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Editoriale

Memorie di famiglia: luglio in tre titoli

Un mese di luglio cinematograficamente molto intenso attraversa la Storia del Novecento, tra realtà e finzione, con tre racconti di famiglie agli antipodi tra loro.

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memorie di famiglia

Memorie di famiglia è il riassunto perfetto. Uno dei luoghi più rappresentati nel cinema, infatti, è senza dubbio quello del focolare domestico. Alla famiglia molto spesso è attribuito il ruolo di camera di compensazione dei rapporti sociali, come se avesse il potere taumaturgico di trasformarsi in una carta velina del tempo e della storia attraverso la quale saldare i propri ricordi con quelli della memoria collettiva. Il mese di luglio lascia in eredità un trittico di pellicole, estremamente eterogenee fra loro, che insiste nell’intorno di questo assioma indagando le dinamiche che ne forgiano relazioni e conflitti. Ognuna, saldamente ancorata al momento storico del racconto, opera nel solco di una singolarità artistica e di genere, restando fedele interprete della propria identità culturale.

Memorie di famiglia: Marx può aspettare

In Marx può aspettare la famiglia è quella del regista Marco Bellocchio, insignito della Palma d’Oro d’Onore al recentissimo Festival di Cannes. Protagonista assoluta della narrazione, con i fatti del Mondo che ne scolpiscono il profilo senza mai invaderne troppo il campo, la famiglia rappresentata da Bellocchio espone il proprio passato attraverso un documentario intervista che coinvolge tutte le sue componenti superstiti. La ricerca della verità diventa così una coraggiosa introspezione della memoria. Un estremo sforzo di sintesi per spiegare il senso di un episodio doloroso, il suicidio giovanile di Camillo, il fratello gemello di Marco che da tempo asserraglia gli animi. È una famiglia nella quale il conflitto, seppur solo accennato, frutto di sensibilità estremamente differenti, di un fratello con problemi psichici e di una madre pervasa da un senso religioso primordiale e per certi aspetti ossessivo, appare ormai metabolizzato negli sguardi vissuti dei fratelli e nella presenza dei loro figli. Un punto di vista che la macchina da presa traduce in un luogo d’osservazione nel quale i ritmi lenti accompagnano lo spettatore verso il maturare di una condizione umana ormai pronta ad accettarsi.

Qui per una clip in anteprima

Radiograph of a Family

Un’altra madre, quella dell’iraniana Firouzeh Khosrovani, prigioniera di una fede religiosa assoluta e intransigente, determina l’innesco di un racconto di famiglia imprescindibilmente legato agli eventi storici del proprio Paese. La rivoluzione khomeinista pervade l’intera narrazione di Radiograph of a Family, il lavoro della Khosrovani, vincitore del premio IDFA 2020 per il miglior documentario di lungometraggio, proiettato il 6 luglio scorso al ShortTS International Filmil Festival di Trieste e in contemporanea online su Mymovies. Un’opera nella quale la laicità, la religione, la tradizione, la scienza sono fattori che, con il passare del tempo, si trasformano in punti di confronto quasi insuperabili, casse di risonanza di tradizioni e retaggi sociali. Accade così che la vicenda familiare finisce per fondersi con quella politico-sociale divenendone parte integrante. Un viaggio nel quale i volti sono fotografie animate dall’eco del tempo e le testimonianze la riproduzione sonora delle trascrizioni dei dialoghi dei propri genitori. Radiograph of a family è una fiamma che brucia in un fondo di malinconia che è parte integrante di un progetto familiare voluto a tutti i costi e messo a dura prova dalle trasformazioni della Storia. Un documentario, fatto di molte immagini di repertorio, che esprime una sorta di laconica visione del Mondo a cui, tuttavia, le leggi dell’amore provano ad opporsi.

Black Widow

Un bagaglio di sentimenti discreti e mai urlati che, per contro, l’ultimo prodotto del Marvel Cinematic Universe riscrive pigiando il piede sull’acceleratore delle emozioni. La pellicola, Black Widow, diretta da Cate Shortland, interamente dedicata al personaggio della Vedova Nera/Natasha Romanoff, ancora una volta con il volto e le fattezze di Scarlett Johansson, si prende il gravoso compito d’intercettare il passato e ingabbiarlo nella ricostruzione di una vicenda familiare saldamente ancorata alle tumultuose vicissitudini della Guerra Fredda. Lo fa secondo i canoni classici della finzione e del genere cinematografico che incarna. L’enfasi, onnipresente, è il suo principale segno distintivo, il motore incontrastato della macchina da presa con le inquadrature di dettaglio e di primo piano che si adeguano e tratteggiano i sentimenti e le espressioni della protagonista e della sua famiglia. Il risultato di un artificio costruito dalle macchinazioni della Stanza Rossa, l’organizzazione espressione dei servizi segreti sovietici con a capo Dreykov, il malvagio di turno, che, tuttavia, a distanza di anni, conferma i propri indelebili legami affettivi. Un espediente narrativo che nella sua specificità, pur non lesinando i cliché tipici delle storie di supereroi, funziona mantenendo intatto lo spirito umanista del grande Stan Lee, il padre putativo della Marvel Comics.

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