La memoria e l’oblio. Il rancore e la pietas. L’introversione e la spacconaggine. Senilità e giovinezza. Tante le contrapposizioni che entrano in gioco nella drammaturgia solo apparentemente facile di Tlmočník (The Interpreter, 2018), una tragicommedia il cui andamento camaleontico regala sprazzi di ludica e forsennata euforia, per poi sprofondare in abissi di insospettabile profondità. Ne è autore Martin Šulík, regista tra i più importanti nell’attuale panorama del cinema slovacco. Ma è soprattutto l’attempata coppia protagonista a dare nell’occhio: da un lato Peter Simonischek, pirotecnico interprete austriaco già enormemente apprezzato in Toni Erdmann; e dall’altro una leggenda vivente come Jiří Menzel, che in teoria non avrebbe neanche bisogno di presentazioni. Tuttavia, ci piace rimarcare quanto il grande cineasta ceco, che con Treni strettamente sorvegliati vinse anche un Oscar, si sia dimostrato adeguato ad un ruolo tutto improntato a timidezza, scetticismo, ipocondria, senso della misura e gentilezza d’animo.
Due ritratti differenti della terza età, quindi, con l’esuberanza del tipo incarnato da Peter Simonischek a bilanciare il carattere decisamente più misurato e introspettivo del personaggio di Menzel. Ma c’è dell’altro a definire il loro rapporto. In primo luogo le circostanze così singolari e indubbiamente a rischio del loro incontro: figlio uno di un criminale nazista, l’altro della coppia di ebrei fatta giustiziare proprio da quell’ufficiale tedesco. Il primo impatto sarà infatti assai brusco. Ma nel comune interesse per la ricerca di verità rimaste troppo a lungo sepolte si stabilirà poi un curioso rapporto umano, non privo di asperità, ma sempre più intimo e complice.
The Interpreter si è pertanto rivelato uno dei lungometraggi di finzione più convincenti, tra quelli in concorso all’ultima edizione del Trieste Film Festival. Tutto ciò, nonostante una primissima parte dall’impronta alquanto televisiva e fin troppo sbilanciata verso il registro farsesco. Strada facendo però la drammaturgia si stratifica ulteriormente, senza rinunciare a qualche siparietto grottesco, ma affondando all’occorrenza il bisturi nelle contraddizioni esistenziali dei personaggi. L’affiorare di ricordi e testimonianze dalle pagine più oscure della Seconda Guerra Mondiale appare perciò non il solito atto dovuto, bensì una problematica etica talmente viva, reale, da mettere continuamente in discussione l’equilibrio emotivo dei due protagonisti e i loro rapporti interpersonali. Fino a coinvolgere altri punti di vista, ad esempio quello dei famigliari di un collaborazionista slovacco contattati durante il viaggio; come a dire che la tanto difficile relazione con ciò che si è ereditato dai padri, tema fondamentale di questo atipico road movie nelle terre dell’Europa Centrale, non va mai incontro a semplificazioni e banalizzazioni. Di conseguenza il pathos sprigionato da tale narrazione cinematografica è destinato progressivamente ad aumentare. In un caleidoscopio di emozioni che trova poi il giusto sigillo nella svolta finale del racconto, tanto spiazzante quanto densa di significati.