3/19 di Silvio Soldini è il film di un autore che non si è stancato di cercare linguaggi e forme in grado di rappresentare l’essenza della condizione umana. In questo senso 3/19 è l’esempio di una poetica della condivisione che sfugge la retorica e riesce a raccontare attraverso le immagini. Distribuito da Vision Distribution e disponibile da oggi su Prime Video, di 3/19, e non solo di quello, abbiamo parlato con il regista del film Silvio Soldini.

Silvio Soldini prima di 3/19
Prima di guardare 3/19 ho ripassato i tuoi lavori. In particolare L’aria Serena dell’Ovest che mi sembra quello che, più di altri, si avvicina al nuovo lungometraggio, non solo per il fatto di svolgersi a Milano. La prima cosa che mi è apparsa evidente, e su cui forse non avevo mai ragionato abbastanza, è l’importanza del caso che nelle tue storie è il vero e proprio motore.
È così. Il caso tiene insieme tutta la mia filmografia: non tutti i film ma buona parte. In Pane e Tulipani se l’orecchino non cadesse nel water dell’autogrill sarebbe tutta un’altra storia e, come giustamente notavi, succede così anche ne L’aria serena dell’Ovest, il mio primo lungometraggio, dove a tenere insieme la storia è una piccola agenda che passa di mano in mano. Li è come se i personaggi non sapessero quello che sta accadendo: ognuno ha la propria vita, ma succede che, attraverso lo scambio di quell’agenda, finiscono per appartenere tutti alla medesima storia, quasi senza accorgersene.

Il caso in 3/19
Come in altri film anche in 3/19 il caso si manifesta con l’irruzione dell’altro nella vita del protagonista e nella conseguente scoperta di quel mondo invisibile che, da lì in poi, diventa improvvisamente concreto e condizionante. In 3/19 questo escalation è trasversale perché, a partire dall’incidente stradale, Camilla (Kasia Smutniak, ndr) viene a contatto non solo con l’universo del ragazzo extracomunitario, ma anche con quello del responsabile dell’obitorio (Francesco Colella, ndr) che l’aiuterà a fare luce sull’identità del giovane.
Sì, in questo caso mi piaceva prendere un personaggio molto lontano da me come può esserlo un avvocato d’affari, la cui vita è tutta protesa al lavoro. In questo senso Camilla è diversa dai personaggi femminili dei miei film. La vita che conduce si può dire che sia all’opposto di quella del ragazzo che sta attraversando la città di notte, scappando da qualcosa e da qualcuno con uno scopo molto diverso: quello di sopravvivere. Mi piaceva il fatto che rappresentassero due estremi. Rispetto a L’aria serena dell’ovest trovo che in 3/19 sia diverso il modo di raccontare. Quello era un film con uno stile molto distaccato, la mdp era un occhio che guarda da una certa distanza. L’idea era di lasciare al pubblico il giudizio sull’operato dei personaggi, mentre qui è un po’ l’opposto e come vedi continuiamo a parlare di contrapposizioni. In 3/19 la mdp sta proprio addosso a Kasia, cercando di esserle sempre vicino durante il suo percorso, facendoci condividere quello che vede e ciò che le accade. Ci sono anche molte soggettive.
La costruzione e le immagini di 3/19

La forma di 3/19 è costruita su opposti. Prima di parlarne volevo terminare il confronto con L’aria serena dell’Ovest. Rispetto a quello, 3/19 è un racconto fatto dall’interno dei personaggi e lo si vede anche nel taglio espressionista della direzione fotografica. È vero che esistono dei momenti in cui l’immagine diventa quasi documentaristica – mi riferisco alla sequenza in cui Camilla incontra il personaggio di Giuseppe Cederna -, ma per lo più il quadro filmico restituisce la percezione del mondo da parte dei personaggi così come il mondo è il riflesso della loro interiorità.
In più esiste un movimento dal basso verso l’alto. Camilla vive nei piani alti e questo le permette di dominare la città, di guardarla dall’alto verso il basso fino a quando la vita la costringe a scendere e a sporcarsi le mani. Da quel momento la vediamo camminare per strada, frequentare mense e metropolitane e persino entrare nell’obitorio, luogo frequentato da pochi e deputato a far scattare in lei qualcosa che all’improvviso riporta a galla il proprio passato.
Come nel tuo film d’esordio anche qui mi sembra che le immagini dei palazzi non abbiano solo la funzione di determinare l’ubicazione dei personaggi, ma anche di rappresentare la misura in cui Camilla ha preso le distanze dal resto del mondo per dedicarsi esclusivamente alla sua professione. Una posizione dalla quale, come hai appena detto, sarà costretta a uscire per sporcarsi le mani.
Sì, sono d’accordo, ma qui credo di avere utilizzato il paesaggio di Milano in modo un po’ differente, cercando di mostrare dei lati anche nascosti della città. E il rapporto tra la protagonista e la metropoli è sempre molto presente, anche attraverso le finestre della sua abitazione, dello studio legale, del caffè dove incontra l’amica: fuori c’è sempre la città ma alta, dall’alto. Peraltro gli ambienti in cui abbiamo girato sono tutti reali, compreso lo studio in cui lavora Camilla.

La narrazione di Silvio Soldini
3/19 lavora su più livelli di percezione che entrano in dialettica tra di loro. Il primo interessa la narrazione in cui mi sembra che il passato di Camilla, sintetizzato dal fatto di non aver aperto la porta alla sorella, dunque di non averle prestato aiuto, oltre a raccontare il passato della protagonista, diventa metafora dei nostri tempi. Come Camilla anche noi facciamo finta di non sentire le grida di chi sta fuori dalla porta. La paura di Camilla diventa la nostra come pure la sua mancata risposta.
Questa lettura mi piace, ma non è questo il motivo per cui, tra tante idee sulla storia della sorella, ha vinto l’immagine di lei che picchia sulla porta di casa urlando. Cercavamo l’immagine giusta, qualcosa che rimanesse conficcato nel cuore di Camilla per tutti gli anni a venire, e che rimanesse un suo segreto.
In questa direzione va anche la mancata identificazione del clandestino che rimanda alla mancanza di un movente tale da giustificare la scomparsa della sorella di Camilla. Anche qui all’interno della medesima narrazione esiste un doppio livello di racconto.
Sì, è vero anche questo. Non si riesce a sapere il motivo che giustifichi il destino della sorella. O forse non si è mai voluto sapere sul serio. Cioè può essere che, in una determinata situazione familiare, si sia deciso di non approfondire la questione e di fermarsi lì, come spesso succede. Si evita di fare l’autopsia perché non si vuole sapere di più, accontentandosi di piangerlo. Nel presente del film si ripete quanto successo con la sorella, cioè Camilla, pur non essendo responsabile della morte del ragazzo, si sente in qualche modo in dubbio. Si tratta di un senso di colpa che nasce a poco a poco, ragionando sul fatto che se lei non fosse uscita in quel modo dal taxi come reazione alla discussione con il suo capo forse le cose non sarebbero andate nello stesso modo. Ma Camilla si sente in colpa per qualcosa che non ha fatto, qualcosa che ha a che fare col destino – come le dice Bruno, il direttore dell’obitorio.

3/19: una storia “privata”
Torna ancora una volta l’importanza del caso, come sostiene anche il direttore dell’obitorio affermando che la morte dipende dal trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tra le cose apprezzate in 3/19 c’è il fatto che, pur entrando in contatto con un dei temi più complessi della nostra contemporaneità, di quelli che animano il dibattito pubblico e televisivo attirando milioni di spettatori, fai in modo che la vicenda rimanga comunque una storia privata. Intendo dire che di fronte al tema dell’immigrazione e delle sue implicazioni sociali avresti potuto argomentare per trovare facili consensi, esponendoti però alla retorica che di solito accompagna scelte del genere. Al contrario in 3/19 la dimensione pubblica viene sempre filtrata dal privato di Camilla.
Sono sempre molto attento a non cadere nella retorica perché non la sopporto. Da questo punto di vista, con i miei due sceneggiatori, abbiamo cercato di stare molto ancorati alla realtà. Il personaggio di Camilla mi è stato ispirato da una persona conosciuta nella vita reale, una donna avvocato d’affari. Mentre per quello di Colella, Bruno, sono andato a parlare con il direttore dell’obitorio per capire la realtà del suo lavoro e l’ambiente in cui si svolge. Per il mio cinema si tratta di un processo indispensabile: perché ho sempre grosse difficoltà a raccontare cose che non conosco. Il colore nascosto delle cose, per esempio, è nato dalla bellissima esperienza lasciatami dal documentario Per altri occhi che raccontava la vita di persone non vedenti. Prima non avevo mai avuto contatto con quel mondo ed è solo dopo averlo frequentato e conosciuto le persone che ho capito quanto fosse necessario raccontarlo. Anche per 3/19 è andata così. Per poterlo scrivere e girare è stato necessario immergersi nella realtà, parlare con chi lavora nelle mense dei poveri, nei dormitori, all’obitorio. Farlo ha arricchito la storia, allontanandola dai cliché che sono le prime cose che vengono in mente quando non conosci persone e ambienti.

La descrizione della protagonista nel film di Silvio Soldini
Continuando a parlare di diversi livelli di percezione 3/19 è un film capace di raccontare anche senza le parole e con le sole immagini grazie anche all’apporto di un direttore della fotografia come Matteo Cocco. Sotto questo profilo 3/19 racconta il tentativo di dare un volto a chi non ce l’ha. La narrazione è mossa dalla volontà di Camilla di dare un nome al ragazzo extra comunitario, ma le immagini si compongono nel tentativo di portare alla luce il vero volto di Camilla. Non è dunque un caso che all’inizio sia inquadrata per lo più di profilo e da tergo, spesso immersa nel buio come succede all’interno della macchina nella scena dell’incidente. Anche quando ne scorgiamo l’ovale il suo sguardo è impenetrabile e chiuso alla comprensione degli altri. In seguito, nel momento in cui cerca di scuotersi dal senso di colpa il volto è sempre più al centro dell’inquadratura, illuminato in modo da poterne misurare le reazioni emotive – il sorriso, il pianto, la rabbia, la paura – che improvvisamente tornano a farlo vivere. Si trattava di una cosa programmata?
Assolutamente sì. Quello di metterla al centro delle nostre inquadrature e soprattutto di esserle vicini, utilizzando solo obiettivi larghi e grandangoli. In questo modo riesci a far sentire lo spettatore veramente vicino al personaggio, accanto a lui nel vero senso della parola, senza rinunciare al contesto e allo spazio attorno. Non a caso, come dicevo, nel film ci sono parecchie soggettive come quelle in cui Camilla, dalla finestra di fronte, vede i due vecchietti che vivono insieme prendendosi cura l’uno dell’altra. Con Matteo abbiamo anche scelto di girare con obiettivi anamorfici, ci piaceva come quel tipo di lente trasformi il mondo nelle zone non a fuoco, e la profondità di campo è più corta rispetto alle lenti sferiche: che il mondo attorno Camilla fosse sfuocato e confuso a quel modo ci è parsa subito la scelta giusta.
La presa di coscienza da parte di Camilla passa attraverso un processo di decostruzione personale ed esistenziale che trova corrispondenza sul piano visivo attraverso una serie di racconti interni al film che ne riflettono i fatti sui diversi piani di coscienza. Uno di questi è dato dalla presenza dell’acqua come elemento di purificazione e rinnovamento. Essa è presente sotto forma di pioggia nella scena dell’incidente. Lo è ancora di più in quella della camera da letto da cui Camilla teme di essere sommersa. Per ultimo è presente nella sequenza finale allorché la mdp lascia i personaggi per allargare lo sguardo sul mare che costeggia il paesaggio. La liberazione dal senso di colpa coincide con la vista di quel mare.
Mi sembra molto accurata come lettura, ma vorrei aggiungere il fiume. Nel sogno l’acqua si muove, scorre, come un corso d’acqua che ricorda il fiume della sorella e fa affiorare il quaderno. È vero che quello tra l’acqua e la protagonista è un rapporto molto stretto e ricco di significati, però ho un po’ paura a parlarne, chi non ha ancora visto il film poi ne saprebbe fin troppo. Tra l’altro i simboli e le metafore, una volta spiegate, un po’ si sgonfiano, perdono la loro forza.

La natura
Uno schema simile è anche quello relativo alla presenza della natura e in particolare degli alberi, simboli di vita per eccellenza. Di essi abbiamo visione in diversi punti del racconto come proiezioni della mente di Camilla, e poi nella parte finale del film durante il viaggio con sua figlia. Qui la progressione è data dal passaggio tra il contesto artificiale delle prime a quello naturale delle seconde.
Sì, è vero. Peraltro la scena dal vivo, quella in cui ci sono gli alberi, è arrivata casualmente ma molto ben accolta nel senso che si doveva svolgere in un autogrill. Poi, per questioni di tempo e anche per la difficoltà di avere questo tipo di struttura, ci siamo messi a cercare altre possibilità, trovando questo luogo che da subito mi è parso molto più interessante. Di norma la gente non si fermerebbe in un posto del genere, rimanendo in autostrada a mangiarsi un panino. Mi attirava il fatto che quegli alberi spezzavano l’immagine di un paesaggio che, fin lì, era stato del tutto diverso, fatto di luoghi chiusi, di architetture, di vetro e cemento. In merito agli alberi di cui mi dicevi, l’idea era che Camilla si rifugiasse in un bosco, nell’immagine di un bosco che forse proviene da un ricordo lontano. E in quel luogo di natura si rilassa, si ricentra e ritrova una pace, come fosse una sua forma di meditazione. Tra l’altro c’era qualcosa che mi diceva che era giusto iniziare il film su un’immagine di alberi, di natura, di pace per poi ritrovarsi catapultati nella vita frenetica di un avvocato d’affari.
Un dualismo continuo
Tutto il film propone un dualismo tra naturale e artificiale utilizzato per sottolineare il divario tra realtà e apparenza che appartiene al modo di vivere di Camilla. Una dicotomia presente nelle caratteristiche della fotografia che, dall’espressionismo della prima parte, diventa sempre più naturale, a tratti addirittura documentaristica quando la donna si reca alla mensa dei poveri. Le immagini costruiscono un racconto interno al film e alla storia dei personaggi.
C’è anche un altro racconto, un altro filo rosso che attraversa il film, relativo al tempo. All’inizio è il tempo del lavoro, quello destinato a diventare ingranaggio, con un ritmo molto veloce che trascina con sé Camilla. Poi c’è l’incidente che la costringe a fermarsi. La ritroviamo di notte per terra e sotto l’acqua, impossibilitata ad alzarsi. Da quel momento in poi qualcosa si rompe impedendole di riprendere a vivere con il ritmo di prima. Vorrebbe farlo ma non ci riesce più. E lentamente il tempo diventa un luogo dove lasciare spazio ad altro, riflessioni, sentimenti, incontri.
Uno scarto sottolineato attraverso il montaggio: frammentato e frenetico, volto a spezzare la continuità spazio temporale nelle scene d’apertura, calmo ed esteso nella seconda, corrispondendo alla necessità di Camilla di rimettere insieme i pezzi della sua vita e di riflettere sulle possibilità di un cambiamento radicale.
Mi interessava molto questo discorso. È importante, per cui abbiamo cercato di tenere più dinamica e frammentata la prima parte mentre poi, nel finale, il tempo si spiega, diventando tempo che accoglie, che permette di prendersi cura di se stessi e degli altri, fino ad arrivare al gesto che Camilla compie nel finale.

L’importanza della scenografia
La scenografia dell’ambiente partecipa al racconto sottolineando lo stato d’animo dei personaggi e la loro condizione. Quello scaturito dalla disposizione di arredi e accessori nello spazio così come dalle architetture degli ambienti è un ulteriore racconto presente all’interno del film. Tra gli esempi che si possono fare c’è un’altra progressione visiva in cui si passa dall’ordine asettico e razionale degli interni in cui vive Camilla, illuminati da luce fredda e geometrie razionali, al locale in cui lavora sua figlia. Il fatto di riprenderlo con un campo lungo frontale che ne restituisce la vivacità umana e coloristica acuisce lo scarto tra uno e l’altro. Il primo è uno spazio ordinato, ma sostanzialmente morto, il secondo l’esatto contrario: segni inequivocabili di esistenze agli antipodi.
Hai molto ragione rispetto a quanto hai detto. In origine la sceneggiatura prevedeva che lei arrivasse davanti alla vetrina del locale e si fermasse a guardare la figlia ridere e scherzare con i due ragazzi. Poi, siccome Caterina Forza che interpreta la figlia ha iniziato come cantante e continua ad esserlo, le ho chiesto se volesse provare a intonare una canzone perché mi pareva bello riempire lo spazio con una musica e con una voce. Quindi, oltre allo spazio del locale, il calore del luogo, c’è anche una voce che canta a riempire l’ambiente. E Camilla rimane a guardare incredula, come non avesse mai visto veramente sua figlia.
Un’altra scena in cui la scenografia risulta decisiva è quella della sequenza che sancisce il punto di non ritorno nel percorso esistenziale della protagonista, quando, di fatto, rinuncia alla prestigiosa promozione offertale dal suo capo. Tutto il dialogo si svolge all’interno di un ambiente quasi astratto, dominato da una serie di linee verticali che spiccano sullo sfondo così come la scansione di colori accessi e separati uno dall’altro. Lasciando la sala Camilla passa davanti a una serie di specchi che riproducono altrettante silhouette della donna. La frammentazione del corpo rimanda all’immagine di una Camilla che da lì in avanti non esiste più.
Quella l’abbiamo girata alla Triennale a Milano. Anche a me è una scelta che piace molto e il cui merito va a un’idea della scenografa Paola Bizzarri che, anche lavorando con poco, ha sempre idee e guizzi geniali. Altrettanto bella è anche la scena seguente, in cui Camilla, vestita di rosso, rientra negli spazi della sua casa, entra nella stanza della figlia per poi sedersi nel suo letto, immobile, nel silenzio, con la camera che si muove lentissima verso di lei.
In quella scena il significato del rosso è opposto a quello che vediamo nella sequenza dell’incubo notturno. Lì quel colore rappresenta la paura e il rimorso da cui Camilla è dominata, mentre qui è la donna che ha preso il sopravvento sulle proprie ansie, è lei ad avere il controllo. Non a caso il rosso è il colore del cappotto che indossa, ovvero di un accessorio di cui Camilla può disporre. Come a dire che la paura è diventata un sentimento subordinato alla volontà della persona.
Sì, anche perché il rosso che non riesce a dominare e da cui è dominata è anche quello del semaforo; nel senso che lei non si ricorda se il semaforo quella notte era verde o rosso e quell’idea tracima nell’incubo, perché se fosse stato rosso la sua colpa si aggraverebbe. La verità, per quanto mi riguarda, è che spesso si tratta anche di cose non programmate, che arrivano in modo inconscio. È anche qui il bello di questo mestiere. Quel cappotto rosso è arrivato come proposta della costumista, Silvia Nebiolo, e d’un tratto mi è parso molto bello che Camilla in quel momento si accendesse di questo colore. Sono cose non scritte nella sceneggiatura ma costruite attraverso la collaborazione con le persone con cui si lavora. È una cosa molto importante.
Una delle scene più importanti è quella in cui Camilla si reca all’obitorio. Oltre a raccontare un fatto, la stessa rappresenta la scoperta di un mondo altro a partire dal quale la protagonista inizia a percepire la possibilità di una nuova vita. La sua costruzione è esemplare a cominciare dalla prima inquadratura caratterizzata dal campo lungo in cui vediamo Camilla fermarsi davanti al cancello dell’istituto. Lo scarto tra la vetusta antichità di quell’edificio e la modernità degli ambienti a cui Camilla è abituata annuncia la diversità del mondo che la donna sta per scoprire. Le sequenze a seguire, fatte di corridoi soffocanti e scarsamente illuminati, sono propedeutiche alla definitiva immersione in un universo sconosciuto che trova la sua massima alienazione nella stanza spoglia in cui il vetro che separa Camilla dal cadavere disteso sul tavolo diventa simbolo della distanza che la separa da quei mondo.
Sì, è un vetro che dà anche un senso di gelo. perché l’obitorio non presenta certamente una condizione calda. Non credo che siano molte le persone entrate lì dentro perché per farlo deve essere successo qualcosa di tremendo a qualcuno che conosci e che sei chiamato a identificare. Volevo che dopo l’incidente fosse quello il momento che fa scattare in lei qualcosa che, alla fine, la porterà lontano dalla sua normalità. Uscendo da lì la prima cosa che fa è tornare sul luogo dell’incidente per capire cos’è realmente accaduto, per poi andare in cantina, portare su uno scatolone chiuso chissà da quanto tempo, e tirare fuori degli oggetti della sorella, di quando era piccola, il che equivale a ritirare fuori dalla memoria dei pezzi di vissuto che aveva sepolto.

Rapporto madre-figlia
In termini drammaturgia il rapporto tra Camilla e la figlia costituisce il segmento narrativo sul quale il film costruisce la catarsi finale. Volevo chiederti se è così e ancora come si riesce a raggiungere un tale livello di intensità nelle interpretazione degli attori. Faccio riferimento al momento in cui Camilla rivela alla figlia i fantasmi che la tormentano. L’emotività dei personaggi è bruciante eppure riesce sempre a rimanere un passo indietro rispetto alle temperature del melo. Non è facile trovare un tale equilibrio.
Forse ci riesco perché non mi piace il melò (ride, ndr). In 3/19 c’è più di una scena in cui probabilmente se avessi aggiunto anche solo una nota di musica in più, facendola iniziare un pochino prima di dove avviene, sarebbe diventato troppo. Penso che il risultato finale sia anche dato dal modo di lavorare sulla recitazione degli attori, mantenendola sobria e senza eccessi. Agli interpreti chiedo sempre di essere veri, se vedo qualcosa di finto lo faccio subito notare. Riuscirci ti permette di restare al di qua del confine di cui parlavi.

Il lavoro di Silvio Soldini con gli interpreti
Sei un grande direttore di attori, specialmente di attrici. Intervieni molto su di loro oppure tendi a lasciarli fare?
Intervengo, certo, ma credo di lasciargli spazio! Diciamo che cerco di limitare il più possibile il campo d’azione. D’altronde anche quando si gioca a calcio ci deve essere un campo (ride, ndr) altrimenti si correrebbe per chilometri. Allo stesso modo anche gli attori hanno bisogno di avere un campo delimitato in cui agire e giocare – non per niente in inglese e francese non si dice recitare ma giocare, tenendo presente che esistono degli spazi visibili, come per esempio una stanza in cui si svolge la scena, ma anche interni, da limitare alla pari degli altri. Penso che questo non tolga libertà, ma la aggiunga. Ovviamente dipende anche da come si comunica con gli attori. Non sono un regista che sa sempre come vuole girare la scena, o come un attore deve dire una battuta. Per chiarirmi le idee a volte chiedo agli attori di fare qualche prova, e da lì parto per costruire la messa in scena. Di solito le faccio a inizio giornata e capisco con loro come muovere la scena e poi passo al decoupage, alla divisione in inquadrature. A meno che già non abbia deciso, magari anche con Matteo Cocco, di girare tutto macchina a spalla o comunque in piano sequenza. Io credo in un lavoro di reale collaborazione, anche se poi è chiaro che l’ultima decisione non può che spettare a me.

Nella scelta di attori e attrici entra in gioco il fatto che magari la loro personalità coincide con quella del personaggio? Te lo chiedo perché, per esempio, è quello che fa Gabriele Muccino affermando che talvolta questa caratteristica è da preferire alla bravura del singolo attore.
Credo non ci sia solo un modo di scegliere un attore. A volte può essere: per esempio nel caso del Bruno Ganz di Pane e Tulipani sapevo che con lui il personaggio avrebbe preso quella piega. Però, sempre per rimanere a quel film, per il personaggio di Rosalba la scelta di Licia Maglietta non è stata fatta per la sua somiglianza con il suo alter ego e così anche per Giuseppe Battiston. Con loro ho lavorato più sulla costruzione di un personaggio. Nelle commedie mi diverto molto a farlo perché si può in qualche modo esagerare, mentre nei film drammatici bisogna stare attenti altrimenti c’è il rischio di essere sopra le righe, di cadere nel ridicolo, di sottolineare troppo. A me piace molto partire da un attore, anche apparentemente lontano dal personaggio, e incominciare a lavorare sapendo che è inevitabile non portarsi dietro una parte della sua personalità. L’idea di utilizzare al 90% quello che lui è non mi entusiasma: mi piace di più creare insieme qualcos’altro. Il fatto che spesso al cinema si chieda agli attori di fare più o meno sempre la stessa parte è insopportabile.
Il cinema di riferimento
Il fatto di comparire sempre nei tuoi film – qui ti si scorge nell’ufficio del responsabile dell’obitorio – è un modo per comunicare la tua vicinanza ai personaggi?
Me l’hanno chiesto molte volte e questa spiegazione devo dire che non mi dispiace anche se devo dirti che è diventato una specie di gioco iniziato per necessità con L’aria serena dell’ovest, nel senso che siamo scesi nella metropolitana assieme all’aiuto regista, all’attrice e a Luca Bigazzi nascondendo la mdp in un borsone perché non avevamo il permesso di girare. Antonella Fattori, l’attrice che interpretava Irene, era seduta e ai due lati ci siamo messi io e Giorgio Garini, che era aiuto regista. Non potevamo certo portare anche delle comparse. È stata una sequenza rapinata. Dopo averla girata siamo usciti dalla metropolitana come niente fosse, cercando di non farci notare.
Per finire vorrei chiederti che cinema ti piace e magari il titolo di un film che hai visto e che hai gradito particolarmente?
Ti posso dire che l’ultimo è stato Ariaferma di Leonardo Di Costanzo che ho apprezzato molto. C’è un rigore che non rimane fine a se stesso. Il rigore a volte può diventare una cosa arida mentre lui riesce a mantenere viva l’anima della storia e questo è molto bello. In altri film italiani invece il rigore manca del tutto, succede che non si capisca neanche dove sia la presenza di un regista. Cosa che non succede con gli autori su cui mi sono formato e penso a Bresson, Ozu, Antonioni, Bergman che avevano un grande rigore e una grande capacità di raccontare per immagini, di comunicare senza bisogno delle parole. A questo proposito devo dire che i miei film sono diventati sempre più parlati. All’inizio i dialoghi erano molto sparuti mentre in questo si parla molto di più. Ma poi c’è il linguaggio filmico e dunque le inquadrature, i movimenti di macchina. Attraverso questo linguaggio per immagini si racconta e si comunica a un altro livello che con i dialoghi, e questo è il motivo per cui ho provato a fare questo mestiere. Tu prima citavi Matteo Cocco: con lui è il secondo film che facciamo insieme e la cosa bella durante la fase di preparazione è cercare lo stile del film: cosa deve fare la macchina da presa, come deve essere la luce e l’immagine, a che distanza dobbiamo essere, come dobbiamo guardare i personaggi. Per me inizia qua la parte più entusiasmante. Molti amano la scrittura e il montaggio mentre sperano che la parte delle riprese duri il meno possibile. Per me è il contrario, nel senso che, anche quando succedono cose infernali, anche se bisogna sempre andare di fretta e il tempo non basta mai, le riprese sono comunque un momento carico di energia creativa, dove, con qualsiasi idea, io amo rapportarmi agli attori. Non mi importa se a volte vi sono tensioni o litigi. Fa parte del gioco nella consapevolezza che un film è sempre il risultato di un lavoro collettivo.
Il film è anche su Sky Cinema
3/19 il film di Silvio Soldini
Kasia Smutniak protagonista per Soldini