Dal 27 maggio al cinema anche nelle sale italiane, Il futuro siamo noi di Gilles de Maistre è un documentario distribuito da Officine UBU.
Come già in Mia e il leone bianco, Gilles de Maistre racconta un’infanzia in lotta per il diritto di determinare la propria esistenza. Come suo stile, il regista francese lo fa con una semplicità che nulla toglie alla profondità del messaggio.

Il futuro siamo noi appartiene a una tradizione francese che, dalla filosofia alla pedagogia, fino ad arrivare al cinema, prende in considerazione l’infanzia e la giovinezza senza paternalismo e con l’attenzione che si deve all’età più importante dell’esistenza umana.
Sì, in Francia abbiamo questa tradizione legata al documentario emotivo, in cui, più che la testimonianza sulla realtà della vita, ad acquistare importanza sono le emozioni. Direi anzi che sono queste ultime a sostituire i fatti che di solito sono oggetto d’indagine del cinema documentario. E questa è un’altra caratteristica del nostro cinema.
In un contesto assolutamente realistico, ma non per questo meno cinematografico, i piccoli protagonisti de Il futuro siamo noi si ritrovano in una condizione di svantaggio a causa di una società che non fa niente per tutelare e difendere il loro diritto a essere bambini.
Sì, questo è un buon punto, perché il cuore del documentario è relativo all’educazione come diritto a cui devono accedere i bambini di tutto il mondo, cosa che in molti paesi non accade. Per tutti i bambini imparare a leggere, capire le parole dei testi, come pure avere il diritto di cambiare le cose sono questioni cruciali. Perché quando capisci il mondo puoi cercare di migliorarlo; così questa è la vera questione al centro del film. Il problema ecologico, l’inquinamento, il problema dei senzatetto, dei bambini di strada e del lavoro minorile sono tutti aspetti legati all’educazione. Quando vedi i bambini in Bolivia o in India, sai che l’unico sogno che hanno è avere il diritto di andare a scuola. Immaginiamo che i loro interessi siano rivolti al gioco e a stare con genitori ed è così, ma ancora di più in loro alberga il diritto di avere la possibilità di capire la realtà attraverso l’educazione, la cultura, il diritto di leggere, di pensare. Questa è la questione principale che affronta Il futuro siamo noi.

Sono d’accordo con te perché ogni cosa nasce dalle idee e la scuola è il luogo dove si impara a svilupparle e ad apprezzarne l’importanza.
È curioso dirlo, perché per molti bambini la scuola è un paradiso e quando vedi che in Africa le bambine sono costrette a sposarsi ancora piccole capisci che l’educazione è la loro unica protezione e che loro, come gli altri piccoli protagonisti, lottano per il diritto di andare a scuola: per il loro e per quello degli altri.
È una tendenza collettiva o l’atteggiamento cambia a seconda del paese in cui vivono José, Arthur, Aissatou, Heena, Peter, Kevin e Jocelyn, i protagonisti del tuo film?
Beh, certo. più i paesi sono poveri, più il problema si fa importante. In Francia e in Italia non abbiamo bambini di strada e per fortuna tutti riescono ad andare a scuola. Poi però il fatto di poterci andare e di vedere il mondo in maniera migliore gli regala la possibilità di fare qualcosa per migliorarlo. Non sempre succede: ad Arthur non basta vivere in Francia per poterlo fare. La sua fortuna è quella di avere genitori che lo stanno ad ascoltare. Di fronte alla sua idea di cercare soldi per aiutare i senzatetto che vivono nella sua città, questi non gli rispondono negativamente. Di fronte a un’idea del genere il novantasei per cento dei genitori avrebbero detto no. Arthur invece ha dei genitori che lo aiutano a raggiungere il suo obiettivo. Nei paesi occidentali i genitori intercettano la forza dei bambini e consentono loro di fare qualcosa per la comunità e per le persone che ci vivono. Nei paesi poveri succede il contrario, con i più piccoli costretti a lottare da soli. Più i paesi sono poveri e meno i genitori hanno un’educazione: molti di loro non sanno né scrivere né leggere, tanto che i bambini diventano i genitori dei loro genitori. Lo puoi vedere nella storia di Heena, in India, in cui è lei a leggere per conto dei suoi famigliari.
Lo dice il titolo del tuo film e cioè che i bambini sono costretti a smettere di essere tali per diventare adulti e occuparsi del loro futuro. In questo senso Il futuro siamo noi è un film di denuncia a cominciare dal titolo. L’utopia è infatti ciò che dovrebbe essere e cioè un mondo dove i bambini possono essere finalmente bambini.
Il titolo mette in circolo il dibattito su cosa significa essere bambini. Perché penso che una delle necessità delle società odierna è che i bambini debbano avere il diritto di lottare per quello in cui credono, senza essere un prolungamento dei desideri dei loro genitori. Talvolta questi ultimi pensano che i figli siano – e dico una parola forte – un loro oggetto: vogliano che diventano dottori, che riescano a fare qualcosa nella loro vita che corrisponde ai desideri di chi li ha messi al mondo, mentre l’educazione si occupa solo del bene dei bambini. Oltre a quello che ci immaginiamo e che sappiamo della vita dei bambini, c’è il loro diritto di dire ciò che pensano. E se è vero che tante volte discutono di cose stupide, alcune volte si fanno promotori di buone idee senza che i genitori le stiano a sentire. Anche i bambini hanno il diritto di esistere, di crescere con i loro errori, ma anche con le loro buone idee.
Di fronte al contesto molto problematico in cui vivono i piccoli protagonisti, sfruttati, non difesi e privati dei loro diritti, Il futuro siamo noi sceglie di privilegiare il lato propositivo e positivo della questione, evitando di soffermarsi troppo sulle cose che non vanno, concentrandosi invece su come si possa fare per migliorare le cose. Di solito, a fare notizia, anche nel cinema, sono i drammi e le cattive notizie. Nel tuo film succede il contrario.
Ho sei bambini e sono molto fortunato perché sento di avere ricevuto dalla vita un grande dono. Film come questo, come pure Mia e il leone bianco – che avete visto anche in Italia – sono finestre aperte sul mondo. Le mie storie le racconto innanzitutto ai miei figli e poi anche agli spettatori, per far capire che non bisogna avere paura perché c’è sempre una soluzione e chiunque può fare qualcosa per cambiare il mondo. Anche i piccoli gesti hanno un grande potere. Aiutare le persone che ti stanno accanto è una delle soluzioni ed è quello che ci chiedono questi bambini. Vedere gli aspetti positivi della vita per me è l’unica cosa che posso insegnare ai miei figli. L’esempio sono i bambini di strada della Bolivia: nonostante le gravi condizioni di vita, cercano sempre di vedere la parte positiva della questione. Il messaggio importante del film è che non sono solo i presidenti, i primi ministri o i dittatori i soli a decidere le cose del mondo. Ciascuno può dare il proprio contributo, anche se è piccolo. La moltiplicazione degli atti positivi è la premessa per migliorare il mondo. Quando ho di fronte un bambino e decido di filmarlo, cerco di vedere come si comporta in quella situazione, ciò che riesce a dare, quale sono le sue azioni e il credo utile a cambiare lo stato delle cose.

La sfida era di riuscire a mantenere la complessità del discorso in un film che, come detto, voleva essere non solo positivo ma anche semplice e diretto dal punto di vista narrativo, proprio perché i tuoi protagonisti vogliono arrivare al cuore di chi li guarda attraverso il film.
Penso che sia il mio modo di esprimermi, considerando che i miei ultimi film si rivolgono all’istituzione famigliare. Non voglio lanciare grandi messaggi, non voglio essere dogmatico e cioè fare lezioni morali alle persone. La semplicità della vita e delle persone che racconto attraverso commedie, avventure e documentari, ha lo scopo di far arrivare agli spettatori un punto di vista sull’esistenza. La mia sfida è sempre quella di di avere una maniera semplice per tramettere concetti importanti attraverso qualcosa di molto leggero. Il mio prossimo film è di finzione: è una commedia sul traffico degli animali nella foresta amazzonica, attraverso cui voglio parlare di una serie di concetti molto complicati, restituendoli attraverso la commedia. Così da far sentire le persone coinvolte in questo problema senza metterle nella condizione di sentirsi in colpa.

Come altri film, anche Il futuro siamo noi parte da una sceneggiatura scritta da tua moglie, Prune De Maistre. Trattandosi di un documentario e considerando il tuo modo di girare, penso che si tratti di un testo non troppo strutturato, ma aperto alle sorprese della vita.
Partiamo da una piccola sceneggiatura, sufficiente per far capire ai nostri finanziatori cosa vogliamo fare. Dopo succede che la vita è più forte di quelle pagine. (ride, ndr). Se tu vedessi quelle del film che sto scrivendo, troveresti idee, prospettive, punti di vista, ma non una storia completa. Questo per dirti che non ho diretto i bambini per metterli in una situazione che avevo in mente, ma ho voluto porli nella condizione ideale per potersi esprimere.
Mi ha colpito la scelta dei colori: pur trattandosi di un documentario, quelli del film sono pieni e vivaci e secondo me rispecchiano sul piano visivo la dimensione e il punto di vista di chi racconta la storia e cioè dei bambini. È così?
Hai del tutto ragione. Come ho già detto, Il futuro siamo noi è un film che vuole arrivare prima di tutto alle famiglie e ai loro bambini, e quindi per me doveva attrarre innanzitutto dal punto di vista dei colori, delle immagini, del racconto, per poter catturare l’attenzione dei più piccoli, più abituati a vedere cartoon, serie televisive e non documentari. Dunque, sì, devi usare gli strumenti più adatti a coinvolgere il maggior numero di persone.
