Gli uomini d’oro è la brillante commedia di Vincenzo Alfieri, al quale abbiamo fatto alcune domande in merito.
La nascita de Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri
Come mai, con Gli uomini d’oro, Vincenzo Alfieri ha deciso di riportare questo argomento al cinema? E perché sotto forma di commedia noir?
Ero alla ricerca del mio secondo film e sentivo di voler raccontare una storia vera italiana. Poi c’è da dire che sono da sempre stato affascinato dal mondo criminale, essendo un fan di Martin Scorsese e Brian De Palma. Però mi piaceva più un’idea alla Fargo, cioè analizzare e mostrare come fanno delle persone normali ad affacciarsi alla criminalità e cosa succede loro nel momento in cui lo fanno. Un caso fortuito mi ha messo di fronte a questo fatto perché il mio cosceneggiatore, Renato Sannio, mi fece leggere questo articolo di giornale del 1996 su “Gli uomini d’oro” dove c’era proprio scritto che un eventuale film su questo fatto sarebbe sicuramente iniziato come I soliti ignoti e sarebbe finito come Le iene di Tarantino. In realtà questo per me non è una commedia, ma lo ritengo più un crime con delle tinte di commedia all’italiana.
Oltre ad essere il regista, sei anche il montatore del film. C’è un motivo particolare dietro a questa scelta nel senso che hai voluto che la trama e il montaggio fossero indissolubilmente legati e che attraverso uno si comprendesse a pieno l’altro e viceversa? Si può dire che il montaggio è una chiave di lettura per gli Gli uomini d’oro secondo Vincenzo Alfieri?
Di solito per rispondere a questa domanda, per me difficile da spiegare, dico che mi sento come un cantautore. Nel senso che quando scrivo un film penso già a come lo girerò e come lo monterò. La maggior parte delle inquadrature sono già pensate per un dato montaggio e un dato ritmo. Ed è sempre stato così: è una mia cifra stilistica. La mia personalità credo riesca a venire completamente fuori solo alla fine del montaggio. E lo ritengo molto importante soprattutto in questo film, dove si può assolutamente affermare che è una chiave di lettura del film.
La struttura de Gli uomini d’oro voluta da Vincenzo Alfieri
Riguardo la struttura, il film è diviso in capitoli che permettono di entrare dentro ogni singolo personaggio e comprendere ogni volta qualche dettaglio, movimento e decisione in più. Cosa puoi dire a proposito della decisione di raccontare la storia in questo modo?
Quella è stata la mia prima idea perché di film sulle rapine ne sono stati fatti tanti (ogni anno ne esce almeno uno), però sulle motivazioni che spingono le persone a fare una rapina non ce ne sono tanti. Inoltre l’intreccio del film è molto complesso. E la storia vera aveva molte più cose che non sono state inserite per mancanza di tempo. Attraverso questa divisione in capitoli ho cercato di far capire le motivazioni che hanno spinto queste persone a prendere una decisione del genere. E questa cosa ha reso il film ancora più complesso da scrivere perché abbiamo impiegato quasi un anno per la stesura della sceneggiatura.
Sempre in relazione a questa divisione, quello che ho percepito vedendo il film è un’attenzione particolare al tempo e un cercare di giocarci continuamente dilatandolo e creando molta suspense. Mi vengono da citare ad esempio la scena dell’interrogatorio a Alvise (Fabio de Luigi), ma anche la corsa in moto del Lupo (Edoardo Leo).
Sì e, oltre ad un gioco con il tempo, c’è anche un gioco con il ritmo. Il primo capitolo è quello più frenetico, il secondo è quello più “seduto”. Tutto va di pari passo con i personaggi. Meroni (Giampaolo Morelli), ad esempio, vede e vive le cose in modo frenetico; il personaggio di Fabio De Luigi, invece, è un cardiopatico, quindi ho pensato a come potesse sentirsi. Conoscendo delle persone così, ho notato che hanno una percezione della vita diversa. In particolare la scena dell’interrogatorio poteva durare anche altri dieci minuti in più. Inizialmente, dopo il primo montaggio, il film aveva una durata maggiore. Poi, per un discorso commerciale, è stato scelto di ridurlo, ma volevo rendere il fatto che ci sono dei momenti della vita che non passano mai.
Il cast del film
Una domanda, invece, sulla scelta del cast. È un caso che i tre attori protagonisti abbiano provenienze completamente diverse?
Nella storia reale erano tutti piemontesi, tranne il Lupo (piemontese, ma con parenti albanesi) e anche la compagna era albanese. Ma per la realizzazione di questo film mi piace fare riferimento ad una frase che uso sempre: “ciò che è vero non è verosimile” quando si tratta di cinema. Aver dato a Meroni la provenienza del sud ha creato tra lui e il suo collega un conflitto in più (il classico contrasto tra nord e sud). Questo perché dovevo anche trovare il modo per creare dei micro inneschi ed ho aggiunto delle note di colore. In questo caso specifico un napoletano che sta in Piemonte sa qual è il dolore di non vedere il mare e quindi ha il sogno di andare in Costa Rica; un piemontese può avere lo stesso sogno, ma non come uno che era abituato a vedere il mare.
Tornando all’analisi tecnica del film una cosa che risalta è l’attenzione ai particolari e le inquadrature precise e dedicate a piccoli dettagli ai quali si uniscono quelle frequenti dall’alto (soprattutto nella prima parte).
La regia è stata concepita a seconda degli stati d’animo. Nel capitolo del Meroni, essendo un playboy, abituato a un tipo di vita più frenetica e glamour, le inquadrature sono dei veri e propri quadri; con il personaggio di Fabio De Luigi, invece, ci sono inquadrature dal basso perché per me voleva dire far vedere che c’è qualcosa da dentro che sta ribollendo. Quando invece la ripresa è dall’alto è come se ci fosse qualcosa di più grande di loro che sta accadendo in quel momento.
Suoni e colori particolari
Un altro elemento è il suono: la sveglia ridondante (che poi viene letteralmente distrutta) nel primo capitolo, il telefono nel secondo e gli spari nel terzo (ma in parte anche nel secondo). Come definiresti questa scelta?
Non esiste un aspetto del film da trascurare (soprattutto quando si tratta di un film sui personaggi, sulle emozioni). Ad esempio, quando il personaggio di De Luigi spara, allo spettatore deve arrivare una botta perché deve percepire allo stesso modo in cui lui percepisce lo sparo. Ed è tutto giocato su questo, tutto maniacalmente pensato e studiato.
E poi ciò che risalta subito all’occhio è la scelta della colorazione, satura, cupa, molto scura all’inizio, in linea con la trama e in particolare con la realizzazione concreta del colpo. In alcune sequenze sembra proprio di essere all’interno di un noir, nella classica scena della macchina parcheggiata fuori durante la notte, la pioggia, il silenzio e l’uomo con il cappotto che probabilmente nasconde qualcosa o fugge da qualcosa o qualcuno. È stata una scelta dettata dal fatto che si tratta di un fatto reale di cronaca e quindi conferisce veridicità e autenticità o perché rimanda al cinema noir? O entrambe le cose?
Entrambe le cose. Sia perché è un fatto vero e reale sia perché è un film di genere e io amo andare al cinema da spettatore e vedere un film che sia tale e che mi permetta di entrare in un altro mondo. Come regista la mia aspirazione è che quando tu ti siedi ti stacchi un attimo da tutto e guardi un film, come sono stati per me i film con i quali sono cresciuto. E, quindi, anche attraverso la fotografia volevo dare questa sensazione.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli