“Antonio Rezza e Flavia Mastrella, ovvero un raro ed emblematico esempio di un’esperienza incontrollabile degli estremi, pratica agita senza misura e senza moderazione che tenga, passando dalla sfrenatezza esagitata del teatro, alla sfrontatezza spiazzante della televisione, sino all’indolenza catatonica di parte del loro cinema”
Mi sento un accessorio della società, un soprammobile della civiltà contemporanea. ‘Ndo me metto, sto male. Dovunque faccio danno. Mi siedo in un angolo e penso: <<forse sto messo male>>. Mi sposto e penso: <<Forse stavo messo meglio prima>>
Antonio Rezza e Flavia Mastrella, ovvero un raro ed emblematico esempio di un’esperienza incontrollabile degli estremi, pratica agita senza misura e senza moderazione che tenga, passando dalla sfrenatezza esagitata del teatro, alla sfrontatezza spiazzante della televisione (Troppolitani) sino all’indolenza catatonica di parte del loro cinema (Il vecchio dentro, Torpore Inernazionale, L’orrore di vivere). In tutti i casi ad essere colpita al cuore, ferita e sconvolta, è l’efficienza del gesto, ripetuto ossessivamente o mancato in pieno.
S – Antonio, più volte imbattutomi nella tua ricerca, ho visto nel lavoro che compi su te stesso e con te stesso quanto di più lontano ci possa esser da qualsiasi (am)missione “sociale” dichiarata. Penso ad esempio alle dediche con cui inauguri i tuoi libri: “a nessuno” e poi “ a tutti coloro”.
A – Dedicare un libro, se qualcuno non è morto, è sempre una finzione. Se ami la persona a cui dedichi, non serve spiattellare sulla pagina il tuo amore. Così per la gratitudine. Anche la dedica a chi è morto sarebbe posticcia. Però è nobilitata dal fatto che chi è morto è morto per sempre, mentre l’amore non dura.
S – E poi persiste in voi quell’attitudine (voluta o subita?) a sfuggire al mercato, a preferire l’effimero consumarsi sul palco senza tregua, sfinendo il corpo e la parola, lacerando le stoffe, moltiplicando le forme e le identità tra metamorfosi e trasfigurazione, piuttosto che il farvi catturare in una confezione riproducibile in larga scala, in un ruolo definito, in un personaggio identificabile.
A – L’attitudine subita diventa con il tempo voluta. Oggi io e Flavia Mastrella siamo quel che subivamo. Certo a chi infligge le sue scelte auguriamo sempre che venga dedicato qualche libro.
Qui non si racconta la storiella della buona notte, qui si porge l’altro fianco. Che non è la guancia di chi ha la faccia come il culo sotto. Il fianco non significa se non è trafitto. Con la gola secca e il corpo in avaria si emette un altro suono. Fine delle parole. Inizio della danza macabra.
S – Il vostro lavoro resta inafferrabile, imprevedibile, anche per quella “scrittura scenica” fatta di una irripetibile non coincidenza tra il mai scritto e l’orale dell’atto scenico-filmico. Perdendo per strada e poi ritrovando altrove i fili ben poco narrativi delle tue storie, nei vostri “spettacoli” tutto sembra essere legato alla situazione presente: tutto succede lì, in quell’attimo. Non c’è rappresentazione, non c’è ri-presentazione. Solo un corpo, una voce, e le macchine sceniche di Flavia Mastrella. Così come nel vostro cinema ogni inquadratura sorprende per la non corrispondenza alla “grammatica” filmica.
A – L’unica cosa vera è ciò che succede in scena. E quel che accade in scena è sempre meno vero di ciò che non c’era prima che accadesse. Chi vede un nostro spettacolo assiste a un esperimento riuscito e matematico. Ma chi ha visto le prove aperte dei nostri lavori conosce la fragilità dell’insicurezza. Solo che non se ne accorge perché vive le prove aperte come spettacoli pronti. Insomma è inutile mostrare il lato debole a chi non ne ha diritto.
S – Lontano da ogni ipocrisia e da ogni speranza, il vostro lavoro ha la rara fermezza – la lucida ferocia – del non voler consolare. È un percorso scomodo e necessario, violentemente inadeguato a finire al seguito di un preciso orizzonte politico.
A – La consolazione della narrazione razzista e precotta è lontana dalla negazione del diritto allo sperare. Noi spareremmo sempre e non spereremmo mai.
S – In te ritrovo la sopravvivenza dello spirito di Alice, la sovversione “rovinosa” del Dada, l’angoscia del Sisifo che prende coscienza di non potersi sottrarre alla sua fatica quotidiana: nel corpo e nella voce di una presenza su palco fatta di nervi, convulsioni, traiettorie di ricerca dello stato ideale, devianze da ogni stabilità, divertita inquietudine della relazione con chi guarda. Colui che sta sempre al lato (buio) dell’ignobile azione rassicurante d’ogni apparato assistenziale, sia esso lo Stato, il Dio o l’intrattenimento organizzato per consolare e mandare in vacanza il pensiero.
A – Il teatro di ordinanza non riconosce la nostra immensità. Chi leggerà la tua tesi penserà a noi come a due arroganti megalomani. Poi quando si viene catturati dalla nostra messa in scena ogni pregiudizio sparisce. Il teatro di stato non ci fa entrare nelle sue grazie miserabili. E noi lo disprezziamo. L’unica possibilità è dimostrare ai professori che noi viviamo in un’unica ossessione. Che solo grazie al pensiero fisso dell’idea riusciamo a essere gentili.
S – Una figura non vendibile, non acquistabile, non catalogabile, sgusciante ed in movimento come la percezione della vita che prosegue sempre altrove dal punto in cui pensiamo di poterla afferrare. Sfuggente, “laterale” eppure pervaso dalla volontà costante di “metterti in mezzo”, con urgenza e con l’esigenza di non separarsi o allontanarsi, poiché ancora una volta è bene ripetere, non dovrebbe permanere l’equivoco che la vita sia da una parte ed uno “spettacolo” dall’altra. Metter in mezzo gli spettatori, emotivamente e fisicamente, mettersi in mezzo agli spettatori per non lavorare ad una separazione dei ruoli e dei momenti…
A – Nessuno è senza inganno. Chi è lì lo sa. E non può non essere lì in quel momento. Il problema è quando se ne va. Perché forse non vorrebbe. Ma la vita lo chiama. Io se potessi vivrei in un teatro.
S – Alla fine dei vostri spettacoli succede sempre qualcosa di particolare. Ti lasci applaudire, ringrazi, ti allontani. Poi però accade qualcosa d’eccezionale e luminoso. L’esitazione ad uscire, la titubanza del non voler finire, sembra conquistare i tuoi passi. È tua la corsa disperata del non voler abbandonare quel palco sul quale la vita scorre sfrenata e libera, dove irrompe qualcosa che, una volta tornati dietro le quinte, c’è il presagio che si debba spegnere inesorabilmente per lasciar spazio alla lotta triste.
Quegli occhi in cerca d’appiglio, quel corpo in attesa di sostegno, quell’anima in cerca di qualcuno che la scuota di colpo s’arrestano per un istante che si fa eterno. Indagano la platea, fanno riposare la macchina corpo tesa fino allo stremo durante lo spettacolo. Si fanno in parte imploranti d’un urlo che questa volta arrivi dall’altro lato della ribalta.
Quegli occhi prendono tempo, quel volto incerto prova ancora a rubar la scena e ritardare l’inesorabile franare progressivo di quell’atmosfera d’evento unico che si crea nell’attimo della creazione attoriale.
Il tuo tendere al non finito, quegli attimi di sospensione in cui trattieni nell’inaspettato il pubblico, sono la beffa finale alle convenzioni e alla coazione a ripetere.
“Intanto arriviamo/arriviamo sempre./ Ci fosse una sola volta in cui non arriviamo./Dovremmo arrivare meno/arrivare poco./E a poco a poco non arrivare più./E invece arriviamo spesso, mentre la fine non arriva mai.”
A – Credo che il rimanere troppo sul palco dopo l’esibizione non sia una cosa buona. D’accordo, faccio fatica a staccarmi, ma non posso essere quello che ero fino a pochi attimi prima. Non posso più muovermi nelle macchine infernali di Flavia Mastrella che mi danno lo spasmo ogni sera. Quando mi fermo lì mi sono inferiore. Un giorno smetterò.
S – E infine, il credo nell’oblio e nel non pre-vedere mi sembra siano ulteriori s-punti e appigli possibili per un discorso intorno alla confutazione di quella “gerarchia (dell’utile o del bello o del giusto) di cui non vuoi aver diritto” e che a mio parere si avvicina a tante delle tracce che ho provato ad affrontare per il mio “progetto” contro le costrizioni del dover stare nel posto e nel modo che (dall’alto) si ritiene più utile…
A – Lo stato, l’istituzione, il potere delle giacchette blu che si muovono a ventaglio mosse dal vento con tanto culo sotto. Quasi sempre maschi poi. Il culo dei maschi a sorreggere le istituzioni. Il culo del maschio ladro e corrotto. E poi arriva qualche donna che diventa maschio perché incapace a reggersi sul proprio culo. Ecco cos’è il potere, una folle corsa al culo che non ti appartiene.