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Biennale del Cinema di Venezia

‘Happy Holidays’, intervista a Scandar Copti

Ciò che più conta per il regista palestinese Scandar Copti è il materiale umano. È ciò che emerge dal suo ultimo film 'Happy Holidays', vincitore del premio miglior sceneggiatura a Venezia 81 nella sezione Orizzonti, un film ad oggi più necessario che mai. Abbiamo avuto l'opportunità di scambiare qualche riflessione sul lungometraggio in concorso, e non solo.

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Il suo film di esordio, Ajami, viene accolto talmente bene dalla critica e dai festival, tanto da guadagnarsi una nomination agli Oscar nel 2010 come miglior film straniero. Mentre a Venezia 81, il regista palestinese Scandar Copti ha ricevuto il premio come miglior sceneggiatura nella sezione Orizzonti con Happy Holidays. Abbiamo avuto l’occasione di conversare insieme a lui, non solo riguardo ai due lungometraggi ed il loro processo di creazione, ma anche sul mondo che attualmente ci circonda.

Happy Holidays è una co produzione di Fresco Films , Red Balloon Film , Tessalit Productions , Intramovies. Nel cast principale: Manar Shehab, Wafaa Aoun, Meirav Memoresky, Toufic Danial.

Leggi qui la nostra recensione di Ajami!

 

Da Ajami a Happy Holidays

Vorrei iniziare con una prospettiva, un percorso che parte da Ajami e termina con Happy Holidays. Nel tuo film d’esordio, candidato agli Oscar nel 2010

come miglior film straniero, la narrazione è ricca di azione, estremamente intensa. In Happy Holidays c’è un totale capovolgimento: è più introspettivo, riflessivo, nonostante il tema centrale in entrambi i film sia similare. Cosa ti ha portato a questa scelta registicamente, a voler affrontare questo racconto diversamente? Hai sentito delle differenze tra i due lungometraggi durante la loro creazione?

Sono passati 15 anni da Ajami e, in quel periodo, ero in uno stato mentale diverso. Ero molto influenzato da alcuni elementi del cinema che ammiravo, e volevo creare qualcosa che li richiamasse. Crescendo e maturando, però, mi sento di dire che inizi ad essere ispirato anche dalle cose che detesti. Non fraintendermi: non penso che Ajami fosse intrattenimento o una visione più leggera. L’obiettivo, per me, è sempre stato quello di avere un impatto sulla società e sulle comunità a cui tengo. Questo approccio non è cambiato in Happy Holidays, dove tutto è nato da un fastidio, qualcosa che mi disturbava profondamente. Che si trattasse di un crimine in Ajami o di oppressione interiorizzata e scelte morali sbagliate in Happy Holidays, il processo è stato simile: partire da quel disagio e svilupparlo in un tema potente.

Il tema centrale in Happy Holidays è questo: credo fermamente che nessuno possa essere veramente libero finché tutti non lo saranno, compresi coloro che si trovano all’ultimo gradino di una lunga catena di oppressione. In questo caso, mi riferisco in particolare alle donne, che purtroppo occupano quella posizione. Sono oppresse molte, troppe volte: le donne palestinesi perché sono palestinesi, ma che siano in Cisgiordania o all’interno di Israele non cambia: sono oppresse perché sono donne. Così, ho iniziato a trarre ispirazione dalle storie reali che mi venivano raccontate e che io stesso avevo vissuto. Volevo svilupparle in una narrazione che non incolpasse né vittimizzasse i personaggi, ma che creasse empatia verso le loro difficoltà. Preferivo che lo spettatore comprendesse i meccanismi interiori che portano le persone a danneggiare sé stesse e gli altri. Da questi ragionamenti sono emersi i temi che ho scelto di trattare: l’oppressione e il controllo sul corpo femminile.

Il focus sul materiale umano

Ho trovato estremamente potente la tua decisione di ritrarre la mentalità patriarcale nelle scelte quotidiane delle donne, come nelle decisioni di Miri o nel comportamento di Hanan, per esempio. E come hai detto, nessuno è veramente libero finché le donne e tutti non sono liberi. Infatti, ad un certo punto il focus è sull’individuo: come vediamo sul finale con Walid, pentito e confuso, che lotta per riconciliare i suoi sentimenti con questa gabbia sociopolitica in cui è stato intrappolato per tutta la vita.

Sì, penso che tutto abbia a che fare con il modo in cui siamo progettati per prendere decisioni. In profondità, dentro di noi, la nostra intuizione sa cosa è giusto e cosa è sbagliato. Tuttavia, molte persone agiscono come pedine in una partita a scacchi, regolate da un sistema rigido di ricompensa e punizione. Se fai ciò che ti si richiede, vieni ricompensato, sei considerato una brava persona. Ma se non lo fai, vieni punito.

Ad un certo punto, però, arrivi a un limite, a un conflitto interiore, lo stesso che Walid vive nel film, e spero che anche lo spettatore possa sentirlo. Si crea una dissonanza tra ciò che ti è stato insegnato e ciò che senti essere la scelta giusta, una forza che ti trascina inevitabilmente. Walid dice: “sono combattuto tra quello che mi dice il cervello” – e con cervello intende la società, la costruzione della realtà, l’indottrinamento, le tradizioni – “e il mio cuore”, che rappresenta l’individuo. Questa è la tensione centrale del film: il conflitto tra l’individuo e il gruppo, che offre un amore condizionato verso l’individuo.

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Still from Happy Holidays, by Scandar Copti.

L’onore come contratto sociale

Il tuo film mette in risalto anche la conseguenza del cosiddetto onore familiare. Sembra costruito come un grande contratto sociale, che parte dai valori patriarcali, ancorandosi allo status sociale ed il settore politico di un paese intero. 

Sì, esatto. L’onore appare come una sorta di rivestimento sottile, una membrana che gli uomini indossano, ma dentro c’è molto di più. La questione del perché le persone si comportano come si comportano è qualcosa che mi affascina ancora profondamente e a volte mi lascia senza parole. Mi faccio inevitabilmente delle domande, come: perché 400 anni di schiavitù? Chi erano quelle persone, durante quei 400 anni, che schiavizzavano altre persone solo perché appartenevano a culture diverse? E mi dico che dovevano essere padri, madri, che si preoccupavano quando i loro figli erano malati o tornavano a casa in ritardo, quindi con segni di umanità. Essenzialmente, persone che potremmo considerare buone. Allora, cosa li spingeva? La forza che li muoveva era la convinzione, al 100%, di fare la cosa giusta. Noi esseri umani, come animali sociali, abbiamo bisogno di appartenere a un gruppo più grande che condivida con noi moralità e valori. La moralità ci unisce, ma in casi come questi, ciò che fa è accecarci verso altre forme di moralità e verso la sofferenza altrui.

Una questione storica

Legandomi a questo, mi ha davvero colpito un tema che hai messo in  evidenza molte volte in Happy Holidays: l’indottrinamento militare fin dalla giovane età, oltre che lo scontro tra ideologie del passato e del futuro. Una scena in particolare l’ho trovata agghiacciante, quella nell’asilo…come Fifi, ci troviamo paralizzati di fronte a essa, privi d’aria. Si percepisce costantemente un forte senso di alienazione, che riflette il turbamento psicologico dei personaggi.

È spaventoso vedere come alcune persone credano che unirsi all’esercito, combattere, presidiare i posti di blocco e opprimere gli altri sia la cosa giusta da fare. Non c’è altra spiegazione per questo comportamento. Se mostri tutto ciò in un film, speri che il pubblico si senta alienato e, soprattutto, che quelle persone che altrimenti non rifletterebbero su questa realtà comincino a rendersi conto di cosa stanno attraversando senza esserne pienamente consapevoli. Le festività come il Purim, ad esempio, celebrano la salvezza degli ebrei grazie a Mordecheo e alla regina Ester, che sconfissero il piano di sterminio di un re persiano.

Analogamente, il racconto dell’uscita dall’Egitto guidata da Mosè per sfuggire all’oppressione dei faraoni contribuisce a un concetto malsano di continua necessità di sopravvivere. Questo ciclo di celebrazione di vittorie su oppressori si estende fino all’Olocausto e alla sua politicizzazione. Ne risulta una razionalizzazione di eventi tragici come la Nakba del 1948, quando 750.000 palestinesi furono espulsi dalle loro case. E devi mantenere e sostenere tutto ciò, in un modo o nell’altro.

Documentare la realtà

Questa spiegazione storica mi riporta ancora a quelle sequenze: come in tante altre, non sempre riusciamo a distinguere quando finisce la realtà ed inizia la finzione, talmente siamo immersi con i personaggi e le loro emozioni. Non si tratta solo della narrazione ma anche delle tecniche di ripresa che hai adoperato. Lo stato di tensione è alto e continuo.

Ho pensato che il modo migliore per realizzare questo progetto fosse farlo in stile documentario. Chi mi conosce sa come lavoro: nel cast non c’erano attori o attrici, ma persone reali. Walid è un vero dottore, Miri è una vera infermiera, e Fifi era una vera studentessa. Per quanto riguarda quella scena, è capitato che ho inserito Manar (Fifi) in questa scuola. Abbiamo semplicemente chiesto alla classe di parlare della loro cultura o di cosa avrebbero scritto nelle lettere ai soldati, e ho ripreso tutto senza uno script. Quello che è successo non era stato pianificato: nessuno aveva un copione, gli attori non sapevano cosa stesse per accadere. Era tutto basato su scelte improvvisate tra me e i due direttori della fotografia. La reazione che abbiamo catturato è stata autentica: si è bloccata quando l’insegnante le ha chiesto di aiutare un bambino, e alla sua richiesta, lei è rimasta congelata, così come noi. La prima reazione è stata: “Ma che diavolo sta succedendo? Come siamo arrivati a questo punto?”

Il confine tra finzione e realtà nel cinema di Scandar Copti

Quindi non c’era un copione, il personaggio di Fifi e tutto il resto, era un susseguirsi di reazioni autentiche?

Sì, ed è non solo il mio modo di lavorare, ma anche il concetto che lo guida. Gli attori che scelgo non sono professionisti, li seleziono in base alla loro vera professione, quindi l’avvocato è un vero avvocato, l’agente immobiliare è un vero agente immobiliare, e così via. Dopo la selezione, procedo con dei workshop: ad esempio, tra 30 medici ho scelto Raed, che interpreta Walid. Una volta fatto il casting, cominciamo a lavorare sulle relazioni tra i personaggi, attraverso il gioco di ruolo, molto prima delle riprese. È tutto basato sull’improvvisazione, partendo da piccole cose, come cucinare o mangiare insieme, per poi inserire conflitti che userò più avanti nelle scene. In questo modo si creano relazioni autentiche, storie e vissuti passati emergono naturalmente.

Poi giriamo il film in ordine cronologico, senza blocchi, senza luci, senza chiamare azione o fare tagli. Gli attori vivono davvero ciò che attraversano i loro personaggi. È quello che in psicologia si chiama “il paradosso della finzione”: la nostra capacità di reagire con emozioni reali a una situazione fittizia. Succede anche quando guardiamo un film e piangiamo, pur sapendo che è tutto falso. Per gli attori è la stessa cosa: i loro corpi reagiscono come se la scena fosse reale. È un processo molto intenso, anche perché non giriamo in base alle location, ma seguendo la cronologia delle scene. È un intero corso che insegno anche alla NYU.

Still from Happy Holidays, by Scandar Copti.

Potremmo definirla una tecnica cinematografica contemporanea? Qualcosa del genere, ma so che non ami queste formalità…

No, no, non lo sono. Non sono un regista con una carriera tradizionale, non faccio le cose per la loro forma visiva o per sembrare “cool” o altro. Quello che mi interessa davvero sono gli esseri umani. Credo di avere una visione molto diversa di come affrontare le cose e voglio permettere agli altri di partecipare in qualche modo. Non penso di avere, almeno per quanto mi riguarda, il diritto di scrivere dialoghi per 10 personaggi. Credo che debbano essere loro stessi a portare la loro vita in scena. Come potrei scrivere un dialogo per Fifi, per una donna che ha vissuto la sua vita in un certo modo? Non posso scrivere un dialogo per un medico, un’infermiera o un israeliano, preferisco che siano loro a portare se stessi davanti alla macchina da presa.

Successivamente monto il mio lavoro, ed è proprio in fase di montaggio che sento la tensione di cui abbiamo parlato. Sto lavorando con il materiale umano degli altri o con il mio ego, cercando di essere un regista che ha qualcosa da dire? Alla fine, scelgo sempre di lavorare con gli esseri umani, e a volte i tagli non sono esteticamente perfetti, sono spesso grezzi, ma mi ispiro ai documentari, e funzionano.

Il significato dietro Happy Holidays

Funzionano davvero bene, accanto a questo intreccio di storie così complesso: sono tutte racchiuse all’interno dei due avvenimenti che vediamo all’inizio e alla fine, come una sorta di chiusa poetica. Parliamo delle due festività commemorative ebraico-israeliane che hai nominato precedentemente: il Purim e lo Yom HaZikaron. Entrambe coinvolgono direttamente Fifi, ma impattano tutti i personaggi. Lei sembra assumere un ruolo salvifico, creando anche un punto di rottura tra passato e futuro. Come è stato per te montare questi passaggi, queste sequenze? Qual è il loro significato?

L’ultima scena era già stata prevista nel copione perché il titolo Happy Holidays ha un significato preciso. In inglese ha una connotazione ironica, legata alla festività che termina con un conflitto. In arabo, invece, la traduzione letterale è “possa questo ripetersi per te“, che assume una sfumatura diversa: quando lo dici a qualcuno per un compleanno o una festa, significa “che tu possa avere tanti altri giorni felici“. Ho scelto di inserirlo in un contesto dove la storia si ripete per lo spettatore, ma questa volta attraverso lo sguardo di Fifi, circa a metà del film. La scena finale, per me, riprende il tema iniziale: nessuno è veramente libero finché tutti non lo sono da ogni forma di oppressione. Fifi si allontana non solo dal patriarcato, ma anche dall’oppressione politica.

Il giorno della memoria, per esempio, è un’imposizione su tutti, inclusi i palestinesi che, come la mia famiglia (composta al 90% da rifugiati), hanno perso tanto. Sono costretti a restare fermi commemorando un evento che non li riguarda, che non fa parte della loro cultura, ma che diventa un dovere sociale e morale. Un po’ come ciò che accade alla figlia di Miri a scuola, che rappresenta un microcosmo di questa dinamica. Rifiutare certe tradizioni può influenzare i rapporti con gli altri, come quando non ti fermi al suono della sirena. Fifi, camminando tra le persone immobili, simboleggia il suo distacco da entrambe queste forme di oppressione, mentre il protagonista maschile resta fermo. Quindi l’uomo che sta opprimendo l’altro è a sua volta oppresso e ha bisogno di liberarsi.

Una finestra sul futuro

E come in Ajami, anche qui parli di questo tema: il film mette in luce i fallimenti di un sistema che apparentemente mira a garantire la convivenza di più culture, ma fallisce indicibilmente. Questo fallimento non deriva solo dello stato, ma anche dei cittadini che interiorizzano valori completamente distorti, come hai sottolineato nel film. Tuttavia, un barlume di speranza lo vedi nella nuova generazione. Cosa speri per il futuro, anche in questa drammatica situazione che il mondo sta vivendo oggi?

La speranza, per me, è diventata ormai una sensazione molto fragile: è quella cosa che provi dentro, che tenta di riempire la tua mente di positività. Ma poi guardi il telefono, vedi tutti gli streaming su ciò che accade a Gaza, e inevitabilmente la perdi. Sentiamo di essere stati abbandonati da chi affermava di avere buoni valori, e credo che stiamo vivendo una profonda crisi morale. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di una leadership morale, basata sulla moralità e su nient’altro. Purtroppo, questa leadership manca. Spero che la nuova generazione, con il potere che ha, sia attraverso i social media o la propria voce, trovi il coraggio di reclamare ciò che merita. Gli studenti e tutte queste persone che lottano mi danno molta speranza. Quindi, sai, mi trovo sospeso tra la speranza e la disperazione.

Lo sguardo del mondo sulla civiltà

Hai ottenuto un successo straordinario con il tuo film d’esordio a tanti festival internazionali, mettendo in luce già da tempo non solo una situazione che fa parte della tua cultura, ma che ci porta a riflettere su tanti aspetti della nostra civiltà contemporanea. Cosa significa per te essere qui alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia, con Happy Holidays?

Penso di essere molto, molto grato a Venezia81 per questa occasione. In particolare perché hanno sostenuto il film l’anno scorso con l’11ª edizione di Final Cut in Venice, il che è stato di grande aiuto per il nostro progetto e ci ha permesso di terminarlo. E penso che, in questi tempi terribili, più che mai, darci spazio in questa piattaforma internazionale per provare la nostra esistenza, sia tutto. Ci permette di scrivere le nostre narrazioni e raccontare le nostre storie al mondo. Sono molto grato di essere qui, ma sai, date le circostanze, siamo qui anche con il cuore pesante, è un sentimento misto. Non so ancora come definirlo.

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Happy Holidays

  • Anno: 2024
  • Durata: 124 min
  • Distribuzione: Fandango S.p.A., Indie Sales - Nicolas Eschbach
  • Genere: Drammatico,
  • Regia: Scandar Copti
  • Data di uscita: 05-September-2024