Sotto le foglie (Quand vient l’automne), ultimo lavoro di François Ozon nelle sale italiane dal 10 aprile a cura di BIM distribuzione, rappresenta quell’inversione tonale nel drammatico con cui il regista predilige variegare la sua filmografia, sotto la scorza dell’esplorazione sperimentale e coesa di una visione personalissima dei rapporti umani e delle loro ambiguità, alternando commedie dall’umorismo sulfureo sconfinanti nella sciarada (8 donne e un mistero, Potiche, Mon crime) all’immersione greve e lucidissima nella tragedia dei traumi infantili (Grazie a Dio), del fine vita (È andato tutto bene), delle illusioni della Grande Guerra (Frantz), dell’ossessione scabrosa (Doppio amore). Sempre diversamente uguale a se stesso e alle sue magnifiche ossessioni, il cineasta francese, abilissimo nel coniugare l’intraprendenza progettuale ai gusti del pubblico, non ha neppure trascurato la mistura dramedy con Nella casa e Una nuova amica, accarezzando corde di tensione esistenziale.
Con Sotto le foglie, indubbia opera di introversa e aggraziata maturità, vincitrice di due premi al Festival di San Sebastián 2024, Ozon scompagina le aspettative classificatorie, scalfendo la confezione della lievità della messinscena (in un rassicurante allestimento profilmico: una mite anziana, la campagna amena e sonnacchiosa, l’ozio agreste) e sottraendo il plot giallo-classico, distillato nella rarefazione di una regia piana e introspettiva, ai suoi dispositivi narrativi più rodati, già rivisitati ed erosi con variopinta vivacità muliebre e canora nel suo più popolare successo, 8 donne e un mistero.
La promessa infranta del genere
Misteri senza delitto (o forse sì) nel relativismo della morale individuale, incatenata alle ombre di un passato non del tutto prosciolto: nell’implosione della detection e della catarsi finale (la programmatica risoluzione del caso) Ozon suggella un epitaffio a uno dei suoi generi favoriti (come fece Friedrich Dürrenmatt con il romanzo La promessa) per squarciare, nella sottigliezza etica delle domande senza risposta, il velo di Maya dell’unico intreccio inestricabile: la convivenza compenetrante tra bene e male.
La premurosa nonna Michelle (Hélène Vincent) vive la sua tranquilla pensione in un piccolo villaggio della Borgogna, vicino alla migliore amica Marie-Claude (Josiane Balasko). Michelle non vede l’ora di trascorrere le vacanze con il nipote Lucas, ma quando sua figlia Valérie (Ludivine Sagnier) e Lucas arrivano a casa le cose iniziano a prendere una strana piega e nulla sembra andare per il verso giusto: Valérie mangia dei funghi velenosi raccolti da Michelle e il ritorno di Vincent (Pierre Lottin), il figlio di Marie-Claude appena uscito di prigione, sembra sconvolgere ulteriormente gli equilibri… [sinossi ufficiale].
Al crepuscolo della psiche
Cantore di un cinema metamorfico e combinatorio, esteticamente levigato e smagliante, ma poroso nella semantica delle immagini e mordace nell’evoluzione disattesa dei personaggi, più ancorato alla loro graduale determinazione identitaria che alla monolitica dinamica di scarto e di denuncia tra realtà e apparenza, François Ozon in Sotto le foglie si riaccosta ai codici espressivi del cinema borghese francese, che aveva già diversificato e riscritto nella sua carriera fin da Cinqueperdue. Frammenti di vita amorosa, nei riverberi di Henri-Georges Clouzot, Claude Chabrol, Maurice Pialat, che subentrano ai numi tutelari più assoldati, Rainer W. Fassbinder, Douglas Sirk, Pedro Almodóvar.
Con echi dell’immaginario provinciale, letterario e filmico, di Georges Simenon e Bruno Dumont (mentre Agatha Christie, al di là delle fattezze anziane e cortesi della presunta colpevole, è fioca presenza), non serpeggia tuttavia un affondo di classe verso il perbenismo agiato; alla moralità poliziesca si oppone infatti, senza pregiudizi, una piccola comédie humaine di noie e dolori, solitudine e fredda sopravvivenza, nella logica del compromesso contro l’incombente infelicità. Il quadro di un antropologo della psiche dal piglio tenue e, appunto, autunnale, più contemplativo che analitico, rischiarato da una rappresentazione sensibile e non commiserevole della vecchiaia.
Dimessa quella vena carsica di obliquità sardonica e stratificazione degli inganni che non preclude ai protagonisti l’approdo alla loro verità d’essere, Sotto le foglie, con tutti i suoi personaggi reversibili tra vulnerabile colpevolezza e screziata innocenza, tra individualismo di riscatto e contorcimento di ombre e desiderio, disinnesca, per la prima volta nel percorso di Ozon, le frizioni degli opposti, traccia strade senza uscita, procrastina ogni scioglimento, appellandosi a qualcosa di metafisico che tende a combaciare con la complessità del vivere.

Ludivine Sagnier in ‘Sotto le foglie’ (per gentile concessione di BIM distribuzione).
Le ragioni del cuore: un mistero in essere
“Se a questo mondo esiste una cosa terribile, è che ognuno ha le sue ragioni”, declama Octave/Jean Renoir in La regola del gioco, con un assunto che tanto ha ispirato l’autorialità d’oltralpe, fino alla rappresentazione più esemplare con Elle di Paul Verhoeven e più recentemente con Il caso Belle Steiner di Benoît Jacquot. E in Sotto le foglie cova le sue ragioni l’anziana Michelle nell’ovattato rancore verso figlia Valérie, le rimugina quest’ultima contro una madre dal passato sconsiderato (a cui Ozon, qui vero giallista, allude inizialmente per poi deviarci altrove), persino sull’ex detenuto e amico di famiglia Vincent aleggia l’attenuante dell’errore, pur irrimediabile.
Nel posato dispiegamento della crime story Ozon costella un andirivieni di dubbi e interpretazioni con una classicità stilistica e una delicatezza psicologica che è decostruzione degli schemi narrativi dell’universo poliziesco, reinvenzione del pensiero, amorevole atto di lealtà verso i personaggi. In questo modo, nella punteggiatura di eloquenti primi piani e sguardi in fuori campo che trascendono la messa a punto del reale, il regista, rannuvolando il pubblico, ci consegna, in una traiettoria promettente della sua poetica, la sua opera più aperta, impalpabile, sapientemente sospesa, dove l’unica tangibilità senza perché sopraggiunge con l’autunno del Tempo, come suggerisce il titolo originale (Quand vient l’automne).
Né lupi né agnelli, come lascia presagire un richiamo alla nota favola greca di Esopo, gli uomini e le donne di Ozon, magistrali ritratti di afflizione, trovano in due inquadrature dall’alto, in plongée, un’espiazione che, sotto le foglie, fa librare e non socchiudere la sacralità dell’enigma della vita e della morte.
