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‘Sonny Boy’: il mestiere dell’attore

Al Pacino nella sua autobiografia, attraverso le fasi della sua carriera, passa in rassegna l'evoluzione dell’attore hollywoodiano. Rompendo la figura del divo nella sua completa anarchia

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Sonny Boy

Pubblicata dalla casa editrice La nave di Teso la prima autobiografia del leggendario Al Pacino. Sonny Boy (come il soprannome datogli dall’amata quanto complicata madre) racconta le fasi private e pubbliche di uno degli attori hollywoodiani più amati di sempre. Una narrazione fluida piena di immagini filmiche raccontate con una schiettezza disarmante. Pagine, come ogni realistico lavoro autobiografico, piene di conflitti interiori ma anche di amore verso il mestiere della recitazione.

Sono un anarchico – Sonny Boy

Al Pacino già dalle prime pagine di Sonny Boy trova un certo autocompiacimento ad affermare la sua diversità dallo star system di cui fa parte da circa 55 anni. Si evince dall’interminabile flusso del racconto e da una certa allergia al processo di divo e di mito che invece hanno attraversato con una certa nonchalance colleghi come Dustin Hoffman e l’amico fraterno Robert De Niro. È un anarchico Al Pacino e in Sonny Boy non lo nasconde. Anzi fa tutto per farlo emergere. Come ogni memoriale che si rispetti, il premio Oscar parte dalla sua vita, una costante che si interconnette con la professione dell’attore. Dalla povertà nel South Bronx che lo costringe a vendere porta a porta, alla difficoltà di essere accettato come migrante di origini italiane in America. Del resto Al Pacino nel corso del libro ci fa immergere in una testimonianza di vita vissuta. Di fasi altissime e bassissime che l’attore supera attraverso la maschera dei volti. Per la maggior parte dei lettori indubbiamente la parte più succulenta di Sonny Boy vive di retroscena sulla lavorazione dei film. E sul rapporto dell’attore americano con i registi.

I problemi economici e la fama da bad actor

Se era quasi di dominio pubblico la difficoltà di farsi accettare da parte della Paramount nel ruolo di Michael Corleone nel cult di Francis Ford Coppola Il Padrino, meno conosciuta è la crisi finanziaria che ha coinvolto l’attore tanto da costringerlo ad accettare film come Jack e Jill al fianco di Adam Sandler. Al Pacino non fa fatica a rivelare come il ruolo di Corleone ne abbia costituito non solo il passaggio dall’irrilevanza alla fama, ma anche un peso da cui ha cercato per tutta la vita di emanciparsi. Da qui inizia l’anarchia di Al Pacino nel profondo rispetto del mestiere dell’attore. Una figura perfezionista che negli anni ha rappresentato un freno per l’anti-divo hollywoodiano, rallentando produzioni come Scarface di Brian De Palma. Ma mettendo da parte la componente del retroscena, Al Pacino sottolinea come per tutta la vita non è riuscito a gestire il successo. Trovando nell’alcol l’amante da cui fuggire e nel teatro la moglie premurosa da cui tornare.

La coperta del palcoscenico – Sonny Boy

È una storia di uscite e rientrate la storia complessa tra Hollywood e Al Pacino. È cosi insofferente ai produttori dell’industria americana che rifiuta macchine di lusso per promuovere i film, scappando dalla festa di premiazione degli Oscar 1992 in cui vince con Profumo di donna. L’anti-divo si fa costantemente terra bruciata attorno, un po’ per il proprio caratteraccio, un po’ per l’allergia che nutre verso i meccanismi da socialite del sistema hollywoodiano. Quindi Al Pacino fugge via. E in Sonny Boy l’attore hollywoodiano ci comunica, senza ostentarlo mai, di essere in primis un attore di teatro prestato al cinema. Nei testi e nelle recite che fa di William Shakespeare l’attore americano vede una liberazione dalla tossicità del cinema; tant’è che molto spesso usa il palco del teatro per rigenerarsi, capire e reinventare il mestiere d’attore. È nel teatro che mette a nudo il mestiere, riuscendo ad isolare le proprie carenze e a farle proprie.

Al Pacino: un teatrante prestato al cinema

Dall’innamoramento de Il gabbiano di Čechov, Al Pacino trova nelle pratiche teatrali una purificazione dalle insicurezze derivanti dal grande schermo. Sembra strano avvertire da uno dei maggiori interpreti del cinema contemporaneo questo irrefrenabile impulso per la maschera teatrale. Ma così traspare dalle pagine biografiche di Sonny Boy. Il teatro soprattutto shakespeariano è una miccia anarchica contro Hollywood, capace per Al Pacino di trasportarlo nei luoghi sconfinati del drammaturgo inglese, nel cui spazio si sente a suo agio. Tale adeguatezza l’attore americano la documenta nei tentativi registici con cui tenta di educare il cinema al teatro. Sottolineando come per l’industria cinematografica sarebbe sempre stato Michael Corleone e non il Riccardo III di Looking for Richard o Re Erode in Wilde Salomè. Ciò che quindi ritorna costantemente nell’autobiografia di Al Pacino è la dimensione anarchica dell’attore. Nella disperata ricerca di liberarsi delle figure ingombranti di Michael Corleone, di Tony Montana e più in generale di Hollywood.

La rinascita tra Scorsese e Tarantino

Nella ultima parte di Sonny Boy, dopo aver rivelato la quasi morte a causa del COVID, Al Pacino, pur rigettando Hollywood, si sente come quell’artista che ha dato tanto e ricevuto poco. Così parla con una certa positività del suo ritorno nel cinema che conta. Rivela di essersi divertito in House of Gucci nonostante il flop e di aver accettato solo per venire diretto da un grande regista come Ridley Scott. Pieno di soddisfazione è il paragrafo che riguarda The Irishman di Martin Scorsese con la quarta collaborazione con l’amico De Niro. Il 2019 è anche l’anno di C’era una volta Hollywood di Quentin Tarantino che Al Pacino valuta come un film importante. Il momento in cui “l’industria ha capito che avevo ancora qualcosa da dire”, rivelando l’amarezza per il taglio commesso dal regista di Pulp Fiction nella scena con Leonardo Di Caprio.

Le ultime pagine di Sonny Boy sono invece una profonda riflessione sulla vita e su cosa si aspetti nell’aldilà. E Al Pacino, rimanendo fedele per tutta la sua carriera al concetto di impossibile realizzato, alla fine del suo racconto si dimostra estremamente umile nel viaggio che lo ha portato ad essere una leggenda. Rivendicando, a ragione, la sua impronta indelebile sulla caverna del cinema.

Sonny Boy di Al Pacino risulta essere un’autobiografia molto lontana dal gossip di una star in declino. Il grande attore americano compone attraverso le immagini dei suoi film, che non vediamo ma percepiamo, una figura dirompente per eccellenza. Il ribelle del cinema divenuto immortale prima di morire.

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