie sorelle erano di colore, i miei fratelli erano di colore. Improvvisamente, negli anni ’70, è apparsa Sylvie Vartan, che era su tutte le televisioni. È bionda, è bellissima, è affascinante, ha i denti storti. Era come una bambola che veniva da me, mi affascinava e mi aggrappavo a lei come a una roccia.”
Nell seconda parte del film, dove il ritmo rallenta e ci si trova nel mondo degli adulti e degli anziani, con i loro problemi e dilemmi di ogni giorno, compare una nuova atmosfera, più intima e colloquiale e, con l’espediente che la cantante è in cerca di un avvocato, compare sulla scena la stessa Sylvie Vartan, in un ruolo molto umano e toccante, così come quello di Esther, la quale, invecchiata e allo stremo, continua a pianificare, offrire tè, fare conversazione.
Leïla Bekhti racconta che, per incarnare il lungo viaggio eroico di questa madre, ha cercato di ispirarsi a sua nonna: «Vedevo i suoi gesti che divenivano più lenti e il suo sguardo che cambiava: è stata una esperienza molto emozionante ritrovare questi ricordi e trasportarli sullo schermo, nel mio personaggio».
L’intero film è godibile, divertente e pieno di trovate, divertente e scanzonato, con un’ottima sceneggiatura, adatto a ogni tipo di pubblico.