Il premio Oscar Asif Kapadia, regista di fiction e documentari è tornato sugli schermi di tutto il mondo con il nuovo documentario futurista “2073”. La carriera del cineasta inglese, oltre a essere di tutto rispetto, abbraccia diversi generi: dal thriller al western, dal documentario al biopic, senza escludere il genere horror.
Locandina Festival CinemAmbiente
Ospite d’onore della 28ª edizione di Cinemambiente, il festival ospitato a Torino, Asif Kapadia ha presentato la sua ultima creazione “2073”, proiettata durante la serata di chiusura. Lo abbiamo incontrato durante la conferenza stampa, dove ha rilasciato una bella e interessante intervista, non solo sul suo ultimo progetto, ma anche sulla sua carriera e sui suoi progetti futuri.
L’intervista al regista premio Oscar Asif Kapadia
Puoi presentarci il tuo film 2073, ospite della nuova edizione di Cinemambiente?
Sono veramente entusiasta di essere qui e di presentare il mio film, di cui sono sceneggiatore, regista e produttore. È un progetto molto importante per me, anche perché profondamente personale. Mostra la situazione del mondo dal punto di vista politico, tecnologico e dei livelli di sorveglianza. Rappresenta la mia espressione personale su ciò che sta accadendo nel mondo e su ciò che potrebbe accadere.
Mi chiedo spesso: “Sono io che sto impazzendo, o è il mondo a impazzire?”
C’è una frase nel film di una giornalista che dice “ma questo non era un film di fantascienza?”.
Come regista io cerco sempre storie da raccontare ma non solo, cerco anche il modo di raccontarle in maniera innovativa. Trovare nuovi approcci é importante. Questo é un documentario, ma io vengo da film di fiction. Il mio primo film era un Western girato in India. Mi piace andare controcorrente. Stessa cosa con “Senna” che é documentario, nel quale però non ho inserito nessuna intervista per dare l’idea che fosse “fiction feature”. Lo stesso con “Amy” e con “Maradona“.
Frame dal documentario di Asif Kapadia “Senna”
Quando e come le è venuta questa idea di un creare un film sul futuro che parla di oggi?
Ho iniziato a prepararlo durante il covid, c’è voluto molto molto tempo. Ho cercato di mischiare i generi mescolando il documentario alla fiction, purtroppo però, le parti più spaventose sono quelle che vengono dalla realtà.
Guardando la tua filmografia, è evidente quanto sia variegata: si passa dal thriller al drammatico, dal musical al western. C’è anche l’horror (L’incubo di Joanna Mills), che io personalmente ho apprezzato molto. Mi chiedevo se avessi in programma una nuova storia da raccontare in chiave horror, o se è un genere che hai abbandonato. C’è un fil rouge che collega i tuoi lavori, al di là del genere?
In realtà “2073” che porto qui al festival è un documentario che, per molti aspetti, presenta delle sfumature horror.
Quella del fil rouge é una domanda molto interessante. Ciò che collega i miei film non è tanto il genere quanto una caratteristica ricorrente nei personaggi: sono tutti outsider che combattono contro un sistema corrotto.
Quindi, se dovessi realizzare un nuovo film horror, il personaggio principale avrebbe sicuramente questa caratteristica.
Asif Kapadia parla della realizzazione di “2073”
Una delle caratteristiche distintive del tuo lavoro documentaristico è la meticolosa ricerca del materiale d’archivio. Hai una linea guida che ti aiuta a selezionare ciò che realmente ti serve? E una domanda invece relativa a 2073: rispetto a quando lo hai girato, nel mondo sono avvenute altre catastrofi. Quale inseriresti oggi: la rielezione di Trump o la tristissima vicenda di Gaza?
I primi due anni sono stati interamente dedicati alla ricerca: archivi, audio, interviste.
Successivamente ho impiegato molto tempo per capire in quale direzione volessi portare questa storia. Ho condotto davvero tantissime interviste, leggevo in continuazione notizie, scandagliavo i social, sempre alla ricerca di eventi significativi e attuali. Raccoglievo tutto in un grande calderone e poi iniziava un lungo processo di scrematura.
Lo scopo finale era proprio questo: distillare tutte quelle ore di materiale per arrivare al punto centrale, all’essenza di ciò che volevo comunicare con questo progetto. Una volta trovato quel nucleo, arrivava la fase della scrittura della sceneggiatura.
Per dare un’idea concreta della mole di documenti analizzati: io e il mio team avevamo un gruppo di lavoro in cui inserivamo continuamente notizie e aggiornamenti da includere nel progetto. Nonostante il film sia ormai post-prodotto e sia stato presentato anche a Venezia, capita ancora oggi che io legga qualcosa di scioccante e senta il bisogno di scriverlo lì dentro, come se fosse un circolo vizioso che non si chiude mai.
Perché la scelta del numero 2073?
Volevo scegliere un anno non troppo lontano da oggi, proprio perché potrebbe essere un momento in cui i miei figli saranno ancora vivi. Mi sono chiesto: “che tipo di mondo vivranno i miei figli?”
Poi, semplicemente, trovo che 2073 sia un numero molto bello anche dal punto di vista grafico.
C’è anche un altro motivo: il 2073 è legato a uno scrittore che ammiro molto, H.G. Wells, autore de L’ultimo uomo sulla Terra, un’opera ambientata proprio in quell’anno. Questo collegamento letterario mi ha colpito e ha rafforzato la mia scelta.
Come pensi che un film, o il cinema in generale, possa aiutarci? Qual è il potere del tuo film?
La cultura, il cinema e l’arte in generale ci aiutano sempre a esprimere i nostri sentimenti.
Il cinema non è solo un’esperienza individuale, è anche un momento di condivisione — qualcosa che, purtroppo, negli ultimi anni si è perso sempre di più. Con l’avvento della tecnologia, le persone hanno imparato a comunicare attraverso uno schermo, e la stessa cosa è successa con il cinema.
In particolare, durante il periodo del Covid, le piattaforme streaming sono esplose, permettendoci di guardare film comodamente da casa. Ma io credo ancora profondamente che un film vada visto in sala, al buio, insieme ad altre persone, e poi discusso alla fine.
È lì che si crea un senso di comunità. E per me, questo è uno dei veri poteri del cinema.
Come avviene la ricerca dei personaggi?
Come ho detto prima, è fondamentale per me che i miei personaggi siano degli outsider, persone con una personalità forte, con qualcosa di significativo da raccontare.
Non sono sempre figure “facili”: a volte muoiono, come nel caso di Amy Winehouse.
Ma sono comunque personaggi importanti, che anche nella loro breve vita hanno lasciato un segno.
Un altro elemento che guida il mio processo creativo è alla base dello storytelling: il dramma, la tensione.
Cerco storie in cui succeda qualcosa di importante, qualcosa che possa davvero trasmettere un’emozione.
Frame dal documentario di Asif Kapadia “Amy”
Come è avvenuto il casting di Samantha Norton? Lei ha anche interpretato un personaggio in Minority Report, in qualche modo accostabile a quello che interpreta in 2073. È stata una coincidenza?
Samantha è un’attrice bravissima, ma nel suo caso, come per tutto il film, è stato importante che avesse una storia pregressa e documentabile con filmati d’archivio che potessi utilizzare all’interno della narrazione.
Un aspetto molto interessante è che il suo personaggio è molto simile a una parte della sua vita reale. Quando era molto piccola, proprio come il suo personaggio, ha trascorso molto tempo viaggiando con uno zaino in spalla, portando con sé uno di quegli uccellini impagliati, proprio come nel film.
Inoltre, Samantha è geniale e bravissima perché ha interpretato il personaggio in modo esemplare senza nemmeno parlare.
Ci sono progetti futuri in cantiere? Ha già visitato Torino?
Visiterò Torino domani e non vedo l’ora di andare al Museo del Cinema — è una tappa che aspetto da tempo!
Attualmente sto lavorando a diversi progetti: uno legato allo sport, uno alla politica e un altro su un gruppo musicale.
Voglio assolutamente realizzare un film in Italia, e potrebbe davvero essere a Torino… chissà!
Puoi dirci di più sul prossimo progetto che parlerà del gruppo musicale? Lo so sarebbe un mega spoiler
Assolutamente no, a meno che io non voglia perdere il mio lavoro (ride). Però posso dire che se tutto andrà bene lo vedrete in anteprima a Venezia il prossimo anno, quindi non manca molto.
Un’ultima domanda, più che altro una curiosità personale. Da enorme fan di Sarah Michelle Gellar, non posso non chiederle due parole sulla sua esperienza con lei nel film The Return (In Italia L’incubo di Joanna Mills).
Oddio, è passato tantissimo tempo!
È stata un’esperienza molto lunga e anche difficile dal punto di vista della messa in scena. Sarah è una grandissima artista, reduce ancora dal grande successo di Buffy, che forse portava ancora un po’ con sé.
Sicuramente aveva bisogno di una piccola pausa; infatti, dopo quel film ha fatto poche altre cose. Sono molto contento che sia tornata negli ultimi anni. Ci siamo incontrati a un festival un paio di anni fa e aveva una bellissima energia.