Bosco di Alicia Cano: un legame affettivo tra Italia e Uruguay. Intervista alla regista
Indissolubilmente legata a un luogo destinato a scomparire con solo 13 abitanti al momento, Alicia Cano racconta "Bosco" nel suo documentario omonimo in concorso al Festival dei Popoli di Firenze. Attraverso questo luogo rivive anche le emozioni e le sensazioni trasmesse dal nonno e dai racconti di quest'ultimo a proposito di un territorio che non ha mai visto, ma che conosce da sempre.
Per la realizzazione di BoscoAlicia Cano ha impiegato 13 anni, tra riprese, montaggio e viaggi. Dalle storie di suo nonno ha ricostruito il racconto di un luogo concreto, ma anche astratto. Nel concorso italiano del Festival dei Popoli di Firenze, Boscoracconta la storia di un legame unico che, anche a distanza di anni e di chilometri, continua ad essere saldo.
L’idea di Alicia Cano per Bosco
Come è nata l’idea per il soggetto di questo documentario?
Inizialmente è nata la ricerca più che l’idea perché io ho iniziato a girarlo nel 2007 dalla prima volta che sono stata a Bosco, ma, all’epoca, non avevo l’idea di fare il film. Giravo perché amo farlo per mia abitudine e sono arrivata a Bosco cercando le favole che mio nonno mi raccontava da bambina. Lì ho trovato era un paesino di 30 abitanti come lo avevo sempre immaginato dal racconto preciso di mio nonno.
Così ho iniziato a girare, per fargli vedere le immagini che lui non aveva mai visto, ma che conosceva comunque. Lui tramite quelle immagini ha cominciato a raccontare le sue storie, quelle che aveva appreso dai suoi genitori (perché lui era nato in Uruguay). Da lì in qualche modo è partito un percorso di memoria approfondito e una relazione anche con me che sono diventata la postina tra lui e gli abitanti di Bosco che si mandavano i regali. Il rapporto che ho con Bosco non si può spiegare a parole. In Uruguay si dice che “le nostre radici si trovano sulle navi” perché siamo un paese di immigrati e per me andare a Bosco ha significato cercare le mie radici.
E quando è nata l’idea?
Il momento in cui ho deciso di fare il film è stato nel 2014 quando i miei nonni hanno perso la casa. In quel momento io ho sentito una perdita che non avevo mai sentito prima perché quella casa era la mia infanzia. Ed ho pensato subito di fare un film su cosa vuol dire casa. Però poi la vita mi ha portato da tutt’altra parte: ho fatto un altro film, ho vissuto in India e ho lasciato questa idea.
La decisione finale, poi, c’è stata nel 2018. Sono andata a vivere quattro mesi a Bosco con la telecamera per sentire dentro di me il passo delle stagioni e capire cosa volevo dire del film. Mi interessava raccontare quello che si perde e quello che rimane. Ho visto Bosco sparire: 13 anni fa c’erano 30 persone, adesso 13. Tutti anziani, quindi è un paese destinato a scomparire. Volevo mostrare come vivono le persone di fronte al tempo, al ricordo, alla perdita. Per me è un film sulla resistenza, ma anche su cosa rimane mentre le cose spariscono. I personaggi di Bosco ci insegnano a lasciare andare e a dire addio. Loro imparano e, in qualche modo, insegnano.
Bosco è un’emozione
Si può dire che “Bosco” non è solo un luogo, ma è una “sensazione”, uno stato d’animo? Un qualcosa che per Alicia Cano ha un significato e che, in generale, per ognuno ha un significato diverso e ben preciso?
Sì, Bosco non è solo un luogo concreto, ma un luogo immaginato, sognato, perso, che esiste al di là della realtà e del tempo. Un giorno all’anno a Bosco si celebra, in qualche modo, la fantasia di un passato (il giorno dell’emigrante) quando tornano tutti i francesi originari di lì. Due anni fa a Salto in Uruguay, nella città dove abitava mio nonno, ho deciso di fare una cosa del genere e convocare le persone originarie di Bosco per fare un saluto in piazza Italia.
Non avrei mai immaginato che si sarebbero presentati in circa 60 e la cosa particolare era che nessuno era mai stato a Bosco. Tutti, però, sentivano un amore per quel luogo e parlavano di un’emigrazione dolorosa, di 100 anni fa. Sentire ancora questo legame per il paese senza mai esserci andato mi sembra forte.
Un grande legame tra Bosco e Alicia Cano
Quello che si evince fin da subito è un forte legame con l’argomento trattato. E questo è ancora più evidente nei momenti in cui vengono inserite le interviste a tuo nonno. Hanno influenzato in qualche modo le tue scelte sia stilistiche che “narrative”?
Per raccontare un luogo che esiste nella memoria, al di là del tempo e dei limiti geografici, era interessante nel montaggio rompere completamente il tempo e fondere passato e presente. In questo modo ho creato un presente che appartiene solo all’esercizio di memoria. Per me questo è stato una chiave del montaggio per riuscire a rendere questo luogo in questo modo, come una favola.
Poi ci sono i super 8 mm in una sequenza che appartengono a un francese originario di Bosco che va tutte le estati a Bosco. L’ho conosciuto ed è un affezionato videomaker che ha sempre girato la memoria di Bosco. Per rappresentarlo come un luogo sospeso nel tempo ho scelto di non far vedere il salto in Uruguay. Per me mio nonno era a casa sua sempre a prescindere da dove fosse fisicamente. La cosa importante era far vedere che lui non era a Bosco, poi non aveva importanza quanto lontano fosse. L’unica differenza è che lui parla spagnolo, non italiano.
Dal punto di vista stilistico, ma comunque anche legato al discorso di tenere un filo unico sia per il tempo che per lo spazio, ho notato che fai spesso uso di suoni naturali che privilegi rispetto a musica o suoni artificiali. Come mai?
Per me il suono di Bosco è particolare. Essere così piccolo, con il fiume così presente e con tutti gli animali è significativo. Spesso quando mi perdevo nel montaggio tornavo a cercare i suoni che mi potessero dare una dritta.
Tanti numeri
Un elemento ricorrente nel documentario è dato dai numeri. Non solo quelli relativi agli abitanti, ma in generale quelli nominati dalle persone. Hanno una valenza particolare?
Mio nonno ha sempre amato i numeri. Per lui tutto aveva un conto. In un momento mi sono detta che sarebbe stato bello misurare le distanze che ci sono tra la casa di uno degli abitanti e la fontana, la casa di un altro e il cimitero e ho chiesto quanti passi ci fossero, chiedendo alle persone di contare i passi a voce alta. In alcuni momenti i numeri possono essere anche una misura del tempo.
Quindi l’attenzione al tempo è legata anche al fatto che hai impiegato diversi anni a girare e realizzare il film?
Sì, sicuramente. Poi secondo me il tempo è una misura anche abbastanza arbitraria. E mi fa sorridere il fatto che ci ho messo 13 anni e adesso sono 13 gli abitanti di Bosco.
A volte c’è anche il tuo intervento diretto all’interno del documentario con la tua voce che fa domande, si incuriosisce e cerca di fare da filo conduttore a ciò che viene mostrato. Come mai la decisione di inserire anche Alicia Cano?
La grande domanda era quale sarebbe stata la mia presenza nel film perché alla fine è una ricerca personale. Io in realtà ho cercato di essere il più fedele possibile alla mia esperienza di Bosco che è stata quella di raccontare il paese attraverso i miei occhi. E quindi ho deciso di lasciare la mia presenza. Ho girato come se fosse un diario, come note filmiche. Solo negli ultimi due anni sono andata con il fonico e il fotografo. Il 70% del film sono io da sola con la telecamera e volevo sottolineare questo. Io cerco di far vedere quello che ho visto, sentito e vissuto. Secondo me è molto chiara la mia ricerca: stare lì con loro. Pretendere di fare un film oggettivo non è leale all’esperienza che ho fatto perché ho vissuto un rapporto intimo e personale con tutti loro.
Tornando un po’ alla tematica e al fatto che “Bosco” può essere qualsiasi cosa e non solo un luogoconcreto, mi ha colpito la sequenza nella quale viene chiesto cosa significa “casa”. Quindi volevo chiederti se per te Bosco è casa.
Che bella domanda. Spesso quando sono lontana e non riesco a dormire, chiudo gli occhi e mi immagino nel prato di Bosco a fianco del ruscello. Quando io chiudo gli occhi mi immagino a Bosco accanto al fiume. Credo che casa sia proprio quello perché so di essere protetta. Quindi Bosco è stato uno dei grandi regali che mi ha lasciato mio nonno, scomparso il mese scorso a 104 anni.
Anche questo documentario in generale è casa per Alicia Cano?
Sì, per me questo documentario è l’appartenenza che descrive il mio mondo perché ci sono i legami, l’amore profondo per questo luogo, la memoria degli antenati di un paese che non è mai stato raccontato. La memoria di Bosco è orale, raccontata di generazione in generazione ma non è mai stata scritta. Questo film mette insieme pezzi di un mosaico della storia di un paese.
A conclusione qual è il significato della sequenza che mostra la strada e la natura mentre si è in auto nel mezzo della nebbia? Può essere considerato un modo in cui vedere o dover vedere la realtà che magari deve essere filtrata in qualche modo?
È una camera car, ultimo piano girato anno scorso a novembre. Tornando da Bosco ho girato questo piano sequenza che viene subito dopo la perdita della casa dei miei nonni, dell’infanzia. Esprime quello che ho sentito io come questa sensazione di nebbia, confusione e di cosa viene dopo che finisce Bosco.
Scrivere in una rivista di cinema. Il tuo momento é adesso!
Candidati per provare a entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi drivers