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Approfondimenti

Da DIVORZIO ALL’ITALIANA a STORIA DI UN MATRIMONIO: Breve filmografia sul tema della  coppia e delle separazioni

Dopo cinquant’anni dalla legge sul divorzio, almeno in Italia, il cinema continua a raccontarci le crisi di coppia, che appassionano gli spettatori perché toccano corde molto intime di ciascuno. Le scene da un matrimonio cambiano e restano le stesse.

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Sono passati cinquant’anni dalla legge italiana sul divorzio del dicembre 1970, confermata dal referendum del 1974. Quasi sessanta da Divorzio all’italiana di Pietro Germi, premio Oscar nel 1963. E noi, quelli di allora, più non siamo gli stessi, come diceva Pablo Neruda nel 1924. Una verità valida sempre, ora come allora.

Divorzio all’italiana di Germi (1961): un documento storico

Si fatica a immaginare un’Italia senza divorzio, un com’eravamo condivisibile soltanto tra chi oggi ha almeno gli stessi anni del film di Germi. Il protagonista, il decadente e decaduto barone Fefè Cefalù (Marcello Mastroianni), innamorato della giovanissima cugina Angela (Stefania Sandrelli), vuole liberarsi della sposa molesta e pensa di rifugiarsi nel  delitto d’onore. Giustificato dalla legge 587, quella del codice Rocco (fascista), abolita, addirittura, solo nel 1981!

Germi gira Divorzio all’italiana, vero e proprio documento storico, in Sicilia, nei luoghi che oggi sono di Montalbano. Separa gli uomini dalle donne mentre ballano tra loro nella sezione del PC. Fa dire al prete di votare per il partito che si vuole, purché sia democratico e cristiano. Le mogli fedifraghe sono puttane e i mariti traditi cornuti. In questo paese inventato che porta il nome di Agromonte, di “diciottomila abitanti, quattromila e trecento analfabeti, mille e settecento disoccupati tra fissi e fluttuanti, ventiquattro chiese”.

La notte di Antonioni: coppia in crisi esistenziale (1961)

Siamo agli inizi  degli anni Sessanta, quelli di Rocco e i suoi fratelli, di miseria, emigrazione, di un paese che stenta a decollare. Ma al suo interno già pieno di contraddizioni. Mentre Germi usa la commedia, al Sud, per farci pensare alle difficoltà dell’essere italiani, sorridendone, Antonioni gira La notte a Milano, con Mastroianni e Jeanne Moreau.

Giovanni e Lidia formano una  coppia borghese stanca, estenuata. Lui: scrittore di successo. Lei, moglie  che si annoia, e girovaga in una città oggi irriconoscibile,  con tutti i segni della metropoli che diventerà. Grandi spazi, nei quali la figura umana vista dall’alto è ancora più piccola, più sola, nella crisi esistenziale di cui  Antonioni si farà portavoce.

Dopo una festa in cui tutti hanno l’aria di spassarsela e Lidia se ne sta tutta sola, e dopo aver provato entrambi attrazione verso altri (lui per un’enigmatica Monica Vitti),  i due si ritrovano insieme. È l’alba. Lidia comincia a parlare della loro relazione fino a confessare di non amarlo più.  “Di’ anche tu che non mi ami”, “Non lo dirò mai!”. La macchina da presa si allontana proprio mentre Giovanni tenta disperatamente di possedere Lidia.  Un pudore che non vuole affrontare lo sconforto del legame ormai spento, fino a quel momento inascoltato, nascosto come polvere sotto il tappeto.

Contraddizioni dell’Italia viste attraverso la commedia

La polvere sotto il tappeto ricorda una scena della commedia di Luciano Salce,  Ti ho sposato per allegria (1967) con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi. Qui la coppia, dopo un matrimonio lampo, risolve i problemi più agevolmente con  un divorzio all’estero. Sono anni in cui si vogliono smascherare ostinatamente le ipocrisie borghesi (tornerà l’immagine della polvere sotto il tappeto), le assurde incoerenze, e Natalia Ginzburg, autrice del testo teatrale (1964), nel farlo, sa usare tutta la sua ironia

La ragazza con la pistola di Monicelli (del 1968, due anni appena prima della legge sul divorzio)  riassume ancora di più le contraddizioni degli anni Sessanta. Siamo ai tempi del matrimonio riparatore, che verrà abolito tardivamente insieme al delitto d’onore.

Ma Assunta (ancora una splendida Monica Vitti), parte per Londra dalla Sicilia per difendere il suo di onore, e si emancipa poi in maniera inaspettata, in un contrasto di visioni del mondo che si fa oltre modo divertente.

Dagli anni Sessanta ai Settanta

L’Italia sta ormai facendo passi da gigante verso il progresso e una mentalità aperta, inimmaginabile solo un decennio prima. Le assemblee giovanili e di fabbrica, il femminismo, l’autocoscienza, la psicanalisi diffusa tra la piccola borghesia, le relazioni sentimentali esaminate al microscopio, la comunicazione svelata nei suoi dettagli. La legge del ‘70 e il referendum del ’74 (e il nuovo diritto di famiglia del ’75) sono maturati in questa cultura e l’hanno a loro volta rafforzata.  Nel ’71 viene pubblicato in Italia La  Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick (del 1967), che studia come le patologie derivino dagli errori interrelazionali ripetuti.

I legami sono sviscerati in tutte le sfumature, nei nuovi concetti di interazione simmetrica e complementare.  Ci si interroga sui ruoli tra uomo e donna nella coppia, e per la prima volta si leggono  come rapporti di potere.  Basti pensare a  Le lacrime amare di Petra von Kant di Fassbinder (1972) in cui la protagonista, da persecutrice diventa vittima, annullata da una donna più giovane che l’abbandona (si affronta anche l’omosessualità, senza reticenze, finalmente!).

Scene da un matrimonio di Bergman (1973)

Scene da un matrimonio di Bergman(1973), altra versione della serie televisiva in sei puntate, da lui diretta, è sicuramente il film più emblematico del decennio.

Marianne (Liv Ullmann) e Johan (Erland Josephson) sono sposati da dieci anni e apparentemente felici. Parlano molto. Lei, soprattutto, sembra gioire un po’ troppo nell’insistere sulla riuscita del loro matrimonio. Avvocato divorzista, si riferisce ad altre coppie quasi con commiserazione: “Sembra che marito e moglie parlino lingue diverse,  in interurbana con apparecchi guasti, o stiano in silenzio come gli spazi tra un pianeta e l’altro. Non so cosa sia la cosa più  tragica”.

Nel rispecchiamento di questa finta sintonia, Johan le risponde: “Noi siamo l’eccezione che conferma la regola”, salvo urlarle tempo dopo che non avrebbero dovuto discutere troppo e che sono morti   “per mancanza di ossigeno”.

Quando Johan confessa all’improvviso di essere innamorato di un’altra donna (e che l’indomani partirà con lei), Marianne gli chiede di fare l’amore l’ultima notte e, orrore, se  può aiutarlo a preparare la valigia. È sconvolta, azzerata ogni energia. Dovrà passare molto tempo perché si riprenda dal trauma del distacco.

Verso la fine del film la situazione sembra ribaltata. Johan è un uomo distrutto dalla solitudine all’interno della nuova coppia che non ha funzionato. Marianne è più vitale. A quel punto, emerge tutto il non detto degli anni trascorsi ad affinare l’Arte di nascondere la polvere sotto il tappeto, che è, appunto, il  titolo del secondo episodio della serie Scene da un matrimonio. Un’immagine che, come dicevamo, torna nel cinema (e nella realtà) come  metafora di future separazioni. Eppure, Marianne e Johan parlavano fino a risultare addirittura stucchevoli. Il loro fluire di parole li rassicurava, mentre ciascuno nascondeva il proprio sentire più autentico sotto il tappeto della quotidianità per niente autentica.

Sembra che Bergman abbia voluto dirci quanto l’istituzione del matrimonio sia destinata al fallimento. Visto che i due, alla fine, trovano un’ intesa, e una vera complicità, solo nel ruolo di amanti. La conclusione del film racconta più di tutte quelle parole: il matrimonio non li ha uniti per sempre e  il divorzio non è riuscito a separarli definitivamente.

Scene di un matrimonio di Lavia e Guerritore (1999)

Venticinque anni dopo Bergman, e il successo mondiale di Scene da un matrimonio,  Gabriele Lavia e Monica Guerritore riportano in scena lo stesso identico testo, a teatro e al cinema. Vengono sottratte alcune parti, come quella iniziale in cui Marianne e Johan si presentano, e se ne aggiungono alcune: per esempio, la lunga scena in cui lei gli comunica di aspettare un bambino e lui ci sta male. Per lo più, tutto è identico all’originale, persino nei nomi dei protagonisti, perché anche qui siamo in Svezia, dove il divorzio è presente dal 1915.

Bravissimo Gabriele Lavia a rendersi così insopportabile!  Com’è plateale nella scena lunghissima in cui decide di lasciare Marianne! E quel ripetuto amore mio, che non sospende neanche quando le chiede di disdire l’appuntamento con il dentista; lui non può, poverino, deve andar via con l’amante!

Nel personaggio di Joahn, Lavia sembra riassumere le nevrosi maschili e femminili insieme. Se i personaggi di Bergman sono ancora alla ricerca della complementarità di genere (nelle loro evidenti differenze, più intuitiva lei, più razionale, lui), Lavia e Guerritore sembrano vivere la completa confusione dei ruoli, quella che forse non è ancora del tutto risolta, oggi.

In Bergman, uomo e donna confessano di non sapere chi sono. Mi conosco poco anche se ho letto molti libri, dice Johan, e Marianne scrive un po’ le stesse cose nel suo diario (storica la scena di lei che glielo legge e lui che si addormenta!).  Di non essere mai andata a fondo nella conoscenza di sé, ma per compiacere gli altri, non per negligenza come Johan. Bergam sembra riflettere di più  sulle diversità che non si completano, ma si affrontano. Sui temi di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, che uscirà nel 2008, ed eravamo nel 1973!

Con quale disprezzo il Johan  di Gabriele Lavia parla di Casa di bambola che hanno appena visto a teatro, e delle femministe, che scimmiotta senza rendersi conto di quanto appaia isterico, della crisi rabbiosa di fronte all’ascensore guasto! Confusione tra maschile e femminile, ma possiamo dire un’eccessiva femminilizzazione dell’uomo, problema non da poco nelle coppie e nelle famiglie. Che forse inizia da prima, e il cinema lo coglie nei personaggi di Mastroianni, come scrive Luca Bove: il bell’Antonio di Bolognini e Ferdinando Cefalù di Germi.

La guerra tra i  generi si fa più dura

Il decennio dei Settanta si conclude, nel 1979, con Kramer contro Kramer  di Robert Benton (con Dustin Hoffman e Meryl Streep). Un film in cui i ruoli di marito e moglie si scontrano sulla genitorialità, e vedono l’uomo, più debole nella battaglia, ricoprire il ruolo materno con successo. Alla fine degli anni Ottanta, invece (1989) La guerra dei Roses di Danny De Vito, che tutti ricordiamo come la narrazione divertente e amara di come ci si possa odiare, nel matrimonio, fino a morirne.

Storia di un matrimonio di Noah Baumbach (2019)

La filmografia sulle crisi di coppia, con la separazione o meno, è sterminata  e sempre uguale l’interesse del pubblico, perché tocca corde molto intime di ciascuno. Trent’anni dopo La guerra dei Roses siamo ancora qui, a farci del male, nel bel film Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, uscito l’anno scorso su Netlix.

Vediamo Nicole e Charlie (Scarlett Johansson e Adam Driver) in terapia, ma per poco. Lei fa l’attrice e accetta un lavoro a Los Angeles, portando con sé il figlio. Lui (regista teatrale)  rimane a New York. Dalla loro separazione fisica alla richiesta di divorzio da parte di Nicole passa poco tempo. La verità sul suo vissuto viene detta fino in fondo nell’ufficio dell’avvocato, una donna, che le si rivolge come amica in un set quasi terapeutico.

Nicole racconta di come si sia sentita messa da parte, inascoltata, vivendo solo in funzione di Charlie, molto più affermato di lei nel lavoro. Se le nostre simpatie vanno subito a Nicole, si sposteranno presto su Charlie quando lo vedremo in difficoltà nel conciliare gli impegni con la permanenza a Los Angeles per seguire la causa di divorzio. Poi a entrambi, perché sono affettuosi fuori dal tribunale, dove invece si affidano agli avvocati che senza scrupoli usano colpi bassissimi. Alla fine, ci si commuove davanti all’ultimo frammento del film, che vede Nicole in un gesto confidenziale nei confronti del marito, oramai ex.

La guerra dei Roses continua

Le scene da una matrimonio sono diverse, ma sempre le stesse. Cinquant’anni fa, Mastroianni fantasticava la morte della sdolcinata consorte, nel pentolone bollente del sapone fatto in casa o ingoiata dalla spiaggia trasformata in sabbie mobili. Nel film di Bergman (e di Lavia) c’è un momento in cui Johan, al colmo della rancore, dice che avrebbe voluto vedere Marianne morta. E anche in Storia di un matrimonio di Baumbach, Adam Driver urla a Scarlett Johansson tutto il suo odio, dicendole addirittura che sarebbe contento di saperla vittima di un incidente per non pensarci più. La guerra dei Roses continua, in un massacro a due che non accenna a finire. Nonostante i decenni, e un’età, quella della nostra cultura, che non ha portato saggezza.

I divorzi della terza età in quattro film

In maniera non sempre così violenta, per fortuna,  sono aumentati oggi i divorzi anche nella terza età, raddoppiati dal 2018 al 2015. Perché è aumentata l’aspettativa di vita, si è introiettato un diritto alla felicità per tutti, e ci si sente ancora portatori di progetti, perché no, sentimentali.

Un consiglio per la visione di quattro film che trattano questo tema nell’ultimo decennio

Il matrimonio che vorrei di David Frankel (2012)

Fay (Maryl Streep) e Arnold (Tommy Lee Jones) sono sposati da  trentun anni. Vittime, entrambi, del tempo che ha sclerotizzato parole e gesti. Vengono ripresi nella loro sfibrante routine mattutina: le uova al bacon in padella inquadrate da vicino, lui che legge il giornale, lui che va al lavoro. Si salutano con le stesse parole, poche e poche sono quelle spese durante tutta la loro convivenza. Ma Kay è ostinata e vuole ricominciare, sottoponendosi, lei e Arnold, ad una settimana di terapia lontano da casa. “Anche quando vai in terapia senza problemi, ne uscirai con dei problemi, perché ti toccherà dire cose che non si possono ritrattare”, sostiene lui, ma poi va, se pure recalcitrante. È uno stereotipo o una realtà, quello della moglie che vuole sviscerare i problemi di coppia e del marito che li nega?

45 anni Andrew Haigh (2015)

Kate e Jeoff (Charlotte Rampling e Tom Courtenay) sono a una settimana dal loro quarantacinquesimo anniversario. Fervono i preparativi, quando arriva la lettera che porta una notizia di morte: la prima fidanzata di Jeoff è stata trovata, congelata, nei ghiacciai delle Alpi svizzere. Improvvisamente, tutta la loro vita insieme viene messa in discussione.

Quando il passato irrompe con questa violenza, ha il potere di sconvolgere l’esistenza dalle fondamenta. In questo caso, anche la coppia si trova travolta dal fantasma di quello che avrebbe potuto essere, ma soprattutto dal dolore di aver costruito tutta la vita su una sorta di ripiego. La crisi dei quarantacinque anni di matrimonio di Kate e Jeoff  è la crisi della loro stessa identità

Le cose che non ti ho detto  di William Nicholson (2019)

Edward (Bill Nighy) lascia Grace (Annette Bening) dopo ventinove anni di matrimonio perché, da un anno, ha una storia con un’altra donna.  Glielo dice, così, una mattina a colazione  Grace non riesce a superare il trauma dell’abbandono. È un’anima devastata, ma forte nello stesso tempo, nel suo desiderio di ricominciare. Sono molto diversi Grace e Edward. Lei, amante della poesia, si nutre di parole e di emozioni profonde; lui, esperto di storia, soprattutto napoleonica, paragona la fine del matrimonio alla campagna di Russia: un’inevitabile sconfitta, per far sì che qualcosa si salvi. Lei continua ad amare e a combattere contro l’evidenza, lui si sottrae (modalità non nuova, si direbbe!). Il figlio Jaime (Jhos O’Connor) si trova coinvolto nella separazione e, se pure adulto, vive la sua dose di sofferenza.

La belle époque di Nicolas Bedos (2019)

Una commedia davvero brillante, e delicata, che vede l’ottima interpretazione di Daniel Auteuil e Fanny Ardant. Hanno una visione del mondo diversa, opposta e non se le mandano a dire. Lei si chiama Marianne, ma ha ben poco della dolcissima Marianne di Bergman. È un personaggio incattivito, mentre lui, Victor, è sarcastico in pubblico,  e ha un atteggiamento aggressivo passivo nel privato. La scena madre in cui lei gli urla che i suoi vestiti puzzano anche usciti dalla lavatrice, è straordinaria. La storia prende poi una piega stravagante, e porterà Victor a rivivere le scene della sua giovinezza, compreso l’incontro con Marianne. Un lieto fine, questa volta, ma la relazione descritta nella prima parte del film non ha niente da invidiare alle belle litigate tra marito e moglie che il cinema non ci ha risparmiato.

Breve filmografia (consigliata) sul tema della  coppia e delle separazioni, nell’ultimo decennio

Una separazione di Asghar Farhadi (2011)

Il passato di Asghar Farhadi  (2013)

Hungry Heart  di Saverio Costanzo (2014)

Dopo l’amore di Joachim Lafosse (2016)

Loveless di Andrej Zvjagincev (2017)

La tenerezza di Gianni Amelio (2017)

Storia di un matrimonio di Noah Baumbach  (2019)

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Da Divorzio all'italiana (1961) a Storia di un matrimonio (2019)