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Non solo Favolacce. Intervista con i fratelli D’Innocenzo

Fin dall’inizio volevamo smontare la quarta parete e manifestare al pubblico che tutto quello che avrebbe visto poteva essere messo in dubbio o respirato in maniera più trasversale!

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Dai successi delle anteprima berlinese a quelli ottenuti prima nella distribuzione on demand e poi in quella nelle sale, Favolacce dei Fratelli D’Innocenzo si affida al potere della parola per raccontare la realtà come non si era mai vista. Di seguito l’intervista con Fabio e Damiano D’Innocenzo.

“Non resto colpito dai fatti in se ma dalla sensazione di misteriosa reticenza che mi provocano, come se non tutto fosse scritto sulla carta, eppure presente con pesantezza.” Volevo partire da questa frase pronunciata dalla voce fuori campo (di Max Tortora, ndr) nella sequenza introduttiva, una delle più belle dell’ultimo cinema italiano perché oltre a essere indicativa del modo in cui raccontate la storia essa delinea come meglio non si potrebbe il rapporto tra scrittura e immagine contenuto all’interno del film.

Fabio D’Innocenzo. La tua più che una domanda è un’analisi peraltro molto acuta. Fin dall’inizio volevamo in qualche modo smontare la quarta parete e manifestare al pubblico che tutto quello che avrebbe visto poteva essere messo in dubbio o respirato in maniera più trasversale. L’accoppiata parole e immagini solitamente nel cinema non funziona perché secondo me si tende a non voler far parte di un gioco. Di solito ci sono queste voci fuori campo totalmente oggettive e secondo me veramente brutte mentre la nostra ambisce al gioco e al dubbio. Secondo noi questo mette in ballo un numero più alto di sentimenti. Quando una voce fuori campo diventa arbitraria dando allo spettatore la possibilità di agire con il proprio pensiero, con il proprio sguardo e con la propria vulnerabilità allora risulta interessante. Se così non è la stessa diventa la cosa più politica  – intesa in senso negativo – che può fare il cinema. Per cui speriamo di essere riusciti a sfondare questa quarta parete che poi era il nostro obiettivo. Il tutto senza entrare nei meandri del metacinema perché anche quelli ci spaventano parecchio.

Quello che fate è altrettanto pragmatico e affascinante perché mentre la voce fuori campo sottolinea l’esistenza di una realtà presente ma reticente, le immagini prendono spunto dalle parole mostrando  una realtà si visibile ma solo al microscopio: mi riferisco al primo piano delle formiche riprese sopra il muretto, trasfigurazione in chiave poetica del medesimo concetto. Lo stesso principio ispira la  costruzione della sequenza successiva, quella in cui da dietro una tenda scorgiamo il movimento di figure umane senza riconoscerne l’identità, ennesimo riferimento all’universo invisibile ma inquietante che brulica sotto l’apparente ordine delle cose. A conferma della stretta corrispondenza che esiste nel vostro film  tra immagini e parole.

Damiano D’Innocenzo. Come hai giustamente notato il film contiene tanti accostamenti che spesso non svolgono un ruolo puramente narrativo ma hanno una funzione di aggancio emotivo. Ci sono molti simboli che in quanto tali non vanno spiegati poiché sono radicati in noi e spesso colti dalla nostra impressione. Questo per dire che la tua chiave di lettura non sarebbe stata possibile se avessimo accentuato troppo questi simbolismi. Nel senso che paradossalmente tutto quello che fa riferimento al mondo interiore e ai collegamenti che facciamo nelle nostre vite avviene in modo naturale. Il nostro era un film sull’infanzia e dunque, gioco forza, sul ricordo, che è qualcosa di istintivo, di non preordinato. Suggerirli è qualcosa che ci siamo rifiutati drasticamente di fare. Giochiamo a carte scoperte perché non ci ergiamo a entomologi e neppure ci poniamo con uno sguardo privilegiato rispetto agli altri. Al contrario siamo nella stessa posizione dello spettatore, allo stesso modo della voce fuori campo che è il primo tra questi. Penso che  il segreto  dei tanti cortocircuiti e delle connessioni all’interno del film dipendano dal tipo di approccio che abbiamo avuto verso la materia del film.

 

A tal proposito a me è piaciuto il parallelo tra il concetto di realtà nascosta e l’alludervi delle immagini attraverso la ripresa di mondi presenti ma invisibili a occhio nudo.

DD. E’ una cosa molto bella e sono felice che tu sia riuscita a trovarla.

Sempre nel discorso introduttivo la sensazione è quella di essere di fronte a un doppio discorso: quello relativo all’introduzione della storia e l’altro, in cui ragionate sul cinema e sul modo di intenderlo e mi riferisco per esempio al potere affabulatorio della parola e alla fascinazione che ne deriva. Penso sia una cosa che vi appartenga.

FD. Sono totalmente d’accordo. Sappiamo quanto la parola possa essere seducente e insieme manipolatoria. Noi ci abbeveriamo di questa dualità: tra l’altro proprio il verbo e la sua scrittura sono stati il nostro primo sostentamento economico quando facevamo i  ghost writer. E’ la parola ad averci dato accesso a un sogno. Dall’altra parte, come spesso capita con l’arrivo dell’età adulta si diventa più scaltri il che nel campo in questione significa affilare i testi, renderli più sofisticati e per certi versi anche più subdoli. Più la si usa più ci si rende conto di come talvolta il suo utilizzo possa rivelarsi un autogol. E torniamo al parallelismo che hai trovato con gli insetti che invece non posseggono questo armamentario che a volte si può rivelare deleterio. Per certi versi Favolacce è un’opera molto silenziosa in cui ci sono tante parole degli adulti e pochissime dei bambini, peraltro sempre giuste. La  combinazione tra il poco e il tanto fa si che non ci sia eccedenza ma equilibrio, lo stesso che attraversa tutto il film.  D’altronde Favolacce è un film di equilibri. E’ stato preparato con questa ambizione e cioè con l’intenzione di fare un film che in un attimo perdeva il suo equilibrio e secondo me anche la sua decenza. Un pò come quando ti metti a fare un castello di carte in un noioso pomeriggio estivo: tutto si regge su quelle 3, 4 mosse. Appena hai un attimo di smarrimento ti perdi e finisce il gioco. In questo senso sapevamo che Favolacce era un’opera più rischiosa della prima. Mi piace molto come hai definito il nostro modo di fare cinema in relazione alla parola. In particolare il fatto di scorgevi una caratteristica affabulatoria

Il potere della parola e la sua affabulazione unita al contenuto del testo introduttivo funzionano come una sorta di ipnosi per la capacità di far perdere allo spettatore le coordinate del mondo reale, sostituito  dall’universo magico di cui si nutre la vostra favola nera. In realtà le parole introduttive parlano del cinema, del suo voyeurismo, palesato dalla lettura del diario segreto, come pure dei meccanismi che lo governano, svelati dalla volontà di mettere chi guarda nella condizione di fare sua la storia e di completarla.  Di fatto nell’introduzione parlate anche di questo.

DI. Assolutamente si. Vedi Carlo tu sei riuscito a decifrare gli elementi che noi avevamo messo in campo sin dal principio. Farlo in maniera manifesta era un modo per scardinare quelli che sono trucchi cinematografici come la suspense e il colpo di scena. In qualche modo il film dichiara tutto fin dall’inizio. Noi evitiamo di riprodurre l’ABC della drammaturgia classica e cioè di arrivare all’ultimo atto con una grande dose di sorpresa e con una catarsi finale. Volevamo cambiare questa struttura e quando tu parli di ipnosi io dico che da bambino ogni estate lo è di per se. Quindi il fatto che il primo atto del film sia estremamente lento e spaesante, con gli avvenimenti che non sono il risultato di azione e reazione, è un’altra testimonianza di quanto ci siamo allontanati da un caposaldo della drammaturgia, quello dello sviluppo aristotelico classico. Tutte queste cose le abbiamo fatte perché per noi raccontare il disordine non poteva essere fatto in un modo che non premiasse il caos e comunque la relativa impossibilità di decifrare immediatamente il significato degli avvenimenti. Se così non fosse stato ci saremmo trovati di fronte a un film a tesi che avrebbe spiegato in maniera molto puerile quello che poi il film essenzialmente fa e cioè lanciare un monito e una denuncia. Il nostro è un allarme silenzioso e tale volevamo che rimanesse.

Mi ha colpito molto la voluta letterarietà del testo come anche il tono composto e accurato con cui il narratore pronuncia le parole poi accostate all’esplosione gergale e concitata del linguaggio utilizzato subito dopo dai genitori dei bambini, espressione della ferinità e della rapacità dei rapporti umani che caratterizzano la storia. Tanto è composta la sequenza iniziale tanto sono sfrontate quelle seguenti.

FI. Si, anche questo è interessante e la tua è una domanda molto profonda. A tal proposito ti svelo un piccolo segreto: noi il testo della voce fuori campo l’avevamo già scritto in fase di sceneggiatura e abbiamo girato il film con quello in testa. Lo avevamo messo sulla pagina in maniera molto molto precisa e anche più cospicua di quella che in effetti c’è nel film. Una volta finito abbiamo rimesso mano alla voce fuori campo e l’abbiamo resa più controllata, più pacificata, forse anche più forbita, più calma, sempre per andare a contrasto con quello che invece offriva il film a livello di eventi, di violenze, di concretezza, della mancanza di una totale base culturale. Quindi volevamo quasi andare in rottura. Abbiamo fatto più o meno questo ragionamento in maniera intuitiva, senza neanche spiegarci il perché di questa scelta. C’è sembrata subito naturale contrapporre a quelle immagini così feroci e come hai detto tu, ferine, una voce del tutto in antitesi. Il reale motivo ancora forse non lo so ma ci sembrava essere la mossa più interessante da fare.

 

In un film sensoriale come il vostro questo contrasto agisce su chi guarda a livello epidermico creando una specie di corto circuito.

FI.Lo credo anche io.

L’inizio del film e in parte la fine mi ha ricordato in termini di contesto e pure di movimenti di macchina Reality di Matteo Garrone. Anche in quel caso si aveva a che fare con una sorta di favola nera. Sempre a Garrone ma questa volta a Gomorra ho pensato vedendo la sequenza del bambino che finge di sparare  con il fucile giocattolo. Mi riferisco al contesto ma anche alla tecnica di ripresa.

FI. Capisco a cosa ti riferisci ma nei casi specifici abbiamo guardato a Chantal Ackerman e a Brillante Mendoza. Detto questo penso sempre che lo spettatore debba essere libero di trovare collegamenti con quello che conosce. Noi ovviamente i film di Garrone li amiamo e anche inconsciamente delle cose ci sono rimaste dentro ma noi abbiamo visto tantissimo cinema e l’accostamento con Garrone spesso avviene per il fatto che abbiamo collaborato con lui in Dogman, ma non è così. Matteo è uno dei tanti che stimiamo. In Italia ce ne sono tantissimi, penso a Luca Guadagnino e ad Alice Rohrwache,  a Sergio Castellitto ed Enrico Iannaccone.

Come La Terra dell’abbastanza anche Favolacce è costruito su una concentrazione spaziale. Nel secondo però il fatto di circoscrivere l’ambiente non è l’espediente per raccontare una storia peculiare ma al contrario il viatico per trasformare la toponomastica iniziale in un luogo universale. Da questo punto di vista Spinaceto diventa una periferia del mondo.

DD. Proprio così. Nel film si parla spesso di Spinaceto anche se in realtà quest’ultimo non è l’ambiente in cui si svolge Favolacce. Più banalmente quello che hai detto lo facciamo sempre nei nostri film e cioè di essere sempre poco locali e il più possibile archetipici. Troviamo estremamente riduttivo confinare la storia ai pochi cittadini che abitano quello o quell’altro paesaggio. La terra dell’abbastanza poteva essere ambientato benissimo in una favela brasiliana mentre Favolacce in una suburbia americana e nessuno se ne sarebbe accorto. Noi cerchiamo sempre di parlare di meccanismi umani.

Non a caso nel film il romanesco è via via meno marcato e del tutto assente nei bambini.  Dal punto di vista scenografico c’è la tendenza a neutralizzare le particolarità: penso alla linearità delle villette a schiera il cui ordine contrasta con il caos delle vite che vi abitano.

FI. Giusto, giustissimo, questa è un’addizione che la letteratura americana ha cominciato a sviscerare fin dagli anni sessanta. E’ un archetipo per cui va benissimo ritrarre la tempesta in un luogo estremamente calmo. Inoltre ci sembrava molto più interessante che andare a girare questa storia in un posto chiassoso. Abbiamo fatto un film sulla periferia che è La Terra dell’Abbastanza e uno sulla provincia che è appunto Favolacce. Come diceva giustamente Damiano per noi collocare una storia significa cercare di evadere dalla sociologia e dunque da componenti geografiche troppo marcate.

Come Parasite anche il vostro tra le altre cose è un film sulla rapacità dei rapporti umani. Voi la mostrate attraverso le relazione dei personaggi in un microcosmo che non si occupa dei bambini e nel quale i genitori sono padri padroni, incapaci di supportare e di salvare i bambini. Si tratta di un messaggio forte e molto pessimista rispetto al nostro vivere comune. Direi addirittura sovversivo.

DD. Guarda, quando facciamo un film non pensiamo mai ai lavori degli altri e in questo caso Parasite non era ancora uscito quando abbiamo finito di lavorare alla sceneggiatura. Ti posso dire però che avevamo in mente narratori letterari come Roberto Bolano, Aldo Busi, William Falkneur, Alice Munro. Insomma questi sono i narratori che noi abbiamo letto e che in qualche modo hanno attizzato come un fuoco la nostra curiosità. Ti parlo chiaramente di autori che non hanno mai parlato essenzialmente di bambini e che però avevano un approccio alla letteratura spigoloso e fortemente disturbante. Un film che ho visto durante il lockdown e verso cui invece sento forte somiglianza con il nostro proprio per il suo essere antinarrativo è Burning di Lee Chan Dong.

Quello che hai detto è giustissimo essendo stata la nostra prima idea quella di mostrare una satira in cui i protagonisti, e cioè i bambini, non esistevano per chi popolava quella terra li. Che fosse un messaggio forte ce ne siamo resi conto subito nel momento in cui solo dircelo scatenava una burrasca interiore che ci riportava all’ età infantile che per tutti noi, e quindi immagino anche per te, non è stata una fase spensierata. Il fatto che un bambino debba essere sereno è una catastrofe. E’ quanto di più falso ci possa essere e la trovo una grande furberia degli adulti quella di affibbiare ai più piccoli la grandissima scusa della spensieratezza.

 

Come i film degli anni settanta e come oggi non fanno più Favolacce restituisce ai bambini una consapevolezza inedita perché nei nostri lugometraggi l’apatia dei giovani è il risultato del benessere borghese mentre qui deriva da una consapevolezza, quella di un’esistenza senza orizzonti. Favolacce ce li mostra nella loro complessità, recuperati agli istinti di morte e alle pulsioni sessuali di cui anche i bambini sono pervasi.

FI. Si tratta di una condizione  di cui il nostro cinema era conscio.  Mi vengono in mente Marco Ferreri ed Elio Petri solo per farti il nome di due grandi a cui facciamo fatica ad accostarci. Quello che dici è esatto; spesso i ruoli dei bambini in Italia vengono scritti male e messi in scena peggio. D’altronde nella realtà di tutti i giorni, anche in quella italiana, li consideriamo incapaci di capire e al massimo buoni per fare qualche battuta o per mostrare come sono carini. Il nostro film parla dell’esatto opposto. Nei loro confronti abbiamo avuto uno sguardo molto empatico e compassionevole perché nonostante tutto ci riteniamo ancora vicini a quell’età. In qualche modo bisognava mostrarli bambini, attratti dalla carne e da  tutto ciò che era diverso da loro. Invece di innamorarsi della ragazza anoressica costoro sono attirati dalla carne perché è qualcosa che non gli appartiene. Può dunque capitare che uno di loro, piccolo e mingherlino veda questa carne che straborda e improvvisamente venga rapito dal mistero che da essa si propaga. I bambini seviziano le lucertole perché vogliono interrogarsi su quello che c’è altrove e l’arrivo della femmina è uno di questi momenti. Quelli del nostro film non sono sempre rassicuranti e questa è una cosa che ci piaceva tantissimo. E’ stata una grande sfida, a cominciare dal cercare di far capire le nostre intenzioni ai produttori. Poi come dicevi  tu quando non hai film recenti a cui fare riferimento c’è sempre la domanda molto amletica in cui ti chiedono come farai a fare una cosa del genere. Noi ci siamo comportati con grande naturalezza, mettendoci ad altezza bambino.

A loro riservate una tenerezza a cui spesso è legata la presenza dell’acqua che rimanda non solo alla purezza primigenia ma anche alla sicurezza del ventre materno che poi è quello che  manca ai piccoli protagonisti.

FI. Volevamo che l’acqua fosse una specie di isolamento, l’unico spazio in cui i bambini potessero essere finalmente soli e in grado di guardarsi. L’unico modo possibile c’è sembrato quello di stare sotto qualcos’altro e quindi ci è piaciuto mostrarli in questo modo. Poi, però, c’è anche la scena in mare aperto in cui vediamo Germano, mai così brutto e orribile, disteso in quel lettino su un acqua verde e melmosa, fatta apposta per trasmettere qualcosa di allarmante. Rispetto a lui i figli danno l’impressione di andare alla deriva cosa che simbolicamente è. Questo per dire che a noi interessava molto il contesto dell’acqua e poi se ci pensi il papà distrugge l’unica possibilità di raduno silenzioso dei bambini che è appunto la piscina, addossandone la colpa agli zingari. Attraverso l’acqua si compie l’ennesima violenza che gli adulti perpetrano nei confronti dei bambini.    

A proposito di violenza, parliamo della scena iniziale, quella in cui le due famiglie si ritrovano a cena. A chi lo mette in difficoltà rispetto ai mancanti successi in campo lavorativo il personaggio di Germano risponde esibendo la bravura dei figli chiamati a leggere i brillanti voti delle loro pagelle davanti alla figlia dell’amico che invece a scuola ha qualche problema. Si tratta di una sequenza che è un po’ la sintesi della violenza psicologica insita nei rapporti umani. Non so se pensavate a questo nella scena in questione?

Ma certo, tutto quello che hai notato nel film è presente perché hai visto Favolacce in maniera attiva e questo tuo essere molto dentro la storia secondo me è legato a quel sano principio per il quale lo spettatore non è uno stupido. Noi siamo prima di tutto spettatori prima che autori e siamo felici di poter mettere nella storia il nostro vissuto con le dinamiche umane che abbiamo imparato a conoscere e che non vanno sottolineate. Come giustamente hai detto in quella cena c’è un profondo cameratismo ma dentro, in maniera più sottile, ci sono rancori e una lotta tra ultimi e penultimi che tale rimane.   

Se i bambini sono i protagonisti del film non c’è dubbio che le loro scelte sono condizionate dal rapporto con i loro genitori. In questo senso il personaggio interpretato da Gabriel Montesi pur con i suoi difetti è l’unico che si preoccupa del figlio, riuscendo laddove gli altri  falliscono. 

DD. Ti posso dire che il ruolo di Gabriel Montesi lo avevamo pensato come spartiacque nel senso che sapevamo che buona parte della riuscita del film sarebbe passata da lui. Non a caso era il personaggio più difficile da trovare in fase di casting. Il motivo per cui riesce a salvare il bambino risiede forse nel fatto che è il genitore più basico, quello con meno voglia di apparire e senza le velleità machistiche tipiche dell’uomo berlusconiano e salviniano. Inoltre è tra tutti il personaggio che più assomiglia all’animale. Non ragiona per comparazioni ma in maniera istintiva. Per questo appena vede un pericolo prende e scappa, portando via il figlio. Fortunatamente è un adulto privo di sovrastrutture anche se poi stiamo parlando di un uomo complesso. Non è un personaggio positivo, di quelli come purtroppo si fanno in Italia che sono o buoni o cattivi. Anche lui ha grandissime asprezze e molte debolezze però conserva una sua genuinità e il suo essere ruspante e direi rupestre lo salva e al tempo stesso lo condanna agli occhi degli altri adulti che non gli rivolgerebbero mai la parola. Ciò detto è l’unico che si salva e che sta dalla parte del bambino, quindi è un eroe. Questa miscela di contraddizioni ci interessavano tanto e volevamo che l’attore le potesse sublimare senza mai doversi in qualche modo chiedere se il personaggio è positivo o negativo, cosa che nella vita non accade mai e che invece nel cinema ti viene richiesto anche in fase di preparazione quando il produttore che viene da te e ti chiede: “Ma questo personaggio è buono o cattivo?”

Per parlare della forma del vostro film scelgo una delle sequenze più belle, quella in cui vediamo in campo lungo una cena che si risolve in maniera drammatica, con il personaggio di Germano che  prima salva il figlio che si sta per strozzare e poi dopo un pianto di tensione abbandona il resto della famiglia imprecando alla vita.

DD Il modo in cui è stata girata è esattamente quello in cui è stata montata. Noi quel giorno eravamo pieni di lavorazioni dovevamo finire le riprese alle due di notte e alle 22 abbiamo mandato tutti a casa. Dunque abbiamo fatto solo le due inquadrature che tu hai visto. Chiaramente puoi immaginare l’aria di bufera presente sul set. I registi con le idee chiare a volte vengono capiti e abbracciati, altre sono percepiti troppo estremi. Noi avevamo idee estremamente chiare su quella scena: volevamo che ci fossero solo due inquadrature, con una grande distanza tra noi e il centro dell’azione perché sapevamo che costringere lo spettatore a quella lontananza avrebbe aumentato il suo pathos e la sensazione di non poter fare assolutamente niente Dunque abbiamo trovato molto emozionante girarla così. Poi quanto più le situazioni sono importanti tanto più ci piace allontanarci come fanno gli animali. Anche ne La terra dell’abbastanza c’erano tantissimi campi lunghi in cui altri registi avrebbero fatti altrettanti piani e contropiani rallenti etc etc. A noi piace togliere ogni possibile sostanza dopante all’immagine e alla narrazione. Se una scena funziona secondo me la puoi inquadrare anche da 400 metri, non c’è bisogno di stare a ridosso. Certi modi di girare sono legati a un gergo cinematografico estremamente datato, estremamente americano. Sempre con questa volontà di dopare le emozioni e il calore, magari facendo un primissimo piano del bambino mentre si strozza. Trovo tutto questo molto poco interessante e soprattutto avremmo privato lo spettatore di quella sensazione di resa derivata dall’essere costretto a guardare una cosa sgradevole senza poter in qualche modo intervenire e questo ci piaceva tanto. Ti ho raccontato la genesi della scena per dirti che non siamo arrivati al montaggio con 500 inquadrature. Avevamo previste solo quelle due. Le abbiamo messe in fila e la scena è stata creata.

Descrivete Favolacce come un film muto. A maggior ragione il suono acquista nella storia un importanza preminente perché in molti casi è sua la funzione di restituire la complessità interiore dei personaggi.

FI. Per quanto riguarda il suono oltre al sound design che è durato mesi noi volevamo riprodurre la calura estiva e il cicaleccio onnipresente per schiacciare i personaggi sotto una specie di sortilegio in cui le poche parole da loro emesse vengano sommerse da queste cicale, come se ogni cosa che può essere detta si riconduce al cameratismo degli adulti che parlano per frasi fatte e con dialoghi che sanno di aria fritta. Al contrario  i bambini cercano di stare il più possibile in silenzio e quando parlano vengono sommersi e sovrastati dall’uso della musica che è meravigliosa in quanto tratta da Città Notte di Egisto Macchi, ammirato tra gli altri dal maestro Morricone. Parliamo di un compositore che ha fatto tanti lavori per il cinema spesso per sovvenzionare le sue attività da musicista e i suoi dischi autonomi. In questi ultimi lui metteva una componente musicale in cui si passava dal progressive rock al quasi futurismo e all’avanguardia. Quindi c’erano queste sonorità spesso molto minacciose, spesso disarmoniche e questo in qualche modo ci sembrava il sottofondo ideale, qualcosa che fosse suadente ma spiacevole come appunto tutto il film.

Dal punto di vista interpretativo Favolacce è un film collettivo in cui ogni attore ha grande e medesima importanza. Di fronte a un cast del genere come si affronta e come vi si lavora.

FI. Non è stato affatto complicato. Se c’è una cosa che pensiamo di fare bene è quella di lavorare con gli attori perché abbiamo fatto un percorso teatrale lunghissimo con Valerio Binasco: abbiamo anche lavorato a teatro, abbiamo visto l’attore e la persona, le sue aspettative e tutto ciò che si porta dentro come mondo. Noi amiamo gli interpreti e facciamo questo lavoro per loro. Amiamo gli attori e li consideriamo l’unico metro di giudizio di un film, nel senso che non ho mai visto un lungometraggio buono in cui ci fossero attori pessimi; quando questi sono bravi il film funziona. Poi, certo, ci può essere una maggiore fotografia, una storia più bella, ma se gli attori funzionano il film funziona. A questa cosa credo fortemente e ogni scelta che facciamo sul set è legata innanzitutto alla buona riuscita della loro performance che poi è la più importante che c’è nel cinema perché è lui che mette la faccia e parte della propria vita sullo schermo. Per fortuna i registi rimangono nell’ombra e così anche gli altri che magari fanno ruoli più faticosi, forse meno privilegiati. L’attore però mette la faccia quindi da noi ha tutto il nostro rispetto e l’impegno affinché possa splendere e brillare, sentendosi felice di quello che ha fatto. Con i bambini è stato difficile lavorare perché loro possiedono una cosa molto autentica che è la ritrosia nel senso che se vedono un adulto che in qualche modo prova a prendersi gioco di loro si chiudono a riccio e non ti danno niente.

Dunque l’idea che volevamo dargli era che noi fossimo con loro quindi gli abbiamo mostrato da subito le nostre debolezze, le nostre asprezze; non ci siamo fatti belli della nostra posizione legata all’età o a un rango maggiore come quello del regista che si aspettavano dotato di una natura giustamente barbina, noiosa e autoritaria. Al contrario abbiamo subito giocato con loro riuscendoci a farci accettare. Tra noi c’è stato uno scambio al limite dell’astratto. Le finezze che sono uscite lavorando insieme sono state qualcosa di molto bello. Non pensavamo che con i bambini saremmo riusciti a raggiungere un risultato cosi credibile. Ogni volta che vedo il film mi sorprende osservare come questi ultimi sembrino dei maestri come realmente sono. Noi non li abbiamo limitati, costringendoli a fare le faccette e le poche cose che ti chiedono spesso al cinema o in televisione. In generale siamo registi molto rispettosi degli attori e te lo ripeto perché è una cosa a cui teniamo molto. Noi facciamo questo lavoro per loro.

Favolacce sancisce il connubio tra il cinema d’autore e quello di genere, quest’ultimo finalmente accolto senza paura di sminuirsi nel confrontarsi con le sue regole e  le sue forme.

DD. In questo momento penso sia assolutamente ridicolo parlare di cinema d’autore solo perché un film tratta di alcuni temi. Come hai giustamente detto il fantasy, l’horror, il thriller sono tutti generi che forse ci spiegano più da vicino e in maniera più precisa quello che stiamo vivendo. D’altronde la realtà di oggi assomiglia a un horror o a un film catastrofico come 28 giorni dopo di Danny Boyle mentre la vita politica potrebbe  benissimo essere ricostruita da un film comico o ancora da un horror. Noi viviamo in un mondo che in questo momento è genere purissimo per questo l’acquitrino del film che ti strappa la lacrima anche in maniera seducente, un po’ ammiccante, e senza esporsi, quello che noi chiamiamo il cinema rachitico a noi fa schifo come spettatori quindi riproporlo sarebbe una barzelletta. L’idea che il cinema d’autore sia una comunità di eletti lo trovo abbastanza altezzoso e imbarazzante, frutto di un complesso d’inferiorità che tanti registi hanno verso il lavoro che fanno e che dovrebbe essere semplicemente quello di raccontare storie.   

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