Gli antichi greci utilizzavano uno schema ben preciso per definire ciò che oggi conosciamo come tragedia. O meglio, per definirne lo sviluppo.
In parole poverissime, bisogna pensare alla forma di un’arcata, o di una U a rovescio. Il piede sinistro è l’inizio, in cui la situazione si presenta praticamente disperata. Lo zenit della figura è il punto di mezzo, il momento in cui tutto sembra andare per il meglio dopo una graduale risalita, finché non inizia l’inevitabile discesa verso il piede destro: la fine. Delle speranze, dei desideri, della vita, di tutto. A rigor di logica, le commedie della Grecia antica seguivano lo schema opposto. Fantozzi, tuttavia, rifiuta questi schemi.
Classicamente parlando non si tratta di una tragedia, e la sua struttura non è certo simile alla forma di una U rovesciata. Ricorda piuttosto la lunga linea piatta di un elettrocardiogramma che improvvisamente registra un singolo battito, per poi tornare al suo stadio naturale di morte. Dal punto di vista drammaturgico, è quasi impensabile che una struttura del genere possa funzionare; eppure, per miracolo, funziona. Funziona esattamente come aveva funzionato mezzo secolo fa, al momento della sua uscita nelle sale italiane.
Il vero esordio del ragioniere più sfortunato del mondo non avvenne al cinema. Il personaggio di Ugo Fantozzi aveva già riempito gli scaffali italiani nel 1971 e nel 1974 con due raccolte di racconti, a opera di Paolo Villaggio, già pubblicati sul settimanale L’Europeo, che divennero dei veri e propri best-seller: Fantozzi e Il secondo tragico libro di Fantozzi. Ma Paolo Villaggio aveva effettivamente introdotto la sua creatura ancora prima, nel 1968, all’interno di vari monologhi recitati da lui stesso nella storica trasmissione Rai Quelli della domenica.
Antefatti storici e stilistici
Sul personaggio più famoso di Villaggio è stato detto tutto e il contrario di tutto. Il roboante successo dei primi due film diretti da Luciano Salce ha portato avanti la saga fantozziana per ben ventiquattro anni, tra alti e bassi, fino ad arrivare al traguardo dei dieci film. Sarebbe ormai pleonastico tessere qualsiasi lode per la performance dello stesso Villaggio nei panni del ragioniere. Ma per comprendere pienamente il successo del primo film di Fantozzi, dobbiamo analizzarne la struttura drammaturgica senza trascurare l’importanza del contesto storico.
Era il 1975, nel pieno degli anni di piombo, e in Italia sopravviveva ancora il filone del film antologico (o film a episodi), un modo di far cinema già vecchio di due decenni, ma non ancora del tutto stantio. Il genere fu lanciato dal regista Alessandro Blasetti nel 1952, con Altri tempi – Zibaldone n. 1, una divertente collezione di brevi novelle ottocentesche riadattate per il grande schermo [L’espressione maggiorata fisica, in voga all’epoca per indicare attrici di bell’aspetto e dalle forme prorompenti, deriva da questo film N.d.R.].
Un film a episodi post-classico
Da quel momento in poi, la struttura a episodi si fece strada in pellicole italiane di varia natura e varie pretese, a volte riscuotendo un grande successo di critica e pubblico. Basti pensare a due esempi, entrambi risalenti al 1963: Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica, con la sequenza dello spogliarello di Sophia Loren entrata ormai nell’iconografia popolare, o I mostri di Dino Risi, forse il più riuscito tra i film a episodi italiani di stampo classico.
A questo punto sarebbe lecito chiedersi come Fantozzi abbia potuto distinguersi dai suoi innumerevoli predecessori. Non bisogna dimenticare che perfino le fonti letterarie da cui attinge sono strutturate a episodi. Il problema però non si pone, perché Fantozzi rifiuta anche lo schema del classico film a episodi, o meglio, lo modella a suo piacimento. All’inizio dell’articolo abbiamo paragonato la struttura narrativa del primo Fantozzi a una lunga linea piatta che raggiunge un momentaneo picco prima di tornare alla normalità, e quello del film a episodi è uno dei pochissimi modi per rendere perfettamente funzionale questo genere di schema, che all’interno di un lungometraggio convenzionale non funzionerebbe quasi mai.
Ridere dei dolori altrui
L’altro tassello fondamentale per comprendere appieno il valore ed il successo del primo Fantozzi è racchiuso in tre parole: commedia all’italiana.
La commedia all’italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici, degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all’italiana da tutte le altre commedie.
La citazione di Mario Monicelli sopra riportata ne è una calzante definizione, ma è opportuno aggiungervi una particolarità divenuta chiara solo con il passare dei decenni. Prendendo in prestito una riflessione dello storico del cinema Andrea Minuz, le pellicole appartenenti al genere della commedia all’italiana erano realizzate a ridosso della cronaca. In parole povere, rappresentavano per gli italiani della Prima Repubblica ciò che per noi sono i social media, il web e la politica dentro i social media, sia a livello di satira che, più banalmente, del ridicolo. Un ridicolo spettacolarizzato, a volte costruito ad arte, che però non viene più trasferito sul grande schermo poiché si osserva quotidianamente in diretta.
Unendo questi due macro-elementi, si può dar vita a una serie di vignette comiche (non separate da titoli e inter-titoli come accadeva, per esempio, ne I mostri) tenute insieme dalla tragica cornice dell’essere sotto padrone, per usare le parole di Paolo Villaggio. E va detto senza mezzi termini: anche se le problematiche del lavoro sono cambiate radicalmente da cinquant’anni a questa parte, il disagio di essere alle dipendenze di persone o enti è una condizione umana assolutamente universale. Fantozzi, come opera letteraria e come capolavoro del cinema, fa sfoggio di questa condizione umana e la trasforma senza fatica in una farsa, o nella piena consacrazione di quella miseria che Vittorio Bersezio aveva già coraggiosamente narrato con il suo signor Travet nel 1863. Fantozzi diventa una vera e propria maschera della commedia dell’arte.
Elisabetta Villaggio, figlia dell’autore/attore, ha dichiarato durante una breve intervista che ci ha concesso recentemente:
«Fantozzi è una macchietta, ma tutti noi abbiamo qualcosa che ha anche lui. Siamo goffi, inciampiamo, andiamo al funerale sbagliato e prendiamo l’autobus al volo. Ma nonostante le vessazioni e le botte in testa, Fantozzi rimane un personaggio puro, quasi infantile. Per questo piace anche ai giovani».
Una violenza cartoonesca
Sarà quindi opportuno spezzare una lancia a favore degli elementi di slapstick comedy presenti per tutto il film e per il resto della saga. La natura altamente corporea di questo tipo di comicità non rimanda solo alla guizzante fisicità di maschere come Arlecchino e Pulcinella, che siano rappresentate dal vivo o in un teatro di burattini, ma può anche ricordare diversi prodotti d’Oltreoceano come i corti animati realizzati da Chuck Jones, o quelli che vedono come protagonista Paolino Paperino, l’unica altra macchietta la cui sfortuna è paragonabile a quella del nostro Ragioniere. Ciò potrebbe addirittura bastare per giustificare il successo duraturo di Fantozzi anche tra il pubblico più giovane.
Quello che balza subito agli occhi dello spettatore più adulto, invece, è la natura assurda e violenta dei grattacapi che il povero ragioniere è costretto a subire inerme. Alcuni di loro piovono letteralmente dal cielo, dopotutto. Ciò aumenta esponenzialmente il valore tragico dell’opera ma, come già detto, Fantozzi non è una tragedia nel senso classico del termine.
Il film, drammaturgicamente parlando, ha il grande vantaggio di racchiudere i molti suoi episodi tra un singolo inizio e un singolo finale chiaramente delineati. Già dai primi istanti della sequenza di apertura si può notare una grande predisposizione per la farsa e l’assurdo. Si percepisce dal modo in cui un dirigente tenta di trovare Fantozzi (dato per disperso ancor prima di essere entrato in scena) fiutando la sua sciarpa, dall’allegro motivetto composto da Fabio Frizzi che accompagna i titoli di testa, perfino dal linguaggio utilizzato. Non c’è ancora traccia dei celebri congiuntivi sbagliati, ma la povera Pina Fantozzi (Liù Bosisio) si rivolge già così ad una centralinista per chiedere notizie del marito:
Mi permetto di cominciare a stare rispettosamente in pensiero.
Vita, morte e neologismi di un ragioniere
«Il Petrocchi, ahimè, è ormai considerato un vecchio pazzo», declamava Paolo Villaggio in uno dei suoi monologhi andati in onda in Quelli della domenica per giustificare l’ormai noto uso del vadi e del facci, ma il film è permeato di molte altre trovate linguistiche. La sagace sceneggiatura scritta a otto mani da Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, il regista Luciano Salce e lo stesso Paolo Villaggio sfoggia un magistrale uso dell’espediente della voce narrante, rivaleggiato solo da pochi eletti come Apocalypse Now e Quei bravi ragazzi.
La voce fuori campo (sempre di Villaggio, ma totalmente diversa in tono ed impostazione da quella che aveva dato a Fantozzi) utilizza un linguaggio fatto di iperboli: le iniziative organizzate dal ragionier Filini (Gigi Reder) sono mostruose, le nuvolette da impiegato possono stare in agguato anche quattordici mesi, e Fantozzi raggiunge il traguardo della gara di sci a Courmayeur dopo un’ora e settanta esatte. Ma non è solo la voce narrante a giocare con la lingua italiana.
Tutti gli impiegati della Megaditta, soprattutto Fantozzi, comunicano con i dirigenti affogando le loro parole nella più avvilente piaggeria. «A tutti loro i miei più servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo», dice Fantozzi ai suoi capi durante la sequenza più drammatica del film. Anche durante il tanto atteso confronto finale con l’odiato Megadirettore Galattico, il ragioniere non può che rivolgersi a lui chiamandolo prima conte, poi duca e maestà, passando per santità, arrivando infine a onnipotente.
L’epoca delle pecore nere, anzi, delle pecore rosse
La sequenza finale, inoltre, è quella in cui più brillano le capacità di messa in scena del regista Luciano Salce, dall’orrenda ed esilarante allucinazione di Fantozzi crocefisso in sala mensa fino al dialogo con il Megadirettore, ambientato in una stanza bianca, luminosa e quasi totalmente spoglia. In quel luogo regna un’atmosfera al limite del distopico che ricorda vagamente la chiusura di Arancia meccanica, e mentre Fantozzi, colpito dall’atteggiamento calmo e accondiscendente del Megadirettore, osa ingenuamente chiedergli se sia per caso un comunista, la telecamera vibra, le luci si spengono e si riaccendono a raffica, si ode il rombo di un tuono.
Il semplice atto di pronunciare la parola comunista assume un valore quasi cataclismico, suscitando nel Megadirettore lo stesso sdegno (e perché no, lo stesso terrore) associato a quella parola durante gli anni di piombo. Il dipendente Folagra, «un giovane intellettuale di estrema sinistra che tutti, Fantozzi compreso, avevano sempre schivato per paura di essere compromessi agli occhi dei feroci padroni», è la personificazione di questo terrore.
Novantadue minuti di applausi
È soprattutto durante la sequenza finale che l’anima della vera commedia all’italiana si impossessa di Fantozzi, contribuendo ad elevare un semplice film a episodi in qualcosa di intramontabile valore. Ma ciò che solleva la lunga linea piatta che rappresenta la struttura del film non si trova all’inizio né alla fine, bensì nel mezzo.
L’intera durata della pellicola, inizio e finale compresi, è composta soltanto da disavventure. Non c’è un solo evento, un solo personaggio, una sola circostanza che agisca negli interessi del protagonista. Non esiste conflitto poiché Fantozzi è sempre perdente, tranne in una particolare sequenza, quella della partita a biliardo.
È questo il singolo battito registrato dall’elettrocardiogramma piatto di cui abbiamo parlato, il vero picco di euforia della pellicola, capace di resuscitare momentaneamente l’anima morta di Ugo Fantozzi.
Al protagonista, dopo una lunga serie di insulti e umiliazioni durante una sola serata, basta incrociare lo sguardo piangente della moglie per ribellarsi al conte Catellani, tirannico dirigente con l’abitudine di regalare promozioni ai dipendenti che si lasciano sconfiggere a biliardo da lui. Solo per questo istante, Fantozzi non ne può più. Solo per questo momento, la vita regala al ragioniere la gioia del trionfo. Si tratta di una sequenza di pura catarsi, che verrà centuplicata ne Il secondo tragico Fantozzi, uscito nelle sale l’anno seguente, con il solo ausilio di questa frase:
Per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!
Purtroppo, si tratta in entrambi i casi di vittorie temporanee, destinate a lasciare il passo all’inevitabile tsunami di miseria e sfortuna.
Fantozzi: la commedia della vita reale
Il pessimismo intrinseco del mondo fantozziano potrebbe far pensare alla letteratura russa più che alla tragedia greca, e non è un paragone così lontano dalla realtà. Il primo libro su Fantozzi fu tradotto in molte lingue, e divenne famoso perfino in Unione Sovietica. Il poeta Evgenij Evtušenko parlò di Paolo Villaggio come l’unico scrittore italiano riconducibile a Gogol; non a caso, anni dopo, l’autore genovese vinse il premio Gogol come miglior scrittore italiano tradotto in cirillico.
«Anche in Russia hanno una burocrazia infernale»
aggiunge Elisabetta Villaggio parlando con noi.
«C’era allora e c’è tuttora un autoritarismo dove il singolo non conta nulla, ma deve subire e obbedire».
Quasi impossibile non trovare dei paralleli tra Ugo Fantozzi e Akakij Bašmačkin, protagonista del racconto di Gogol Il cappotto, anche lui continuamente subissato di umiliazioni da parte dei suoi superiori e comunque capace di godere di un breve trionfo. Ma a differenza di Fantozzi, Akakij Bašmačkin è destinato a soccombere a una morte iniqua.
Al nostro ragioniere, invece, non è concesso neanche di morire.
In fondo, la vera tragedia potrebbe essere questa.